LETTERE SCOLASTICHE

III.

La scuola dei padroni e la scuola dei servi

    Caro Gobetti,
    E il rimedio alle devastazioni incitate dalla «coltura generale» nella scuola e nella società italiana?

    Uno solo, date le tue premesse: quello di sbandire definitivamente dalla nostra scuola, come dalla nostra vita, la maledetta «coltura generale» del periodo rivoluzionario ora spirante, per mettervi al posto la «coltura particolare», la coltura tecnica, concreta, precisa, interessata, rispondente al carattere dell'epoca pur dianzi incominciata. E cioè: ridurre, per tenerci nel campo scolastico, a scuole «tecniche», a scuole «professionali» autentiche, le scuole medie pseudo-tecniche e pseudo-professionali che abbiamo, e trasformare in «tecnica», in «professionale», in «interessata» la «scuola media di coltura generale», attraverso la quale si van da troppo tempo rovinando le generazioni della nostra classe dirigente. O meglio: togliere il dualismo posto, o accentuato, dalla rivoluzione francese tra scuola tecnica e scuola di coltura, fra scuola interessata e scuola disinteressata, e risolverlo nel senso da noi accennato della identità fra i due tipi di scuola, della necessità che ogni atto educativo, come ogni atto della vita dell'uomo, sia interessato immediatamente, per essere disinteressato mediatamente, si proponga un fine relativo materiale utilitario, se vuol riuscire ad un effetto gratuito ideale assoluto.

    La rivoluzione francese, per sé sola, non è stata capace di tanto, perché non è stata capace, per sé sola, di esprimere un suo tipo di umanità particolare e universale, rappresentativo della sua età, come era stato l'orator per Roma, il chierico per il medioevo, l'uomo di corte (principe, cortegiano) per il Rinascimento, e l'abate (letterato e prete) del sei e settecento; la rivoluzione francese, da sola, non ha saputo darci che il tipo di cittadino, cioè dell'uomo politico, cioè dell'uomo elettore, che non è uomo, che non è nulla, che può ispirare un Flaubert o un Sardou, ma non può informar a sé un sistema scolastico; perciò la Rivoluzione francese, in quanto tale, non ci ha dato la sua scuola rappresentativa, ma solo quella gelatina di scuola, che è la scuola di «coltura generale».

    Però la rivoluzione francese, ponendo, con la libertà politica e con il trionfo della «scienza», le premesse della cosidetta «civiltà capitalistica», poneva anche le premesse per il sorgere di un nuovo tipo di umanità, bene concreto e bene rappresentativo, che poteva bene informare a sé una scuola, come andava informando a sé una società: voglio dire, nessuno si scandalizzi, il tipo del lavoratore, o, se più vi piace, del produttore: il tipo insomma dell'operaio, del tecnico, dell'imprenditore, dell'ape neutra; il tipo d'uomo che potrà o meno piacere, ma che indubitatamente è il tipo caratteristico della società che or ora è nata, e che va prendendo il posto della società creata dalla rivoluzione francese.

    L'uomo moderno, l'uomo del nostro tempo è il lavoratore: la scuola moderna, la scuola nostra non può essere che la scuola del lavoratore, o, se volete, la scuola del lavoro.

    Abbiamo detto che l'età nostra, l'età post-rivoluzionaria non aveva una sua scuola, una vera scuola; correggiamo: la nostra età ha la sua scuola, e questa è la scuola tecnica: solamente che questa scuola, nel suo senso preciso della parola, si ha solamente nei paesi dove c'è il tecnicismo, dove cioè la civiltà ha l'aspetto di civiltà capitalistica; altrove, in paesi arretrati, come per esempio da noi, essendo la scuola tecnica la scuola interessata, sorta artificialmente prima del tecnicismo, essa, a poco a poco, fatalmente, è tornata al tipo tradizionale della scuola letteraria, e da questo accostamento è venuto fuori quell'ira di Dio di scuola media tecnico-professionale che ognuno di noi conosce. Ma anche nei paesi più progrediti nella via della civiltà moderna la scuola tecnica, tanta è la forza della tradizione, è rimasta come in disparte, è rimasta in basso nella pubblica estimazione, è ritenuta come una scuola minorum gentium, e ad ogni modo non è divenuta ancora la scuola tipica, la scuola rappresentativa, la scuola media, la scuola per antonomasia, come il suo «tecnicismo»; il suo «attivismo», non s'è ancora trasfuso consapevolmente in tutto il sistema scolastico dei singoli paesi, sino a imprimere di sé tutti i tipi di scuola, compresa la scuola media, la scuola della classe dirigente.

    Aristide Gabelli, che aveva visto tante cose nella nostra vita pubblica e nella nostra vita scolastica, aveva visto anche questa e aveva detto, più di quaranta anni fa, che «la scuola dovrebbe consistere in... una specie di officina, dove gli scolari lavorassero, ora collettivamente, ora ciascuno per sé, a modo di operai, sotto la vigilanza e la guida del loro capo». Il voto di quel buono e serio italiano si deve avverare, si va avverando, io credo: o io m'inganno o tutta la scuola, anche in Italia, tende, più o meno consapevolmente, ad assumere l'aspetto di scuola del lavoro. Non parliamo delle scuole tecnico-professionali, di cui sempre più urgente è sentito e proclamato il bisogno, ma anche la scuola elementare, anche la universitaria si sente che vogliono trasformarsi sempre più da scuole di coltura generale in laboratori e palestre di esercizio particolare.





    Tagliata fuori da questo salutare movimento è rimasta, finora, la scuola media; è mestieri immettere anche questa nella corrente.

    E come, precisamente, si può far ciò, per la scuola media, in genere, per la classica in particolare?

    Un altro principio aveva affermato la rivoluzione francese, nel quale era posta un'altra premessa per la costituzione della nuova scuola, della nostra scuola: il principio della sovranità popolare. Se il popolo è sovrano - ognuno lo sa a mente il ragionamento – questo popolo deve essere addestrato a esercitare la sua sovranità e deve essere per ciò educato e istruito: strumento speciale per tale addestramento, per tale educazione e istruzione, la scuola in genere, e, particolarmente, la scuola del popolo. Il ragionamento fila, con l'unica riserva, da parte nostra, che codesto della scuola non è lo strumento per l'educazione del popolo, ma è uno strumento; uno strumento però capitalissimo, della cui importanza ci si convince più particolarmente quando si notano di questa scuola non i pregi, ma i difetti, non i benefici dè suoi pregi, ma i danni dè suoi difetti o della sua assenza. Il ragionamento, dunque, fila, ma codesto ragionamento vuole essere compiuto così: «se il popolo è sovrano, sovrana ha da essere fra le altre la scuola dove codesto popolo si educa, cioè la scuola popolare: se il popolo è il centro della vita pubblica d'uno stato moderno, centro della vita scolastica di questo stato deve essere la scuola popolare». (Prego credere, caro Gobetti, che a questi lumi di luna, non parlo così per seguir la corrente, né per amor di popolarità).

    Accade questo nei nostri stati moderni? Altrove non so, ma non credo; in Italia, certo, non accade. Perché questo sia, non basta che esista una legge per l'istruzione gratuita e obbligatoria, e non basta neanche, ciò che del resto non è, che questa legge sia applicata appieno; perché questo sia effettivamente, occorre che tutta l'attività educativa di uno stato, e, per prima cosa, tutta l'attività scolastica, cospiri a questo unico scopo: educare convenientemente il popolo. E per ciò la formula è in Italia: «ogni Italiano sia un maestro»: la quale formula, tradotta nella pratica scolastica, suona così: «tutta la scuola sia scuola del maestro».

    E con ciò si sarebbe anche posta la soluzione dell'altro problema, della definizione d'un tipo di umanità totale e rappresentativo, che sia per l'età nostra quel che furono per le passate, via via, il letterato, il principe, ecc.: e che imprima di se, come tutta la società moderna, così tutta la scuola moderna. Abbiamo detto che questo tipo esisteva ed era il tipo del lavoratore: ma questo è un qualcosa di troppo generico ancora per una parte, e di troppo ristretto, per un'altra: perché questo tipo sia davvero consistente e davvero totale, e sia vasto abbastanza e abbastanza vitale, perché sia, insomma, davvero umano, occorre limitarlo ancora e ancora dilatarlo: occorre dire QUALE lavoratore debba essere tipico per la nostra scuola, e occorre che in questo lavoratore sia contenuto evidentemente e sinteticamente l'uomo, come era del principe, del sacerdote, dell'orator, permodoché evidentemente la scuola nostra formi, attraverso questo lavoratore, l'uomo e il cittadino, come la scuola di Roma formulava, attraverso l'orator, il civis e anche l'homo.

    Per me questo tipo di lavoratore e di uomo è oggi il «maestro», il «maestro del lavoratore», «il maestro del popolo»; il maestro che è sempre maestro e sempre cittadino e sempre uomo, e che è maestro solo se è uomo, e in tanto è uomo in quanto è maestro, educatore: educatore di sé, anzitutto, poi dé suoi amici, dé suoi figli, dé suoi uguali, dé suoi inferiori, dé suoi superiori; maestro sempre, in ogni tempo, in ogni luogo, in ogni fortuna.

    La scuola nostra in genere, la scuola media in particolare, la scuola classica più in particolare ancora (del resto scuola classica = scuola, se vuol essere scuola), dovrà essere, se scuola vuol essere, scuola del maestro.

    E questo, caro Gobetti, era il secondo punto ch'io ponevo in quel tale mio articolo di Rivoluzione Liberale dove dicevo: «La nostra scuola classica, se vuol formare qualcosa e qualcuno, deve formare l'italiano, il cittadino, l'uomo, attraverso il maestro; deve essere professionale, interessata (magistrale) per il suo scopo immediato; disinteressata, di cultura generale (umanistica), per il suo risultato ultimo».

    Ma trasformando il ginnasio-liceo in «iscuola del maestro» non si sarà mica fatto gran che per la scuola magistrale né per la elementare; si sarà forse risolta la questione della scuola classica, nel senso non di rammodernarla o, Dio ci salvi, di «democratizzarla», ma nel senso di più avvicinarla alla realtà del suo tempo, di darle quel suo perché che essa ha perduto dall'89 in qua, e di cui essa, superba, dice di non saper che fare, ma senza di cui la scuola classica, come nessuna scuola, non può vivere, e senza di cui la scuola classica non è né scuola né classica.





    Ma con ciò non si sarà risolta la questione della scuola normale. «Il liceo normalizzato - dicevo in quel tale articolo - potrà darci il maestro buono per i grandi centri urbani e per la scuola primaria di preparazione alla secondaria. Questo maestro sarà fuor di posto nella scuola elementare popolare e nella scuola rurale». - «Per queste scuole (la rurale e la popolare) soggiungevo – ci vorrà un maestro che venga da una scuola fatta apposta per lui, da una scuola veramente e solamente magistrale. Questa scuola, secondo noi classicisti a oltranza, non dovrebbe avere, come materia centrale, il latino».

    E qui interveniva Jean Paul, il quale «stupiva» a vedere come io, insomma, pensassi a una scuola di maestri urbani diversa da quella dei maestri rurali, e trovassi che «il latino, buono sul livello del mare e fra centomila anime, diventasse cattivo a mille metri di altezza e fra quattrocento abitanti». E, pigliato l'abbrivo, lo scrittore di N. S., mi faceva un suo garbato sermoncino su quel curioso vizio dell'urbanesimo intellettuale di cui tutti noi siamo vittime un poco, e «per cui non vediamo possibilità di studio se non nei grandi centri, ecc».

    Il quale sermone, ricordo, mi fece un poco ridere, perché subito io ci feci la riflessione che considerazioni di quel genere io le avevo sempre udite fare da gente che nei grandi centri di studio era cresciuta e da quei centri non s'era mai voluta spiccare. Ma per me, che questo po' di coltura che ci ho me la son messa insieme fra Giaveno e Bosa, fra Chieri e Reggio Calabria, fra Sondrio e Brescia, dichiaro che se son riuscito pur vivendo in questi luoghi a mantenermi a galla, ci son riuscito unicamente grazie alle riserve che mi ero fatto in vent'anni di vita torinese, e che mi sono alimentate derivandovi sempre nuovi elementi (da centri come Firenze o come Milano o come Torino o, magari, come Pisa. E a questo son riuscito solo con indicibili sforzi, con lotte infinite e stremanti combattute non mica contro le difficoltà dell'ambiente (scarsità di libri, impossibilità di «tenersi al corrente») ma contro la facilità dell'ambiente, cioè con quella possibilità, tutta propria del piccolo e mediocre centro, di passar per un grand'uomo non essendo che un imbecille, di esser tenuto per una persona «che sa tutto» anche e specie quando non sai niente.

    Ma il sermone di J. P. era una parentesi, e una parentesi è questa mia risposta. Chiusa la quale vengo al punto del latino nella normale, anzi al punto delle due normali, o meglio al punto della distinzione fra «scuola classica» e «scuola magistrale». Porre il latino nella normale riformata non vuol dire, per chi non sia un materialista della didattica, migliorare la normale, rifare la normale a base umanistica, ecc., ma vuol dire, se vuol dir qualcosa, «trasformare la scuola normale in scuola classica». Al che io sono contrario, primo, perché l'intesa è sempre stata, le scuole classiche governative di diminuirle di numero e non di aumentarle sia pure con un nome cambiato; secondo, perché il processo ch'io voglio si segua per la riforma della scuola è l'opposto di quello tracciato nella riforma Anile, e ora, pare, nella riforma Gentile: il mio è dalla classica alla normale, quello di Anile e di J. P. è dalla normale alla classica; terzo, sono contrario appunto per quella famosa idea della «scuola del maestro rurale diversa dalla scuola del maestro urbano». Ed ora spiego questa mia ultima idea.

    Ho detto: il mio liceo normalizzato è buono per formare il maestro della elementare dei grandi centri urbani, anzi il maestro della primaria preparatoria alla media (nei centri urbani moderni, ormai, tutta la elementare è, in sostanza, preparatoria a una media o complementare); tale liceo non è buono per il maestro di scuola rurale. La differenza non è didattica, è sociale; non è tra scuola e scuola, ma tra classe e classe, direi fra razza e razza.

    La scuola classica tradizionale (e il liceo magistrale, comunque, sarà sempre scuola classica tradizionale), è uno strumento di coltura - di dominio - che si formò per sé nei secoli e si affinò la classe finora dominante, la classe degli àristoi, degli ottimati; e questa scuola ha di questa classe l’impronta, i vizi e i pregi. Ma fuori dei padroni c'è sempre stata e c'è (non so se ci sarà) l'altra classe, l'altra razza, duella dei servi, quella dei kakoì.

    Finora, nei secoli, gli ottimi si sono ridotti a vivere nei centri, e qui hanno plasmato simili a sé anche quelli dei servi che s'eran ristretti attorno a loro a servirli, a sfruttarli, a sostituirli. Ma attorno a queste isole è rimasto il mare dei kakoì irriducibili, delle moltitudini contadine, altre, diverse dalle minoranze cittadine, chiuse ad esse, ostili: inutile ricordare jacqueries, Vandea, orde del Ruffo, marioli toscani, fascismo rusticano: meno inutile avvertire che il cosidetto estremismo di certe nostre masse operaie non è che l'odio per il padrone, per il civile, vivo ed esplodente nel contadino non ancora trasformato in operaio urbano.

    Comunque, sta il fatto che le due razze, le due classi ci sono: e che la prima ha per sua scuola rappresentativa la scuola classica; l'altra, finora, non ha avuta una scuola sua, o meglio, aveva la Chiesa, ma ora non le basta più, vuole, deve avere una scuola sua per sé; questa scuola rappresentativa della gran dormiente che si è ridesta, non può essere che la scuola del contadino, anzi la scuola del maestro del contadino; voler soddisfare a questo bisogno offrendole una scuola normale classica o classicizzata, è far opera, lasciamo stare se onesta o disonesta, se reazionaria o democratica, certo vana: è ammannire a quelle plebi un cibo che non è fatto per il loro stomaco, ed è, se si insiste, condannare quelle plebi a far la morte di Bertoldo. (Prezzolini, l'immagine me l'hai suggerita tu).





    E qui Jean Paul insiste, e mi ripete la lezione così bene imparata: che la cultura «nella sua sostanza etica e nel suo valore spirituale è unica e invariabile», e che quindi non ci son le scuole ma la scuola, ecc., ecc.

    Già: lo spirito unico, sempre quello. Sempre quello, ma sempre altro, unico ma diverso, alius et idem come il sole del Carme Secolare. E se codesto spirito (codesta cultura) è alius et idem, vorrà dire che uno che pensi alle cose dello spirito sarà padrone di preferire l'alius, come un altro sarà padrone di preferire l'idem; questione di... punti di vista. Vorrà dire che Jean Paul, leggendo i libri del Gentile, insegnando pedagogia o filosofia a Pisa o a Firenze, e tenendo corsi estivi ai maestri, avrà avuto modo di meglio considerare della vita scolastica l'idem. Augusto Monti invece, avendo insegnato un po' di tutto un po' dappertutto, e convivendo da anni con maestri, con umili, con pauperes de spirito, e anche leggendo un poco i libri del Croce, di questa nostra vita scolastica e di questa nostra vita nazionale, ha avuto campo e modo di osservare particolarmente l'aliud. E sulla base di queste sue annose e concrete osservazioni egli dice: la realtà nazionale, etnica, sociale della nostra Italia è diversa, non è unica: diversa sia la scuola che mira a conoscere e a fecondare tale realtà; la riduzione ad unità avverrà a ogni modo da sé, fatalmente, divinamente.

    Nei propositi siamo diversi, saremo unici negli effetti. Poniamoci per diverse strade, tutte portano a Roma. Se vogliamo batter tutti la stessa strada, non ci capiremo dentro, si farà una gran ressa e per arrivare dovremo ancora sparpagliarci per forza. A voler mirare all'unico si arriva al vario, al diverso, al nulla; se è degli uomini fare il diverso, fare l'identico, l'unico è della Storia, o di Dio.

    Antiguelfo, nel replicare a Jean Paul, ha avuta meno pazienza di me, gli ha fatto subito l'ultimo prezzo, e, nella sua nota «Il materialismo di un pseudo-idealista», dopo aver riferito l'obiezione di Jean Paul, l'ha buttata giù con un colpo d'anca, così: «In tutto ciò noi vediamo una sola cagione di stupore; che si voglia giudicare di complessi problemi pratici senza averne alcuna esperienza, irrigiditi in uno schematismo filosofico peggio che illuministico».

    Invece di pestare subito io ho preferito ragionare: Antiguelfo è stato più, con permesso, fascista, io ho voluto essere più, con permesso, evangelico; il che non toglie che Antiguelfo ed io si possa andare, sulla sostanza di certi argomenti, perfettamente d'accordo. Continuando dunque a ragionare, per vedere di persuadere Jean Paul della vanità d'un tentativo di liceo magistrale, addurrò un ultimo argomento, ricavato non dalle altezze della filosofia, che a ripir lassù alla lunga ci si perde il fiato, ma dalla umiltà della esperienza, in cui è pure, se non tutta la filosofia, almeno tanta filosofia.

    Avevo detto già, in quel tale articolo, che «un maestro discretamente pagato, mediocremente colto, agevolmente trasferibile» non si adatta più a rimanere nelle disagiate residenze delle scuole di campagna, e avevo soggiunto: «aumentate gli stipendi, aumentate la coltura del maestro, questo particolare stato di cose non farà che aggravarsi». Ed è così: supponiamo pure che sia risolta la questione della coltura magistrale nel senso voluto dall'Anile e dalla Nostra scuola, e, in parte, anche da noi, di dare al maestro una coltura classica; supponiamo che sia bello e fatto il liceo magistrale di cui parla Jean Paul, con latino, disegno, pedagogia, ecc., supponiamo che tutte le figlie di contadini che voglion far la maestra siano avviate alla nuova normale inlatinata e ne vengano fuori bene «umanizzate», credete voi che questi nuovi prodotti della nuova normale, sia pure adeguatamente trattati economicamente e giuridicamente, si adatteranno a restar nei loro selvaggi borghi natii e, restandoci per forza, ci faranno meglio che ora? Illusione la vostra se credete ciò.

    Provatevi a fare una statistica dei maestri italiani col criterio dei titoli di studio, vedrete che tutti i maestri che hanno, oltre la patente, una licenza di ginnasio, di liceo, un diploma di corso di perfezionamento, una laurea, tutti sono nelle grandi e medie città; e quelli dei maestri che dopo la patente, studiano o per aver la licenza liceale, o un diploma di magistero, o una laurea, lo fanno per evadere dalla scuola rurale, se non addirittura dalla elementare, lo fanno insomma per «andare in una bella sede», cioè in una città grande. La maggior coltura li ha, dicono loro, «inciviliti», e quindi non possono più restare fra gli zotici figli dei campi, han bisogno di congregarsi coi «civili», coi «cittadini», a cui la scuola di coltura li ha resi simili; date a tutti i maestri la coltura della nostra scuola classica, vedrete dove li andrete a pigliare i maestri, nonché per Sommaprata e Ca' del Conte, anche per Castagneto Po o per Santa Lussurgin.

    E' inutile: per la scuola di città ci vuol un maestro cittadino, per quella operaia ci vuole un maestro operaio, per quella dei contadini, ci vuole un contadino maestro.

    La scuola magistrale veramente classica, sarà quella che risolverà meglio questo problema, non quella che insegnerà il latino a tutte le future maestre di campagna; la nostra scuola magistrale classica non sarà quella che ci darà un maestro il quale abbia studiato oggi; o bene o male, più male che bene, una lingua e una letteratura dei tempi antichi, ma sarà quella che ci preparerà un maestro il quale faccia l'arte sua oggi, come lo faceva allora il maestro di quei tempi.

    E una prossima volta, caro Gobetti, se mi vorrai dar retta, andremo a cercare nella letteratura classica, il tipo di questo maestro classico, di questo maestro vero.

AUGUSTO MONTI.