Il liberalismo hegeliano del Mezzogiorno

II.

A. C. De Meis

    Intanto che Bertrando Spaventa tentava una risoluzione critica del problema di autorità e libertà, tutta la forza dell'universalismo autoritario si palesava nel pensiero di Angelo Camillo De Meis, che pur esso, dopo aver preso le mosse nel periodo epico del '48, si manifestava in forma sistematica tra il '68 e il '69, suscitando una fiera e famosa polemica carducciana. Ma laddove nello Spaventa siamo in presenza di una elaborata e complessa maturazione di un pensiero identico sostanzialmente con sé stesso dagli inizi alla fine, qui invece, come in uomo più vicino alla politica parlamentare, troviamo un divario notevole tra l'atteggiamento quarantottesco e la posizione definitiva assunta dopo il '60. Nel 1846 il De Meis, presentandosi candidato al Parlamento napoletano, affermava con entusiasmo rivoluzionario l’apocalissi costituzionale e democratica. La salvezza dello Stato era per lui nel Parlamento nazionale, supremo arbitro e direttore della guerra d'indipendenza. Debellata l'Austria, "la mente italiana continuerà nel seno della libertà la sua logica evoluzione. Tutte le opinioni devono perciò essere abbandonate al loro sviluppo, e punto non devono essere impedite nella loro manifestazione, comunque contraria esser possa all'attuale ordine di cose". Più schietta affermazione liberista non si potrebbe desiderare: ma era cosa del momento. Troppo forte fu nel De Meis l'inclinazione mistica perché egli non venisse, via via che spendeva le migliori sue forze, durante l'esilio piemontese e nel primo periodo dell'unità, per la costituzione della Patria, a provare per questa e per il suo nucleo statale un culto devoto, consono ai dettami di quell'hegelismo di destra che egli seguì quasi sempre, anche negli errori. Andò dietro alle sorti della parte moderata, ben tosto fattasi conservatrice quando le venne ad incombere 1a responsabilità del governo, e dimenticò un po' frettolosamente quella libertà, da cui voleva far scaturire il principio autoritario e agevolare il processo delle forme di governo, a favore dell'autorità stessa. Sentì sempre più lontano da sé il giovanile inno alla libertà democratica (Manifesto agli elettori di Abruzzo Citra, 8 maggio 1848).

    Tuttavia il problema della conciliazione tra individuo e Stato, libertà e autorità rimane nelle premesse degli scritti suoi del secondo periodo: ma come un semplice espediente dialettico; si affaccia una teoria della rivoluzione, ma senza nessun riconoscimento pratico. L'assolutezza dell'autorità (che sia, s'intende, vera autorità, e corrisponda alla essenza intima della nazione) diviene per il Nostro un principio assiomatico; dire che in essa si ha il volere generale e il pensare del cittadino come coscienza civile, non è sufficiente: l'identificazione ha valore di dogma (v. i manifesti elettorali del 1865 e del 1882). Ciò appare subito nel tentativo di dedurre il concetto di potere sovrano dalla fenomenologia della vita sociale, dal contrasto dei ceti: questo contrasto viene presentato come la stessa libertà, e quindi la soluzione diretta a eliminarlo non può essere che antidemocratica (v. Il Sovrano, 1868). Il sovrano, dice De Meis, è il popolo, che fa i costumi, la lingua, le idee: ma è sovrano di diritto, non di fatto; l'effettiva sovranità tocca solo a chi accentra il massimo di questi valori ideali. Ma a chi spetta allora la sovranità? Non alla moltitudine cieca né all'aristocrazia degli ingegni: quella incapace, questa sopraffatta dalla bruta naturalità della prima; un'opposizione incontrastabile vieta ai due estremi l'accordo. Resta, o si stabilisce, un ceto medio: la borghesia semi-intellettuale, mezzo popolo e mezza aristocrazia; una confusione ibrida di rapporti, una debolezza intrinseca di natura, il ripetersi in essa larvatamente dell'opposizione primitiva la rendono per altro ancor più incapace di governo: e dove la democrazia regna, guasta e rovina. Il mediatore di tutti i contrasti non può essere dunque uno dei ceti: né il popolo né gli intellettuali, né la borghesia né l'artigianato; all'alto ufficio è pari soltanto la dinastia, il monarca. Il quale apparentemente riceve la sua autorità dal popolo (come insieme dei ceti), ma in realtà la possiede per il diritto divino della storia, di cui la sanzione popolare non è che l'espressione fenomenica. Dove è evidente la stessa contraddizione della politica gesuita della Controriforma e del pensiero della Restaurazione, complicata dal nuovo storicismo: si parte dal popolo come unità, la si spezza nella maniera più rude con la scissione astratta dei ceti, e si finisce per ricomporre l'unità nella negazione del popolo. La concezione dei ceti sociali, presentata dal De Meis in forma naturalistica, è del resto contraria agli stessi principi dell'hegelismo, o per lo meno li deforma viziosamente. Perché Hegel parla, si, di caste e ceti e classi, ma come momenti necessari e funzionali della società nella sua vita e nel suo sviluppo: momenti che si oppongono nel divenire dello Stato ma tuttavia non si escludono, anzi stanno come la condizione reciproca l'uno dell'altro. In De Meis abbiamo invece una scissione naturalistica, quasi di razze o almeno di sangui: e l'accenno a una psicologia delle classi medie si perde nell'apologia della sovranità monarchica.

    Così lo Stato, che si avanza in questa concezione sotto la bandiera del "diritto divino della storia", una volta giunto alla ribalta appare con la veste dell'astratto assolutismo (v. Lo Stato, 1869). Esso è infatti per il De Meis l'organismo politico che attraverso una scala ascendente di funzioni, dalle attività economiche a quella morale, dalla sanzione giuridico-penale al diritto pubblico impersonante l'io comune, o la "volontà generale" di Rousseau, assorbe e domina l'individuo. II culmine di questo processo, e insieme la sua forza assoluta, è appunto la autocoscienza sociale dello Stato e l'azione che ne sgorga. I momenti individuali, od elettivi, della vita statale sono superati nel suo momento sociale: e come la moralità domina la economia, così il diritto domina la morale, lo Stato domina il diritto, senza altro appello che il giudizio della storia. Tutti questi sono tanti assoluti, ma lo Stato è più che assoluto, è divino. La sua giustificazione sta nel vivere e agire in funzione di essere: cioè nel rappresentare una forza, il cui sostrato è nella sua corrispondenza con la coscienza generale. E finché questa corrispondenza esiste, lo Stato non ha limiti alla sua azione: la sua guerra, la sua violenza, la sua usurpazione è giusta. Quando questo rapporto fra Stato e forza cessa, quando la coordinazione delle sfere assolute della pratica non sussiste più e l'organismo si disgrega, allora la rivoluzione è legittima (in quanto ripristini la funzione di essere dello Stato): venga essa dal basso o dall'alto, sia rivolta popolare o colpo di Stato. Ma è chiaro che il processo rivoluzionario viene qui concepito come semplice sostituzione di un nuovo all'antico Leviathan defunto.

    Leviathan: questo è veramente il nome che sorge alle labbra di fronte alla teorica del De Meis, dove come per Hobbes il popolo crea il sovrano e depone e specifica in lui la sovranità, ma questa è poi, ipso facto, assoluta.

    E' vero che il Nostro fa, alle idee esposte, due interessanti aggiunte: in quanto vede nel sovrano impersonarsi la stessa soggettività del popolo, il quale crea anche, oltre quello, il corpo legislativo, in cui deporre e specificare la propria oggettività. Ma che significano qui soggettività, oggettività? Semplicemente i caratteri di quella universale coscienza sociale postulata dal De Meis in contrasto con la sua stessa dottrina dei ceti: coscienza indeterminata, si noti, che riceve soltanto nello Stato la sua determinazione. Ed essendo tale determinatezza lo Stato non è soltanto funzione di essere, ma anche funzione di stare: funzione delle funzioni (la differenza tra lo Stato antico e il moderno è solo in ciò che quest'ultimo ha coscienza di tale suo essere). Sicché la coscienza politica, ultimo rifugio dell'individuo, viene svalutata e deprezzata di fronte alla solidità del potere statale, che non riconosce in essa la propria causa agente, ma solo un astratto presupposto. E lo stesso dicasi per il corpo costituente (i molti, il popolo, il polverio delle coscienze che appena cominciano a non essere più plebe) e il corpo costituito (la legge): quello è la tenebra, questa la verità; ma è verità che si pone da sé stessa, e non nasce punto dalle lente gestazioni della massa. Si può dire soltanto che nel corpo costituente è l'attuale possibilità del potere e della legislazione: ma la loro autonomia e indipendenza non s'infrange, come quella che è la vera colonna dello Stato liberale e moderno. Il rovesciamento di questi rapporti, la dedizione della sovranità alla sofistica dell'individuo è il torto e la causa di rovina degli Stati democratici, che intronano l'idolo della superficie a danno della profondità. Nel vero Stato il sovrano è l'assoluto soggetto (l’Etat c'est moi), che concreta la sua oggettività attraverso la legislazione, e traduce in atto il suo volere attraverso le fila amministrative del complesso organismo da lui dominato. Questo organismo si sente determinato e concreto, un tutto vitale: "e vuol essere questo tutto, vuol raggiungere il limite di sé, vuol essere l'intero suo essere; non solo quello che è, ma quello che deve essere". Epperò si fa Stato nazionale, tende ad essere Stato universale: il limite (finita potestas denique cuique!) lo arresta, lo tronca, costituisce il suo dolore: pare che l'imperialismo debba essere il culmine di questo dogmatico e maestoso edificio. Ma il De Meis crede invece che gli Stati si comporranno in una concorde e pacifica umanità.

    Questo liberalismo assoluto del De Meis è senza dubbio più vicino ai puri ortodossi dell'hegelismo, quale il Vera, che non allo Spaventa. Ma il Vera non rappresenta nulla di originale: è un semplice ripetitore di Hegel, con le riflessioni proprie della destra hegeliana, e nulla più (tanto che non crediamo opportuno di occuparci appositamente delle sue pubblicazioni di filosofia politica, salvo per alcune questioni particolari, di cui in seguito). De Meis invece ha una mentalità sua propria, che cerca di essere originale: le sue conclusioni son quelle dell'hegelismo ortodosso, ma con differenze personali, di inasprimento delle une, di attenuazione delle altre. Il sistema, con le sue contraddizioni e immodernità, si presenta con potente e afflato religioso, con una serietà ierocratica; i suoi elementi rappresentano senza dubbio uno sforzo continuo di ripensare da sé e impostare nuovi termini, nuovi rapporti.

    Ma la concezione è non solo assolutista, ma esclusivista. Lo sentiva bene il Carducci insorgendole contro con tutta la forza del suo spirito repubblicano, ribollente ancora degli ardori da cui era sorto l'Inno a Satana: e se nella polemica che allora intervenne, con il concorso del Fiorentino, il De Meis la vinse per superiorità di spirito e di gentilezza contro le incomprensioni carducciane, è evidente che il Carducci non senza ragione rivendicava i droits de l'homme contro il medico hegeliano. Questi infatti dava non indubbi segni di marcato anti-individualismo, quasi non bastassero le conseguenze palesi delle sue teorie, combattendo, come più oltre diremo, il suffragio universale, lo scrutinio di lista, il movimento di rivendicazione del proletariato, l'abolizione della pena di morte. Per lui "tutte le legislazioni, sociali o altrimenti, sono impotenti a risolvere la questione sociale. E' assurdo e sciocco quel socialismo che domanda un benessere uguale per tutti. E' saggio ed umano, e soprattutto cristiano, domandar per tutti un benessere relativo... Ma neppure a questo la natura si presta... e tutti i sistemi di legislazione sociale peccano per la base". Tant'è, se il rimedio ai guai della politica odierna il rimedio deve essere in primo luogo morale, esso deve essere il sentimento di dovere del lavoro, l'abnegazione, il sacrificio: una parafrasi etica, cioè, dell'assorbimento dell'individuo nello Stato.

    Così lo Stato demeisiano si ammantava di nubi e di maestà di fronte alla democrazia invadente: ma, lontano dalla realtà presente e da quella storia stessa a cui faceva appello per giustificarsi, restava non più che un idolo nel cuore del filosofo che lo pensò.

SANTINO CARAMELLA.

    Il primo articolo di questa serie ("B. Spaventa e le origini filosofiche del liberalismo") è uscito nella Rivoluzione Liberale del 28 settembre 1922 (a. I, n. 28). Seguiranno:
    III. Silvio Spaventa e la politica della Destra;
    IV. Fiorentino e De Sanctis. Battaglie e polemiche;
    V. La funzione storica del liberalismo hegeliano in Italia.