POLEMICA SCOLASTICA
I.Gli argomenti del Mondolfo e del Limentani contro il Gentile non sono i nostri. Noi potremmo accettarne la critica all'esame di Stato, alla quale tuttavia si può rispondere distinguendo risolutamente secondo una logica liberale tra le due funzioni di maestro ed esaminatore come fece l’Einaudi su queste colonne in un articolo che nessuno osò discutere e che resta uno degli scritti più profondi e decisivi in materia. Invece le nostre idee su la libertà della scuola e la riduzione delle scuole pubbliche sono diverse da quelle propugnate dal Gentile solo perché più radicalmente liberali e decisamente scettiche nella candida pretesa di ottenere la libertà della scuola da un governo dittatoriale. Ma questi dissensi e queste differenze risulteranno meglio dalla discussione che il nostro amico Limentani ha il merito di avere iniziata. II.1. - Le discussioni intorno alla riforma Gentile possono a quest'ora sembrare inutili. Agli scettici, ammaestrati dalla esperienza della vanità delle parziali innovazioni introdotte negli ultimi anni, e agli avversari, che deprecano il proposto sistema in nome delle proprie diverse concezioni politiche e pedagogiche, altro non resta ormai che chinare il capo e aspettare di ricevere, una mattina o l'altra, dalla lettura del giornale, la notizia del fatto compiuto. E ci si sentirebbe portati a esclamare: "Ben venga l'esperimento!" se il corpus vile che all'esperimento deve prestarsi non fosse la scuola, e però la nuova generazione. E' da augurare che quanti dovranno dare la propria opera alla applicazione della legge, vi si accingano con lealtà di proposito e cordiale spirito di collaborazione. Ma oggi ancora, la franca espressione del dissenso non può dirsi del tutto oziosa, se per essa si riesca, oltre che a separare nettamente le responsabilità, a illuminare la opinione pubblica sopra gli equivoci che il programma dei riformatori cela nelle sue pieghe e i pericoli che sovrastano alla Scuola e allo Stato. Intendimento fondamentale del Ministro è di introdurre nel campo scolastico il principio della libera concorrenza, con l'abolizione di quei privilegi, a torto chiamati monopolistici, che il vigente ordinamento riserva agli Istituti governativi. E lo scopo si dovrebbe raggiungere, in particolare, con la introduzione dell'esame di stato, con la limitazione del numero di alunni da ammettere nelle scuole dello Stato. 2. - Sopra questi tre punti svolge nettamente le sue opposte ragioni il prof. Rodolfo Mondolfo in un libro breve di mole ma denso di contenuto, che comprende scritti inediti, e altri già comparsi in vari periodici, fra il '20 e il '22. Non è dunque una improvvisazione polemica; ma il frutto di una serena meditazione sopra la natura della funzione scolastica e i compiti dello Stato, sopra le malattie che travagliano la scuola e i rimedi che si pensa di apprestare. Quando in questi ultimi anni la formula " libertà della scuola" fu lanciata dai clericali e rapidamente raccolse, per un fenomeno non nuovo di mimetismo, larghi non sempre ponderati consensi, taluno manifestò ingenuamente la propria sorpresa: "Libertà della scuola? e la scuola non è forse libera?". Liberi gli educatori d'impartire l'insegnamento secondo la propria coscienza, di avere la propria fede o la propria convinzione, liberi di sentire incertezze e crisi di orientamento, e volgersi sinceramente in altra direzione: tanto più liberi quanto più profondamente consapevoli della serietà immensa della verità e della grandezza della funzione che le spetta nella coscienza. Liberi parimenti gli alunni; anzi la libertà loro è il solo limite che incontri la libertà del maestro: il processo della educazione si rivolge infatti essenzialmente a sprigionare e mettere in azione le energie potenziali e le capacità dello spirito dell'educando. Liberi infine i genitori, non di lasciare i figlìúoli nella ignoranza, ma di mandarli alle scuole pubbliche, o d'impartir loro educazione domestica o di scegliere quella fra le molte scuole private, disciplinate da un controllo governativo appena nominale, la quale ispiri loro maggior fiducia: riservandosi lo Stato puramente la facoltà di garantirsi che l'obbligo dell'istruzione sia assolto o di saggiare il grado di preparazione di coloro che, comunque istruiti, aspirino a conseguire titoli giuridicamente validi. Ma appunto a questa sua facoltà dovrebbe lo Stato rinunciare, secondo i paladini della libertà della scuola, limitando la propria funzione a sovvenzionare ugualmente e a riconoscere giuridicamente tutte le scuole che rispondono alle norme generali d'igiene e di moralità. E qui si svela l’equivoco dissimulato nella formula di libertà della scuola: a questa il M. contrappone, con Filippo Turati, l'altra formula: libertà nella scuola. La scuola libera c'è, ed è la scuola pubblica; questa sola può garantire la libertà spirituale che non si dona ma si conquista: è l'organo con il quale lo Stato adempie alla sua funzione etica e consolida il miglior patrimonio della coscienza moderna, affermando il bisogno e il diritto di ognuno alla ricerca indipendente della verità. La scuola riformata che si invoca, e che si decora dell'usurpato nome di scuola libera, è la scuola di parte, che richiede ai maestri l'adesione a un credo e pone la fedeltà a questo credo come condizione della loro permanenza nell'ufficio: la scuola di parte, che deve comprimere e soffocare nell'alunno ogni tendenza non conformista e, in luogo di educare alla responsabilità nel pensiero e nell'azione, gli impone la rinuncia all'autonomia e lo consegna, perinde ac cadaver, ai direttori della sua coscienza. La formula della libertà è la maschera, dietro la quale si celano l’intolleranza e il dogmatismo: libertà domandano i partiti, che non si sentono ancora abbastanza forti per vantare la pretesa al monopolio: ma quando il loro programma sia stato accolto, saranno portati necessariamente a escludere quella concorrenza in nome della quale saranno riusciti a farlo prevalere. Non si sfugge alle vigorose argomentazioni del Mondolfo: "Se la esigenza del riconoscimento delle scuole confessionali muove dalla asserzione, non soltanto della loro superiorità, ma anche della imprescindibilità dell'insegnamento cattolico per una vera scuola, evidentemente non può, chi pone simile premessa, ammettere poi alla pari il riconoscimento e il diritto delle altre scuole... Non può pensare all'ugual diritto del dogma e dell'eresia, della verità e dell'errore, se non a patto di rinnegare il dogma in quanto tale, e la fede nella sua verità assoluta... La libera concorrenza può propugnarla l'eresia, che è naturalmente antidogmistica: non il dogma che deve essere assoluto". Lo Stato, convertendo la scuola in campo aperto alle competizioni fra i partiti, ed esponendola a diventare strumento della sopraffazione di un partito sopra tutti gli altri, firma una spaventevole cambiale in bianco, ed è deplorevole che proprio un governo il quale professa di voler ripristinare i più alti valori morali abdichi a quella funzione dello Stato che, insieme con la giustizia; reca sopra tutte spiccatamente impresso il carattere etico. 3. - "Esame di Stato": ecco un'altra delle formule taumaturgiche, che si presumono contenere in sè la indicazione del sicuro rimedio per tutti i mali. Il Mondolfo considera l'esame di Stato soltanto dal punto di vista della influenza ch'esso potrebbe esercitare sopra il funzionamento delle scuole medie: e qui la esperienza gli offre gli argomenti più poderosi. Esame di Stato era quell'esame di magistero che vigeva in Piemonte prima del '59 e la cui abolizione fu salutata come una liberazione: le sue conseguenze perniciose sulla preparazione dei giovani furono illustrate in pagine memorabili da Carlo Cantoni: ad esso corrisponde in Francia il Baccalaureat, nel quale il Lavisse, il Poincarè; e altri insigni ravvisarono il principale responsabile dei mali della scuola. media. Esame di Stato è, fra noi, l’esame di maturità, che fra i nostri istituti scolastici si segnala per aver fin dal suo sorgere sollevato più aspre e concordi censure, largamente convalidate dalla prova che in questi vent'anni se n'è fatta. Esame di Stato è quello che abilita all'esercizio della professione di procuratore, e del quale non è che troppo nota l'assoluta inefficacia per la selezione dei migliori. Esame di Stato, infine, era quello che veniva ordinato annualmente presso le Facoltà di Lettere per l'abilitazione all'insegnamento delle Lingue straniere: e convien ritenere che i risultati non sieno stati buoni, se quelle sessioni sono state soppresse, proprio da Benedetto Croce, che è tra i più autorevoli patrocinatori dell'Esame di Stato. Combattere questo significa opporre la pacata riflessione a una infatuazione miracolistica, che certamente riserva le più amare delusioni. E' illusoria la speranza che l’Esame di Stato valga a portare la nostra gioventù fuori dalla crisi morale che la travaglia, ispirando quel fervore intimo e continuativo e quella consapevolezza costante del dovere e della responsabilità morale, da cui nasce e si costituisce la disciplina. E' illusione che il tono della vita scolastica possa essere elevato da una riforma, onde la funzione scolastica verrebbe a risolversi essenzialmente nella preparazione all'esame: il valore educativo di questo vien meno quando l'atto dell'esame sia distaccato dallo svolgimento degli studi: se la scuola vuol preparare veramente alla vita, deve anch'essa, come la vita, essere una prova continua e non saltuaria. E il distacco si accentua, se l'ufficio di esaminatori sia conferito non agli insegnanti stessi che hanno istruito l'allievo, ma a commissari estranei. Gli esaminatori, alla fine, saranno pur sempre i professori pubblici, e questi, se sono incapaci o indegni debbono essere eliminati: in caso contrario, è iniquo e pericoloso esautorarli, negando loro la qualità di giudici naturali della propria scolaresca, argomentando dall'esito delle prove che questa sostiene, la misura delle loro attitudini, ed il valore dell'opera che prestano. Insegnare e giudicare non sono due funzioni distinte e separabili: sono una stessa ed unica funzione nella concreta unità della vita scolastica. Questa unità che l’esame continuo cementa, viene spezzata dallo intervento periodico dell'esaminatore estraneo: la presenza invisibile di costui, l'attesa della prova solenne che dovrà decidere in un'ora il risultato di molti anni di lavoro, sono una ragione di profondo turbamento, tolgono alla vita di scuola quella serenità che è condizione della sua efficacia educativa, fanno prevalere la informazione sulla formazione, l'appariscente "meublage de la mémoire" sopra l'esercizio delle superiori attività intellettuali. Né si dica che ci sono esami ed esami, che l'esame di Stato sarà non somma di valori eterogenei, convenzionali, puramente scolastici, ma prova di tutte le capacità che l'alunno abbia via via acquistato, perché si mostrerebbe d'ignorare la psicologia così dei candidati, che pure è stata largamente studiata, come degli esaminatori, che il M. fa oggetto di acute osservazioni, rappresentando con efficacia il fatale degenerare dei loro "lavori forzati" in arido meccanismo oscillante fra una severità che può offendere la giustizia e una indulgenza che toglie serietà alle prove. 0 gli esaminatori saranno legione, e la quantità sarà accresciuta a spese della qualità: o saranno pochi, e la mole del lavoro renderà i giudizi superficiali e la prova frettolosa e insincera. Per il controllo sul lavoro dell’insegnante esistono, o esistevano, gli organi competenti: a un corpo, scelto con retto criterio, di capo d'istituto e d'ispettori, dev'essere delegata la funzione di correggere e illuminare gli inesperti, di eliminare gl'indegni e gl'incorreggibili, d'incoraggiare i probi e valenti: e se l'effetto delle leggi disposte all'uopo è stato frustrato dal malvolere e dall'ostruzionismo della burocrazia, e dal malcostume del favoritismo, il male non si rimedia con leggi nuove, ma con l'applicazione intelligente e leale delle misure già adottate. Oggi l'Ispettorato può dirsi ormai abolito, e a chi lo ha abolito riesce più facile raccogliere consensi sulla necessità dell'esame di Stato, visto che gli insegnanti hanno pur bisogno di essere controllati. Ma non si promuove nei maestri il senso della responsabilità, con ordinamenti ispirati alla diffidenza e al sospetto: non si eleva il tono della scuola pubblica adeguandola, per metterla in concorrenza con le scuole private, al livello di queste, quando tutti sanno com'esse siano degenerate per essersi ridotte a istituti di preparazione di privatisti a esami pubblici. 4. - Ispirata al fine di stabilire o alimentare la concorrenza è anche la proposta del Gentile, di una riduzione del numero delle scuole medie pubbliche: proposta che quando fu lanciata nel 1918 in una lettera aperta a S. E. Berenini, la quale rispondeva negativamente alla domanda: "Esiste una scuola italiana?" fu interpretata come una boutade satirica, non originalissima e ispirata a una visione soverchiamente pessimistica delle condizione dei nostri istituti di istruzione media. Ma il coro dei soliti pappagalli fece eco: e per forza di suggestione si propagò il convincimento che per avvalorare la Scuola di Stato bisogna conservarne pochi esemplari, quasi modelli ai quali le scuole concorrenti debbano informarsi. Corre spontanea alle labbra la obiezione: se l'istruzione è funzione pubblica, può lo Stato limitare artificiosamente la offerta, ammettendo nelle sue scuole soltanto un numerus clausus di eletti, passati al vaglio di un concorso? Mai no – si replica: la cultura superiore è bensì f unzione immanente di Stato: ma lo Stato non deve concepire la istruzione pubblica in forma di monopolio, che impone un onere insopportabile all'erario e, affollando mostruosamente gli istituti governativi, sopprime ogni libera iniziativa privata. Lo stesso concetto della scuola di Stato segna i limiti, posti all'obbligo dello Stato: questo si estende fin dove si estende l'interesse pubblico: ma al di là del pubblico bisogno la scuola media diventa interesse privato di cui lo Stato non può farsi garante e provveditore. Tale è la tesi che il M. batte in breccia, dopo aver addotto argomenti per contestare che la concorrenza sarebbe feconda di risultati efficaci sul miglioramento qualitativo degli insegnanti. Impugna in primo luogo la distinzione fra bisogno pubblico e interesse privato: l'interesse del privato a esercitare una professione o una funzione che gli deve dare i mezzi di vita, non sussisterebbe, se non vi fosse un bisogno pubblico, alla cui domanda venga a corrispondere l'offerta dei singoli: quello che visto da un lato è interesse individuale, dall'altro lato è bisogno sociale e può essere l'uno in quanto sia l'altro: a un'esigenza sociale, soltanto una funzione pubblica può rispondere, e non è ammissibile che se ne lasci l'adempimento all'alea d'iniziative private, che forse mancherebbero o fallirebbero, mentre il bisogno sociale è certo costante progressivo. Alla utilità sociale può essere conforme lo sfollamento della scuola media di coltura, con la creazione di altre scuole apposite che richiamino a sé gli aspiranti agli impieghi: ma la istituzione e il mantenimento di queste scuole non cessano di essere funzione pubblica. In secondo luogo, è da dissipare la pericolosa confusione tra servizio pubblico e monopolio: la scuola non è e non deve essere monopolio, che significa divieto di privata iniziativa in nome del preminente diritto dello Stato: ma è servizio pubblico, cioè dovere dello Stato, senza esclusione della libertà dei singoli di compiere di loro iniziativa le stesse funzioni, anche in concorrenza con la funzione di Stato. I criteri da applicare nell'esercizio della funzione non possono essere, nel secondo caso, come sono nel primo, prevalentemente fiscali, cioè commerciali o industriali. Il servizio pubblico non può concepirsi se non come connesso e subordinato alla visione di tutta l'economia sociale; l'opera di privati o di enti locali può essere tutt'al più secondaria e sussidiaria, inferiore sempre alla natura pubblica delle esigenze da soddisfare e alla vastità loro, e incapace di far fronte alle crescenti esigenze, che possono essere soddisfatte soltanto dall'indirizzo dinamico della organizzazione. Si potrà osservare: "Ed i danni dell'accentramento?", Ma il M. ritiene meno gravi i danni di un eccessivo decentramento, e propugna la amministrazione regionale delle scuole medie, soprattutto tecniche e professionali, restando riservate a una rinnovata amministrazione centrale le funzioni di coordinamento e di alta direzione. Certamente egli non vedrà preparata la via al trionfo di queste sue idee dalla nota riforma amministrativa del Gentile: poiché questa condanna a scomparire quei funzionari che secondo il M. dovrebbero nei consigli regionali rappresentare lo Stato (Provveditori provinciali e Ispettori regionali). A mio modesto avviso, in Italia la coscienza e il sentimento regionale sono in taluni luoghi e strati della popolazione così poco spiccati e saldi che un ordinamento amministrativo imperniato sulla regione avrebbe un carattere troppo artificioso: mentre altrove son così forti e tenaci che l'ordinamento stesso potrebbe essere pericoloso per la unità della compagine nazionale. Comunque sia di ciò, lo Stato, limitando il numero degli insegnanti e delle scuole, e lasciando campo aperto alla concorrenza, verrebbe dunque meno a un suo dovere: certamente fare meno o non fare è più comodo, che non risolvere il problema, adottando quelle provvidenze relative così alla condizione giuridica ed economica dei professori come alla sistemazione delle scuole, che valgono a elevare nella classe il senso della disciplina e della responsabilità, ma anche della sicurezza e della fiducia, e ad attrarre verso il pubblico insegnamento, sempre in maggior numero, gli elementi migliori. Il Mondolfo non fa proprio il concetto particolaristico dello Stato, concepito come semplice strumento della classe dominante, ritenendo invece che nella dialettica storica la dottrina socialista abbia a rappresentare precisamente l'antitesi, le esigenze ideali universalistiche. Lo Stato non è necessariamente il comitato esecutivo della classe dominante: e invero, poiché esso è, nella sua consapevolezza ed azione, il riflesso della coscienza e volontà pubblica, anche la sua azione, a seconda del vario grado di efficacia e d'intervento attivo delle varie forze e tendenze, che nella società vivono ed operano, si afferma o manca, resta deficiente o si presenta piena e vigorosa, e si orienta e si svolge verso una o l'altra direzione. Oggi una coscienza scolastica pubblica non c'è, perché non è pienamente sentito il carattere sociale del bisogno a cui la scuola risponde. Da un lato, in questa inconsapevolezza ha trovato terreno favorevole la campagna contro il protezionismo scolastico dello Stato e per la esaltazione della scuola privata e del regime di concorrenza, mentre dall'altro lato, la campagna stessa tende a rendere la inconsapevolezza più profonda. Ritiene il M. che una coscienza scolastica pubblica abbia bisogno, per vivere e operare, dell'intervento di nuove e sane energie, che possono venire soltanto dalle classi lavoratrici. Egli crede, con Marx ed Engels, che il compito storico di queste classi sia dato dal loro essere portatrici di esigenze universalistiche, onde la loro azione si rivolga a trasformare quegli organi e rapporti sociali, in cui persiste il carattere particolaristico di strumenti di dominio e di privilegio, ed a sviluppare nella pienezza della loro efficacia i germi ed elementi esistenti di attuazione d'esigenze universali. Un proletariato che di queste fosse veramente consapevole, non sarebbe indifferente al problema della scuola media; le proposte restrizioni, delle quali non si può contestare il carattere antidemocratico – basta pensare alla diversa preparazione mentale con la quale si presenterebbero agli esami di concorso, per l'ammissione alla scuola media, i figli del popolo e i figli dei ricchi – tendendo ad allontanare vieppiù il proletariato dalle forme superiori della cultura, ritardano la formazione della coscienza scolastica pubblica, e soltanto nel silenzio di questa, posson essere adottate. Firenze, R. Istituto di Studi Superiori. LUDOVICO LIMENTANI.
RODOLFO MONDOLFO - Libertà della scuola, Esame di Stato e Problemi di scuola e di cultura. Bologna, Cappelli ed., 1922 – Un vol. in-8° grande di pagg. 145; L. 8.
III.Per noi non esiste una questione dell'esame di stato: per noi esiste la questione dello smontaggio della scuola regia e pareggiata: questo smontaggio non si può fare finché questa scuola conserva la privativa nello spaccio delle licenze: per abolire questa privativa le vie sono due: 1° Estendere a tutte le scuole, anche alle private, la facoltà di dispensare titoli con valore legale (a questo mirano, forse, i preti); 2° Togliere ai titoli il valore legale, cioè svalutare il titolo (licenza, diploma, laurea). La seconda via è la nostra. Come si giunge alla "svalutazione del titolo"? Sostituendo alla licenza con o senza esame, l'ammissione alle scuole superiori e alle carriere. Noi l'esame dì stato lo intendiamo così. Croce a parole lo intendeva così, nei fatti lo voleva applicare come ammissione e come baccalaureato. Gentile non si sa che cosa pensi, né che cosa intenda o possa fare in proposito. Il baccalaureato, che funziona discretamente in Francia, in Italia non reggerà: ma mi accontenterei anche di un esperimento in questo senso, perché per esso intanto sarebbe abolito il monopolio dei titoli a favore della scuola regia e pareggiata, e la non buona prova del baccalaureato porterebbe, dopo pochi anni, alla sua sostituzione con l’ammissione. (Si capisce che l'ideale sarebbe: né esami, né titoli, né scuole: ma c'è anche un altro ideale –né cartelli, né sfide, né bastoni: e un altro ancora: né Dio, né padroni, ecc.; ma come si fa?). (Da una lettera). AUGUSTO MONTI.
IV.Le tendenze corporative e sindacali del dopo-guerra ci hanno procurato tra gli altri esperimenti di politica dei competenti la scoperta non nuova, ma tuttavia non meno allegra, di una politica scolastica proposta, discussa e tentata dai professori. Il più tranquillo liberale o il più modesto psicologo avrebbero potuto indicare agevolmente l'equivoco di queste abusate sicumere: per chi abbia dimestichezza con la storia non sono invero necessarie nuove esperienze per dimostrare l'inferiorità della politica dei tecnici in confronto dei tecnici della politica. Invece le cose si condussero sino al fondo e assistemmo, secondo una logica prevista, alle più sottili trasformazioni, che nell'adeguarsi alla doppia logica del partito popolare, statolatra per favorire la media borghesia e antistatale per seguire le tradizioni cattoliche e autonomiste, cambiarono il programma della libertà della scuola in una discussione professorale sull'esame di stato. Pare evidente che non debba acconsentire alla metamorfosi chi non ha perduto, nella pratica dell'insegnamento, il senso delle proporzioni e dei rapporti tra scuola e cultura. Il senso più palese della formula "libertà della scuola" per un liberale è per l'appunto la necessità e la volontà di una liquidazione del dogmatismo scolastico, di un riconoscimento del valore educativo contenuto nelle libere iniziative culturali che il mondo moderno ha creato intorno alla scuola, istituto caratteristicamente sorto sotto l’influenza delle concezioni medioevali. La dimostrazione del nostro pensiero scaturisce dalle considerazioni storiche più elementari che segnalano la coincidenza delle prime affermazioni della libertà scolastica e dei primi istintivi ritrovamenti del pensiero e della civiltà moderna. Senza allontanarci dalla tradizione liberale piemontese potremo indicare agevolmente gli spunti di una concezione originale, anteriore ai cattolici liberali francesi sulla questione della libertà scolastica. Giambattista Vasco, economista torinese, (1733-1786) del quale anche il Pecchio loda la chiarezza e l’evidenza nella trattazione dei problemi tecnici, liberista convinto "non tanto per aver letto e ammirato Smith, quanto per avere pensato da sé", affermava pochi anni prima della rivoluzione francese che giova "sianvi scuole stabilite dal governo, potendo esse scegliere facilmente i più dotti professori procacciandoli anche da lontani paesi, e somministrare agli studenti quei comodi che difficilmente si avrebbero in altre scuole particolari, come macchine di fisica, istromenti di matematiche, ecc.". Ma "la concorrenza dei maestri privati coi professori (della scuola pubblica) può essere utilissima, sia per costringere questi a non trascurare il loro dovere, sia per formare ottimi candidati per le cattedre, quali saranno certamente coloro che con buona reputazione si sono molti anni esercitati ad insegnare nelle scuole particolari (private)". E per regolare questo privato insegnamento fissava due disposizioni: prima "non permettere ad alcuno di aprire scuole in casa senza una permissione speciale del governo che non si accorderebbe che a persone dabbene", seconda "costringere coloro che vogliono insegnare in propria casa a farlo a porte aperte, cosicchè possa intervenire alle loro lezioni chiunque voglia, il che sembra un sufficiente ritegno". E "giammai non converrebbe spingere le precauzioni più oltre". (Delle Università e delle Arti e Mestieri. Dissertazione di G. B. Vasco, Milano, Destefanis, 1804, pp. 195, 196, 197). Proponendo la pubblicità dell'insegnamento il Vasco non pensava alle difficoltà didattiche della sua proposta (se ne preoccupò invece nel 1876 il Bertini e risolse il problema negandolo): fu questa della pubblicità idea diffusa e fortunata durante tutto l'ottocento e meriterebbe forse un esame approfondito: ma noi dobbiamo piuttosto concludere dalle citazioni fatte la natura antidogmatica del pensiero liberale piemontese. E nel 1846, agli albori della rivoluzione che doveva in Piemonte liquidare molti resti di medioevalismo, l’Albini, rosminiano in filosofia, ma in politica costituzionalista, con tendenze alla statolatria, riaffermava limpidamente con precisione di giurista l'idea di libertà scolastica corretta mediante un controllo governativo. Tali professioni di fede appaiono generiche anticipazioni dottrinali: tutto il sistema d'insegnamento vigente in Piemonte era in realtà nelle mani del governo, rigidamente cattolico, e cattolici erano i pochi istituti privati. La concorrenza era un nome. Ma proprio mentre l'Albini scriveva, nel 1844, si svegliava quel movimento per le scuole di metodo, da cui nacque poi tutto il giornalismo scolastico dello stato sardo. Fu un vero Sturm-und-drang pedagogico che ebbe, nonostante la fretta, una forte efficacia nella formazione della classe dirigente che guidò l'esperienza del'48-49. Dopo la guerra il problema si ripresentò nella forma più urgente, imprescindibile. II nuovo stato, costituito a democrazia senza partecipazione popolare, doveva prendere la sua posizione e la sua responsabilità di fronte a partiti inesistenti o immaturi, doveva affrontare un compito ideale, non ancora sentito dai cittadini, l'istruzione del popolo, e preparare per questo una classe di maestri. Per tale esigenza la politica scolastica liberale doveva venir sacrificata provvisoriamente a una politica scolastica unitaria e in mancanza di una morale e di uno spirito nazionale e laico si tentò di creare una scuola di stato. La psicologia dell'italiano di fronte alla scuola fu caratteristicamente piccolo-borghese e, per l’impotenza di preparare situazioni storiche concrete di maturità, vagheggiò di sovrapporre sui dissidi delle anime una tinta comune di cultura generale ottimistica e borghese. Il dilettantismo della erudizione e la retorica fiduciosa dell'autoincensamento sostituiva la coscienza del produttore e la responsabilità del realista. Bisogna riconoscere tuttavia che tali vizi nacquero originariamente come ripari della necessità; e l'espediente della scuola di stato venne alimentato in coscienze per natura libertarie o liberali. Dalla libertà come da punto di partenza inconcusso muovevano per esempio Bertrando Spaventa e Domenico Berti: ma la libertà del Berti era quella del cattolico diventato liberale per influenza dell'economia inglese e della recente esperienza storica; Spaventa cercava la libertà sognata da Cuoco e da Colletta nella giustificazione teorica di Hegel. Non poteva dunque sfuggire allo Spaventa il carattere della civiltà moderna che non chiede organi o istituti per una propaganda dogmatica, ma si serve di tutte le antitesi e di tutte le critiche: egli infatti rifiutava in sede teorica persino il concetto di una scuola di stato. Ma lo stato italiano, o per esso lo stato piemontese, deve difendersi di fronte al pericolo clericale; perciò anche Spaventa pensa a un insegnamento ufficiale, timoroso della prevalenza cattolica, almeno fino che non fosse tolta alla chiesa la posizione di privilegio in cui la metteva il primo articolo dello Statuto. Il pensiero dello Spaventa nel 1851 era dunque identico col pensiero del Berti nel '49. Senonchè il Berti a due anni di distanza aveva attenuato la polemica anticattolica, e colla libertà della scuola voleva avvicinarsi a Cavour per preparare intorno a lui la nota concentrazione, che fu per il Piemonte non infeconda di successi politici. Anche il liberalismo del Berti dunque nascondeva un equivoco. Egli aveva compreso dall'esperienza della prima guerra che l'unità d'Italia sarebbe avvenuta soltanto mediante la transazione coi cattolici: perciò verso la scuola cattolica egli non poteva più nutrire timori di sorta, anzi era tratto a considerarla come fattore primo di nazionalità. Un terribile problema poi incombeva sul nuovo stato: l'educazione di tutto il popolo; e a compiere questo dovere, secondo il Berti, bisognava che si unissero gli sforzi della nazione intera, senza distinzione di partiti; a questo solo patto era possibile la lotta contro l'analfabetismo: bisognava concedere la libertà d'insegnamento a tutti, la libera concorrenza avrebbe permesso poi che solo le scuole migliori prendessero sviluppo completo: le scuole limitate, confessionali, non avrebbero avuto mai vita vigorosa: si sarebbero affaticati i liberali al lavoro, a fondare anch'essi scuole private modello, e a dare l'esempio ci si era messo il Berti sin dal'50. Ma un avversario della libertà scolastica poteva per le stesse ragioni storiche obbiettare: di fronte all'immensità del problema bisogna che da parte del governo venga una parola decisiva: lasciar la scuola alla libera concorrenza vorrebbe dire condannare le regioni più povere a non avere scuole, a non combattere l’analfabetismo: vorrebbe dire rendere impossibile l'unità. Bisogna dunque che il nuovo stato affermi la sua laicità anche a costo di sovrapporsi alle iniziative private: bisogna che s'impegni a dare la scuola a tutti i comuni. E se questo non fu il pensiero esplicito di Bertrando Spaventa diventò tuttavia il programma del governo, che non si accontentò di fare, ma volle, e continua a volere, strafare. Nel momento presente un'attività scolastica troppo invadente dello stato si riduce a sostituire alla coltura i pregiudizi della burocrazia. Del resto Monti ha dimostrato che la politica scolastica dello stato italiano dopo il '70 è stata tutta organicamente diretta, con i pregiudizi della cultura generale, della neutralità del sapere scientifico, ecc., ad attuare una concezione di classe e a formare uno spirito borghese anzi, diremmo noi, piccolo-borghese. La lotta politica intensa del dopo-guerra preparando la formazione dei partiti capovolge invece tutto lo spirito della scuola italiana e instaura un nuovo equilibrio di forze, desiderose di combattere su ogni terreno. La formula dei popolari per la libertà scolastica in un ambiente siffatto non ha più nulla di clericale, ma diventa un caposaldo di libera lotta contro lo stato burocratico. D'altra parte l'esistenza di grossi nuclei organizzati e di precise tendenze psicologiche, dai socialisti ai popolari, ai combattenti, era, al tempo della lotta per la riforma Croce, la più sicura garanzia contro ogni possibilità di monopolio e di impostazione dogmatica-partigiana. La tesi di Mondolfo e di Limentani diventava anacronistica e insufficiente di fronte alla esigenza dominante di far servire ogni istituto di cultura alla lotta e alla elaborazione delle idee. In sede teorica si potrebbe anche ammettere l'attività scolastica come funzione di stato quando per stato s'intenda la sintesi delle iniziative dei cittadini. Ma l'equivoco dei socialisti riformisti e di tutti gli ammiratori della statolatria consiste per l'appunto nel confondere questo Stato ideale, oggetto caratteristico delle speculazioni dei filosofi del diritto con lo Stato-amministrazione pubblica. Il fatto è che le funzioni del primo Stato non debbono affatto tradursi in organi di quest’ultimo. Nel momento in cui le funzioni cercano i loro organi entra in gioco il libero contrasto delle forze economiche ed amministrative. Solo uno Stato teocratico può rivendicare il diritto del monopolio scolastico; lo Stato moderno non ha una funzione patriarcale di educatore e chi parla di un'etica di Stato parla per metafora, esaurendosi necessariamente la morale pubblica in quella dei cittadini e non potendosi parlare di una civiltà sociale diversa da quella realizzata dagli individui. La scuola e la cultura sono state organizzate e promosse dall'alto, e si sono sorvapposte alle iniziative dei singoli in momenti storici specifici, e non la filosofia del diritto, ma la psicologia e la politica devono discutere questi limiti dell'empiria. La Chiesa ha creato l'università, e ha realizzato gerarchicamente la sua predicazione umanitaria per opporre alle invasioni barbariche un baluardo conservatore delle antiche civiltà. Le corti umanistiche promovendo la letteratura e la scuola di cultura servivano all'arte loro di governo in un tempo in cui le plebi italiane sognavano un regime paterno. Oggi, di fronte al fascismo, una politica che rivendichi la libertà della scuola, utile ieri, è diventata insufficiente perché non si può fare della tecnica quando il fronte unico della lotta è diventato il terreno politico. La lotta contro la tirannide non si può fare invocando riforme e concessioni dalla tirannide, ma contrapponendole rivendicazioni integrali di libertà. Il fascismo instaurando la sua politica scolastica di classe travolgerà le illusioni pedagogiche di Gentile e di Lombardo Radice e continuerà la scuola piccolo borghese e parassitaria della terza Italia. La pregiudiziale per proporre il vero problema dell'educazione nazionale è dunque la non collaborazione. E' chiaro che in questo senso la nostra scuola non ha bisogno di scuole, e possiamo discutere di problemi pratici soltanto in senso astratto e per un vizio di progettismo. In un'Italia moderna, quale la veniamo preparando con la nostra lotta, in cui i cittadini sappiano creare la loro scuola "interessata" come la predica Monti, aderente alle loro esigenze, contro la monotonia generica della scuola di stato, l'esame è naturalmente svalutato in quanto la scuola si fonde con la cultura e con la vita. Invece di allevare impiegati lo Stato si riduce alla sua funzione di controllo. Se può sembrare interessante conoscere i nostri progetti confesseremo che prima del fascismo il problema di questo controllo si riduceva per noi nei termini seguenti: 1) per la scuola elementare: lotta diretta dello Stato contro l'analfabetismo, mobilitazione di tutte le forze nazionali, preti o massoni, bolscevichi o conservatori, poiché si tratta di preparare gli strumenti elementari della vita moderna indipendentemente da ogni considerazione etica. Affrontare risolutamente il problema nel Mezzogiorno come ha fatto l'Associazione: l'opera di questa è mirabile non per un valore eroico di apostolato, ma per una precisa necessità amministrativa. Non si rinnoverà il popolo meridionale con scuole elementari improvvisate, ma la lotta contro l'analfabetismo è una imprescindibile esigenza economica per il problema eticamente e politicamente più importante del Sud: l'emigrazione. 2) per la scuola elementare bisogna formare dei maestri, ossia lo Stato deve istituire delle scuole normali, anzi delle scuole medie modello, limitate di numero e coi posti concessi ad allievi per concorso; a integrare questa azione di stato provederà l'iniziativa privata: per fornire di scuole poi i paesi rurali non c'è altra soluzione fuor di quella trovata dal Monti dell'assunzione del personale non diplomato e dell'abilitazione. Ma della scuola normale o media non bisogna sopravalutare il significato: la questione dell’analfabetismo si risolve solo creando una situazione rivoluzionaria delle vecchie abitudini e suscitatrice di nuovi sforzi, come bene insegna Lenin in Russia. L'affollamento alla scuola media verrà meno non appena lo Stato non darà più ai suoi studenti titoli o lauree: poiché la nostra piccola borghesia è diventata una casta che ha il suo titolo nobiliare nel diploma. II problema dell'università è identico con quello delle scuole medie e lo si potrà risolvere solo riconoscendo che da parecchie decine d'anni la cultura universitaria è inferiore alla cultura del paese, alimentata sopratutto dalle libere iniziative del giornalismo, dei partiti, delle associazioni. 3) Poiché queste riforme parranno alla nostra reazionaria e demagogica borghesia troppo antidemocratiche o rivoluzionarie si tratta di prepararle proponendole come riforme essenzialmente economiche. La scuola di stato infatti è diventata per lo stato un problema di finanza che non si può risolvere se non sfollando gli istituti, coll'aumentare le tasse scolastiche (mettendo a concorso i posti gratuiti) ed eliminando il parassitismo professorale mediante il solo sistema infallibile di cui si disponga, ossia riducendo loro gli stipendi. Il fascismo non farà nulla di questo perché ha bisogno di gregari fedeli e non può ottenerli se non in cambio di un impiego governativo; non può lasciar libertà d'altra parte alla cultura per timore delle conseguenze e perché in ogni tempo l'oscurantismo burocratico e la morale di Stato furono le migliori armi dell'assolutismo. PIERO GOBETTI.
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