LA POLITICA DEI FILOSOFILa nuova politica liberale. Rivista bimestrale di studi politici. - Anno I, fasc. I, gennaio 1923. Che i fasti dell'idealismo attuale in Italia fossero strettamente collegati con la diffusione d'una mentalità superficiale, povera di passioni, quanto ricca di formule, non senza specifiche attitudini a sfruttare i vantaggi commerciali della moda: tutto ciò lo sapevamo da molto tempo. Come pure sapevamo che, a far la fortuna di questa schiera (che va ogni giorno arricchendosi) di giovini pensatori, basta l'apparenza di un linguaggio astruso ed elevato, nel quale in realtà i modi più raffinati della tecnica filosofica si mescolano con le forme più banali della retorica volgare, e la più desolante ignoranza delle tradizioni della nostra lingua. Un équipage cavalier fait les trois quarts de leur vaillance... Anche, da qualche tempo, vedevamo le speranze della filosofia italiana accostarsi in vario modo alla politica militante (per esempio attraverso il problema della scuola). Non avevamo mai pensato, tuttavia, che la loro trasformazione in politicanti dovesse essere così prossima. Non per altro, giungiamo in ritardo - inesperti cronisti - a render conto ai nostri lettori del matrimonio testé compiuto fra la politica ed i filosofi gentiliani. Se pur dobbiamo prestar fede alle effusioni eloquenti del sig. Carmelo Licitra; per il quale è giunta alfine l'ora «di attuare pienamente quella intima aspirazione di tutta la filosofia moderna, per cui pensiero filosofico e pensiero politico, meglio filosofia e vita politica, si unificano in un'unica opera costruttrice del mondo umano come mondo di valori». Magnus ab integro saeclorum nascitur ordo... Nonostante le amenità della prosa tronfia e giubilante del signor Carmelo, non abbiamo proprio voglia di ridere. Non rideremo di questa gente che si appresta a rinnovare l'Italia tutta «con lo spirito libero del filosofo, col giudizio sereno e costruttivo dello storico, con la volontà sostanziata di fede del cittadino». E neppure abbiam l'intenzione di discutere le loro teorie: le definizioni che il Gentile, padre spirituale della nuova generazione filosofante, ci offre del suo liberalismo («la dottrina... che afferma rigorosamente lo Stato come realtà etica, la quale è, essa stessa, da realizzare, e si realizza realizzando la libertà, che è come dire l'umanità di ogni uomo, l'energia positiva dell'uomo»); le curiose applicazioni che ricevono certe formule teoriche (per es. l'equazione di volontà e legge, che serve a giustificare la politica del dittatore Mussolini). Non discuteremo neppure certi riferimenti storici ad un Cavour che vive nella «stessa atmosfera morale del Mazzini» (espressione banale oppure inesatta); né le simpatie più volte manifestate a un Gioberti antidemocratico creato per l'occasione. Non è questo il luogo di discutere, almeno per ora. Del resto ci par più importante, mettendo in disparte la superstruttura dialettica e sistematica (pesante ornamento del poverissimo pensiero di cotesti novissimi liberali), definire i caratteri reali della loro psicologia. La quale è troppa chiara e semplice, perché certe somiglianze con la mentalità politica oggi diffusa in Italia non saltino subito all'occhio del bonario lettore. E in costoro la stessa desolante incapacità a formarsi una coscienza politica (vale a dire, una coscienza di libertà), che troppe volte, in queste pagine, abbiamo avuto occasione di lamentare, descrivendo le condizioni e le aspirazioni di questo o di quel ceto, o del paese in generale. Ma in costoro, la deficienza è più grave, e assume il colorito meschino e livido dei vizi degli intellettuali. Ecco: negli altri l'attitudine ad usare delle libertà fondamentali, che il liberalismo (quello vecchio) proclamò (conquista secolare e gloriosa), non è maggiore che nei filosofi gentiliani, come non è maggiore il senso della responsabilità civile: ma i gentiliani, per giunta, credono di poter anche giustificare scientificamente, la debolezza congenita, e scoprono, per esempio, che «uno stato che presupponga la libertà, la nega appunto perché la presuppone, ecc., ecc.». A ragione, i grotteschi teorici e lodatori del difetto profondo della razza possono scrivere: «se noi fummo una dottrina contro le ideologie internazionalistiche che volevano impedire la guerra, se ora siamo una dottrina contro gli schemi materialistici e mortificanti di ogni democraticume, Mussolini contro le une e gli altri fu ed è un atto di fede». Sta bene: noi, con i nostri temperamenti di piemontesi melanconici e misantropi non abbiamo nessun amore per le franche pazzie carnevalesche alle quali il popolo d'Italia oggi si abbandona, ritrovando l'antica spensierata giovialità: confessiamo ciononostante di preferire i matti che fanno i matti, ai pagliacci che sì camuffano da persone serie. Fuori di metafora: ai gentiliani vestiti da liberali preferiamo i fascisti, con tutto il loro dichiarato antiliberalismo. Intanto vorremmo vedere i filosofi, fuor delle dichiarazioni generiche, a risolvere dei problemi concreti: qualche saggio, ch'è in questo primo fascicolo, se mostra la loro scaltrezza nei giuochi di prestigio, è tuttavia in contraddizione con qualsiasi professione di liberalismo. Dalla scuola gentiliana si apprende certamente a impostare tutte le questioni a vuoto, per mezzo di certi trucchi troppo facili (e ormai troppo comuni), ma si perde anche il vantaggio di vedere con chiarezza le sfumature e i dettagli dei problemi politici, «per la varietà delle circumstanze, le quali non si possono fermare con una medesima misura; e queste distinzioni ed eccezioni non si trovano scritte in sù libri, ma bisogna lo insegni la discrezione». Ed è appunto ciò che manca a cotesti filosofi: la discrezione. N. S.
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