IL MATERIALISMO STORICO

Determinismo economico e materialismo storico

    Quando l'articolo critico di Gaetano Mosca sul materialismo storico usciva sopra queste colonne, io avevo da pochi giorni avuto occasione - in risposta ad un altro pur colto ed acuto avversario (B. Giuliano) – di osservare quale singolare sorte toccasse talora a certe dottrine, fraintese e deformate nella comune accezione, e confutate quindi con la ripetizione di quei medesimi principi inspiratori, che costituiscono la loro intima vitalità, e dovrebbero costituire le ragioni del loro riconoscimento.

    L'osservazione debbo ripeter qui oggi, nell'atto di considerare le obiezioni del sen. Mosca, la cui ampia dottrina, il cui vivo senso dei processi storici facilmente riescono vittoriosi contro il rigido e gretto determinismo economico; ma quando in questo ritengono di aver colpito la dottrina filosofica del materialismo storico, son tratti a contrapporgli affermazioni che già i primi teorici di tale concezione avevano esplicitamente espresse, e che i consapevoli seguaci odierni non soltanto ben volentieri accettano, ma ripetono tanto instancabilmente quanto (ahimè!) vanamente, contro fraintendimenti e deformazioni sempre rinnovantisi.

    «Non si vuol negare (scrive egregiamente G. Mosca a un certo punto del suo articolo) che il sistema prevalente di produzione economica, coi particolari rapporti che esso determina fra coloro che la produzione dirigono e che posseggono gli strumenti ed i loro coadiuvatori, non sia uno dei fattori che maggiormente influiscono nel modificare gli ordinamenti politici di una società, e che questo fattore non abbia il suo necessario contraccolpo anche nelle concezioni che servono di fondamento agli ordinamenti accennati. L'errore... sta nel credere che il fattore economico sia l'unico degno di essere considerato come causa e che tutti gli altri debbano essere riguardati come suoi effetti; mentre ogni grande esplicazione dell'umana attività nel campo sociale è nello stesso tempo causa ed effetto dei mutamenti che avvengono nelle altre: causa perché ogni sua modificazioni influisce sulle altre ed effetto perché sente l'influenza delle loro modificazione».

    Ora tale reciprocità del rapporto di causa ed effetto era precisamente il concetto che i fondatori del materialismo storico (assertori - non si dimentichi - della dialettica) contrapponevano alla univocità affermata nelle varie teorie dei fattori storici, caratterizzate dalla disgiunzione reciproca di quegli aspetti ed elementi dello sviluppo storico, che il marxismo vede ed asserisce sempre legati dall'unità della vita. Solo per via della disgiunzione può uno tra i vari fattori essere preso come causa di tutti gli altri, convertiti a un semplice effetto: là dove il concetto marxistico della praxis che si rovescia significa invece un rapporto dialettico e uno intreccio e scambio d'azione tra cause ed effetti nella storia: per ciò Engels, nell'Antidühring (cap. I) e nella nota lettera del 1890, contrapponeva alle altrui visioni unilaterali ed astratte la pienezza concreta della concezione dialettica sua e di Marx: «Ciò che manca a questi signori è la dialettica. Essi non veggono che qui che causa, là effetto: ecco un’astrazione vuota. Nel mondo reale simili opposizioni polari, metafisiche, non si danno che nelle crisi; tutto lo sviluppo si compie nella forma dell'azione reciproca - di forze a dir vero assai disuguali - di cui il movimento economico è il più potente, originario e decisivo; nulla vi è di assoluto e tutto è relativo; ma essi non se n'accorgono, per loro Hegel non è esistito».

    Ora, di fronte ad affermazioni così esplicite, è più possibile riassumere col Mosca tutta la dottrina del materialismo storico nei due assiomi, nei quali egli vuole sintetizzarla?





    Il primo assioma sarebbe la dipendenza di tutta l'organizzazione politica, giuridica e religiosa di una società dal sistema di produzione economica vigente, e di ogni mutamento intellettuale, morale e politico dai mutamenti del sistema di produzione; il secondo assioma sarebbe l'automatico generarsi e maturarsi, in seno ad ogni epoca economica, dell'epoca destinata a succederle, come nella presente epoca borghese, attraverso la progressiva concentrazione delle ricchezze, verrebbe preparandosi la fatale successione del collettivismo.

    Anche qui mi basterebbe citare due molto esplicite dichiarazioni dell'Engels. L'una di una ben nota lettera del gennaio 1894: «Non c'è dunque, come taluno arriva ad immaginare, un'azione automatica delle condizioni economiche: gli uomini fanno loro stessi la propria storia, ma in un ambiente dato che li condiziona». L'altra di uno scritto del 1890, che si richiama all'Antidühring, contro l'Ernst, il quale accoglieva «la bislacca affermazione del metafisico Dühring, che per Marx la storia si compia quasi automaticamente, senza l'opera degli uomini (i quali la fanno), e che questi uomini vengano mossi dalle condizioni economiche (che sono pure opera degli uomini) come altrettante figure di scacchi» (Sulla tattica socialista).

    Dove è evidente il nucleo essenziale della differenza del materialismo storico dal determinismo economico, col quale di solito (e anche dal Mosca) viene scambiato e confuso: ossia la unità (che il primo sempre mantiene e il secondo rompe con l'ipostasi dell'economia) di ogni forma, aspetto e risultato dell'attività umana (siano le condizioni economiche, siano le politiche, giuridiche, religiose o quali altre si vogliano) con la sorgente dalla quale tutte derivano e in cui tutte si ripercuotono; con la energia rigeneratrice che tutte le produce e di tutte risente l'effetto nel modo di essere e di operare successivo: cioè l'uomo, che è il vero creatore della storia, nella quale forma e trasforma, genera e condiziona se stesso e tutto l'indefinito svolgersi del proprio sviluppo, e dei risultati, prodotti ed effetti di questo, continuamente convertentesi in fattori, cause e condizioni - limiti ed ostacoli da un lato, e per ciò stesso d'altro lato impulsi e stimoli allo ulteriore progressivo svolgimento.

    Ciò posto non mi sembra il caso di addentrarmi nella discussione dei numerosi esempi, che il Mosca adduce in confutazione del determinismo economico. Potremmo, in più punti, dissentire nel giudicare il valore probativo e il significato di più d'uno tra quegli esempi; potrei, per esempio, alla sicurezza, con la quale il Mosca asserisce essere noto che la statistica ha dimostrato ormai l'inesistenza anche del semplice incamminamento della società capitalistica verso una concentrazione delle ricchezze e dei mezzi di produzione in sempre minor numero di mani, obiettare che studiosi pure eminenti, anche fuori del campo socialista, sono di parere ben diverso. Ricordava di recente il Longobardi (La conferma del marxismo) le conclusioni di Corrado Gini, che ha innegabile autorità nel campo della statistica, il quale in un suo libro del 1914 (L’ammontare e la composizione della ricchezza delle nazioni), scriveva che «i dati sui patrimoni dei viventi accusavano quasi da per tutto, negli ultimi anni, una diminuzione della diffusione e un aumento della concentrazione della ricchezza... Dalle relazioni accertate in questo cap. si può dedurre che la concentrazione della ricchezza andrà, probabilmente, ancora crescendo in avvenire, etc.». E ricordava altresì conclusioni analoghe del Nitti e dello stesso prof. Alberto De Stefani, che non può essere sospettato di superstizione marxista.





    Ma accettando la discussione su questo terreno, io dovrei collocarmi all'angolo visuale di quella teoria, che il Mosca combatte, si, sotto il nome di materialismo storico, ma che, invece, è puro determinismo economico. E la discussione sarebbe vana, perché si ridurrebbe a dibattito fra due avversari di una stessa concezione, che possono divergere non nella valutazione generale, ma solo nella interpretazione e nell’apprezzamento particolare dei singoli fatti.

    Ciò che invece importa in cambio di simile disputa, è determinare il significato essenziale del materialismo storico, per bene intendere anche per quali ragioni esso affermi (secondo l'espressione di Engels) che nella società e nella storia «fra i rapporti reali gli economici, per quanto subiscano l'azione degli altri rapporti politici e ideologici, siano in ultima analisi i rapporti decisivi, e costituiscano quasi il filo rosso, che attraversa tutta la storia e ne guida l'intendimento».

    Lo scambio fra materialismo storico e determinismo economico non è certamente un errore esclusivo del Mosca: fra coloro stessi, che si credono e si affermano seguaci del marxismo, non sono pochi quelli che aderiscono alla stessa interpretazione, dalla quale han preso le mosse anche i fautori del revisionismo, dal Bernstein ai sindacalisti. Nel delineare il materialismo storico siccome teoria di uno svolgimento fatale della storia per movimento automatico dei processi economici, della cui realtà concreta non sarebbero che riflessi evanescenti e privi di efficacia propria le così dette soprastrutture, tutti (seguaci, revisori, avversari) si richiamano o potrebbero richiamarsi a certe formule schematiche, reperibili qua e là negli scritti specialmente di Engels, ma raffiguranti la complessa concretezza della dottrina con la stessa esattezza, a un dipresso, con la quale i rapidi tratti di un profilo caricaturale danno la precisa immagine di una persona.

    Se fra le fuggevoli affermazioni sparse e talvolta contradditorie, fra gli abbozzi incompleti della dottrina, fra le frequenti esagerazioni polemiche dei due fondatori di essa, noi vogliamo orientarci con sicurezza, ci occorre un criterio valido: il quale non può essere altro che la ricostruzione della generi e dell'intendimento essenziale di questa dottrina.

    E' noto che Marx ed Engels vengono dalla sinistra hegeliana e prendono le mosse dall'opera di Feuerbach. Analizzando l'essenza del cristianesimo e di ogni religione, Feuerbach aveva inteso a ricondurre l'uomo dal cielo in terra: l'uomo non è creatura, ma creatore di Dio; nelle sue miserie e nei suoi dolori, nei suoi bisogni e nelle sue difficoltà, esso proietta le sue aspirazioni e le sue idealità in una realtà ultramondana separata da se stesso e dalle necessità della lotta e dello sforzo operoso. Compie un’autoalienazione, convertendo in oggettività futura di appagamento la sua soggettività presente di bisogno; e nella preghiera e nella attesa del miracolo rinuncia così all'attività, che è necessariamente consapevolezza della distanza tra aspirazione e meta, ed è perciò urto con gli ostacoli. Quindi il richiamo dell'uomo dall'illusione religiosa alla sua realtà umana, non è soltanto richiamo alla consapevolezza del proprio essere, riconquista del quel«io» che proiettato in altro mondo era alienato da se stesso; ma, nella riconquista della propria attività vitale, è anche coscienza della natura, delle difficoltà che essa oppone all'uomo, alle sue aspirazioni ed ai suoi bisogni; è consapevolezza della necessità di una lotta contro gli ostacoli. Per tal via il limite diventa esso stesso condizione e stimolo della praxis: mediatore il bisogno, l'ostacolo si tramuta in impulso all'attività. Sopra la scissione della realtà terrena e dell'idealità celeste l'unità del reale si ristabilisce; ma è una duplice realtà: della natura, che condiziona, e dell'uomo che esercita e svolge la sua attività. Ecco l’umanesimo naturalistico di Feuerbach che si sostituisce al miraggio religioso.





    Ora da questo reale Humanismus muove Marx; che si pianta e resta sul terreno concreto dell'umanismo; ma compie un passo ulteriore, di immensa importanza: dal naturalismo allo storicismo. Il campo della sociologia e della storia che, secondo Engels, era rimasto estraneo del tutto a Feuerbach, è quello in cui Marx trasporta l'umanismo: la realtà umana per lui non va cercata nell'astratto individuo, ma nell'uomo sociale, nella collettività associata. Gli uomini sostituiti all'uomo, la società messa al posto dell'individuo ci dà, nella confluenza ed unità dei molteplici sforzi e nella continuità delle generazioni, il passaggio dalla natura alla storia. Stimolo il bisogno, come già per Feuerbach, l'umanità combatte e supera via via gli ostacoli, modifica le condizioni naturali, inizia la sua storia. Storia, cioè processo di svolgimento, perché il bisogno che muove gli uomini non è, come in Feuerbach, la ripetizione sempre identica della fame, della sete e delle altre necessità naturali, onde per il rinnovamento costante degli stessi bisogni non possono generarsi che sempre le stesse azioni. Alla ripetizione statica si sostituisce lo sviluppo dinamico di bisogni sempre nuovi, infinitamente rampollanti dalle condizioni già raggiunte: come diceva già Bruno, «nate le difficultadi... sempre di giorno in giorno, per mezzo de l’egestade, dalla profundità de l'intelletto umano si eccitano nuove... invenzioni». Il bisogno per tal modo da esigenza naturale è convertito in forza generatrice e motrice della storia; al posto dell'astratto uomo della natura appare l'uomo reale e vivo nella storia: reale e vivo, in quanto collettività associata; nella storia, che è opera sua e, nel tempo stesso, condizione e stimolo continuo dell'opra successiva.

    Quindi in questa nuova posizione di pensiero quattro punti appaiono essenziali: 1) il superamento della religione e la riconquista dell'uomo, come in Feuerbach; ma, in più, col riconoscimento dell'uomo nella società concreta e non nell'individuo astratto; 2) il risveglio della praxis storica, cioè dell'attività operosa e inesausta dell'umanità, non più collegata, come in Feuerbach, con la natura statica, ma col dinamismo della storia, in una variazione progressiva, nella quale ogni momento è legato alle condizioni reali esistenti, sicché il passato condiziona il presente e questo l'avvenire; ma al tempo stesso è anche stimolo e impulso all'azione ulteriore modificatrice, sicché lo sviluppo storico risulta dalla confluenza e dal contrasto insieme di due elementi: le condizioni reali e la volontà umana. Questo è il rovesciamento della praxis, di cui parla Marx: l'applicazione alla storia del motivo essenziale del naturalismo umanistico di Feuerbach. 3) Nella dinamica della storia il cui inizio e svolgimento ha origine e radice nei bisogni, Marx è condotto alla scoperta del bisogno fondamentale fra tutti, che è l'economico; ma che è sempre un bisogno dell'uomo, non separato dall'uomo e per sé stante; 4) in conseguenza di ciò, nel campo dell'economia Marx, come Feuerbach nel campo della religione, è tratto a combattere ogni ipostasi, ogni proiezione e divinizzazione di ciò che è e non può essere opera ed attività umana. Quindi contro l'economia ortodossa, che compiva una Selhstentfrendung analoga a quella della religione, convertendo le categorie economiche in eterne ed immutabili dominatrici inflessibili dell'uomo, Marx vede nell'economia null'altro che un processo storico, opera dell'uomo al pari della religione. Ora separata dall'uomo, resa astratta e per se stante, essa, come il dio della religione, diventava immobilizzata e convertita in mito come categoria eterna; ricollegata con l’uomo, forza viva dinamica, rientrava nell'ordine della mutazione e del divenire storico. La distruzione del feticcio significava riconquista della praxis, risveglio della coscienza e delle forze rivoluzionarie e loro messa in movimento ed azione. Ma in azione consapevole, cioè conscia del suo essere legata alle condizioni reali, non arbitraria, condizionata nelle sue possibilità, e nella direzione ed estensione di ogni movimento.





La praxis e la lotta di classi nella storia

    Questa derivazione, formazione e direzione essenziale del marxismo appare chiara ed evidente nella serie degli scritti di Marx ed Engels che precedono il Manifesto dei comunisti: E sarebbe agevole, ma ci porterebbe un pò per le lunghe, il documentarlo con citazioni, fino a quella formulazione scultoria della filosofia della praxis che ci appare nelle vigorose glosse di Marx a Feuerbach. Dove il rapporto fra l'uomo e la realtà si riassume e s'impernia saldamente nell'azione, per la stessa reciprocità che viene stabilita fra il conoscere e l'operare. Per operare occorre intendere la realtà (ossia è necessaria una coscienza critica e storica del mondo), ma reciprocamente non si intende la realtà se non operando su di essa: «i filosofi han cercato di interpretare il mondo, ma bisogna cangiarlo».

    Ecco la reciprocità: occorre, sì, interpretare per cangiare; ma occorre del pari cangiare per interpretare. La reciprocità di queste condizioni e di questi presupposti non si può intendere se non nella praxis che si rovescia.

    La realtà del mondo umano è nella storia. Ma nella successione delle età, onde questa è costituita, ogni età è come un ponte tra due rive che resterebbe incomprensibile nella sua esistenza e nella sua funzione se non si vedesse al di là e al di qua di esso la strada che ad esso mette capo e quello che da esso s’inizia e si svolge. Così la coscienza del presente implica ed esige due condizioni del pari: non soltanto, cioè, il passato, che del presente contiene le radici e le cause, le condizioni e i limiti; ma anche l'avvenire, che del passato e del presente deve esprimere il significato ed il valore.

    Quindi la coscienza storica, sola coscienza piena della realtà umana, deve abbracciare nella sua visione tutta la storia, compiuta e da compiere, mirando ad un orizzonte sempre aperto, che si stende indefinitamente nel futuro non meno che nel passato. Solo così si coglie la visione della umanità che produce e rinnova sempre se stesa, nel processo infinito della praxis che si rovescia. Ma per ciò appunto per interpretare il mondo bisogna volerlo cangiare; ossia, secondo il concetto di Marx, solo nel rivoluzionario può affermarsi una vera e piena coscienza storica; giacché egli solo, mentre non può e non deve rinnegare il passato, se vuol essere consapevole di se stesso e della sua azione, cerca d'altra parte nel futuro lo svolgimento del presente, che ne deve esplicare il significato ed il valore; e solo per tal via può cogliere veramente la vitalità e forza creatrice della stessa storia trascorsa.

    Come aveva detto Bruno, bisogna saper vivere vivi gli anni altrui ed i propri; ma è possibile rivivere veramente gli anni altrui, solo vivendo i propri; è possibile intendere solo rinnovando, nel cangiamento e dello sviluppo attivo.

    Sviluppo attivo: ecco la differenza dalla teoria dell'evoluzione. Lo svolgimento in questa è un prodotto passivo di un processo di adattamento; nel marxismo è una conquista attiva che si compie per via della lotta. Perché per via della lotta? Noi possiamo chiarirlo mediante un confronto con ciò che accade nello sviluppo organico e mentale dell'individuo. A ogni fase di tale sviluppo è necessario un equilibrio, un assestamento: le forze attive si sistemano in forme; ma non si cristallizzano in queste; le fasce, che stringessero sempre a un modo il neonato che cresce, finirebbero per soffocarlo. Ora analogamente nella società umana si ha nello sviluppo che è sprigionamento continuo e progressivo di forze, ad ogni fase il bisogno e la creazione di forme d'assestamento. Ma queste forme rappresentano il costituirsi di interessi differenziati, ossia di gruppi, di ceti, di classi interessate alla conservazione delle forme e dei rapporti esistenti, il differenziarsi della società equivale ad una scissione o lacerazione ulteriore di essa, e tale appunto risulta allorquando forze nuove, sollecitate da un bisogno di crescenza e di espansione, si avanzano impellenti, rappresentate da ceti o classi, che non possono adagiarsi nella sistemazione precedente, ma sono interessate allo sviluppo e al superamento della condizione esistente. La scissione si manifesta allora nell'antitesi e nella lotta che ne deriva; la quale è, sì, lotta delle forze d'espansione contro la costrizione delle forme che ad esse contrasta; ma non è soltanto lo sforzo del pulcino che rompe un guscio inerte, perché è lotta con le forze vive di conservazione. Bisogno di nuove forme contro resistenza, delle forme già costituite, è un'antitesi e un conflitto che nella realtà si concreta in urto di forze contro forze, cioè di classi contro classi: la lotta di classe per ciò appare, secondo la dichiarazione del Manifesto dei comunisti, essenza del processo storico, e, nel tempo stesso, forza motrice dello sviluppo.





    Certamente questa lotta apre la via a tre diverse possibilità: il trionfo delle forze conservatrici (con la cristallizzazione della vita sociale in un rigido regime di caste); il logorio degli avversari nella lotta (con la rovina di entrambe le classi, di cui parla anche il Manifesto dei comunisti); e in fine, oltre questi due risultati, che non sono mai definitivi, il caso più normale, della prevalenza delle forze d'espansione sugli ostacoli e le resistenze, con la prosecuzione dello sviluppo storico della civiltà.

Le forze produttive e la preminenza
del bisogno economico

    Quali sono queste forze d'espansione, che generano il progressivo superamento delle forme sociali già costituite? Sotto tutte le energie ed attività crescenti degli uomini, che si possono ricondurre tutte al concetto di forze di produzione, dalla cui espansione appunto risulta l'incompatibilità della permanenza di forme convertite in vincoli, impacci e limiti, che urge spezzare e superare. Ma queste forze sono gli uomini stessi, con tutto il complesso delle condizioni da loro create e dei bisogni crescenti che li sospingono. L'impulso allo sviluppo è sempre il bisogno, dal quale l'attività è destata ed eccitata; e fra tutti i bisogni c’è n'è uno che è fondamentale, più generale forse e impellente (nel complesso della società, bene inteso, non in tutti i singoli individui) di tutti gli altri: ed è il bisogno e l'interesse economico. Ma questo bisogno non è mai separato ed isolato dagli altri, né dalle altre forme di attività; perché non è separabile dal suo oggetto, l'uomo, in cui tutte le esigenze, tendenze e manifestazioni della vita si unificano in inscindibile rapporto di azioni, e reazioni. Non è dunque (come pur taluno crede abbia pensato Marx) lo strumento tecnico, fatto nel processo delle sue trasformazioni quasi il dio creatore o il demone dominatore della storia: separato dall'uomo esso diventa una categoria astratta ed irreale: inconcepibile nella sua stessa esistenza, assurdo nei rapporti della sua genesi, del suo sviluppo progressivo, della sua azione entro la vita sociale e la storia umana.

    Contro ogni scissione, alla quale tende la mentalità astratta di chi non intende la storia, e la sua concretezza, si riafferma qui il principio dell'unità della vita. Non qui sempre causa, là sempre effetto (come ben diceva Engels): ma uno scambio dialettico incessante, una reciprocità d'azione, che dalle false disgiunzioni analitiche di qualsiasi teoria dei fattori ci riconduce alla sintesi di una concezione unitaria. Qui è la vita reale; e là è la dissezione anatomica, la quale ben riuscirà ad isolare un organo o un tessuto rendendolo morto ed inerte, ma non ci darà mai il suo rapporto vitale con tutti gli altri e la misura della sua efficacia, che solo nello scambio d'azione fisiologica e nell'intimità del nesso funzionale con tutto intiero l'organismo e con tutte le singole parti onde esso si costituisce, potran risultare ed esser colti.

    Lo sviluppo dell'economia non si verifica e perciò non s'intende da solo, ma unicamente intrecciato agli altri elementi della storia umana, allo svolgimento di tutti gli altri bisogni e di tutte le altre forme di attività. Un esempio caratteristico Marx ed Engels ce lo presentano nella spiegazione del passaggio dalla comunanza primitiva dei beni dell'orda e della gente, alla appropriazione privata: il qual passaggio ci presentano successivo alla introduzione della pastorizie quando, sorto dalla convivenza familiare continuata il riconoscimento dei propri figli e lo sviluppo del sentimento paterno, questo impulso di preferenza opera come dissolvente della comunione dei beni, e determina la transizione alla proprietà privata e alla trasmissione ereditaria di padre in figlio. Un mutamento economico di capitalissima importanza qui si compie per l'azione di sentimenti morali: è un caso tipico di quell'intreccio e scambio di azioni che non consente di designare come causa unica la così detta sottostruttura economica e come semplici effetti e riflessi privi di efficacia storica tutte le così dette soprastrutture.

    Ciò tuttavia non toglie la preminenza nell'azione storica del fattore economico; perché fra tutti i bisogni umani quello economico è il più immediato e generale, il più pressante e forte, e come tale è decisivo nello sviluppo storico. Che significa questa qualifica di decisivo?

    Prendiamo a confrontarlo con l'azione politica. Certo il materialismo storico non nega l'efficacia di questa; ma la subordina a due condizioni: che ella segua e costeggi la stessa via che percorre lo sviluppo delle forze produttive; e che porti a soddisfazione maggiore e più piena del bisogno economico forze più vaste ed intense, che non siano quelle che per altra via e per diverso indirizzo (di conservazione o di innovazione) possano conseguire appagamento più adeguato delle loro esigenze che ne scaturiscono, o prima o poi è destinata a cedere o a spezzarsi; se vuol costruire senza il saldo fondamento o in anticipo sullo sviluppo delle forze produttive, l'attende il fallimento. Ecco l'errore delle due utopie (della reazione e del rivoluzionarismo anticritico), che consiste in entrambe in una sopravalutazione o fede nell'onnipotenza dell'azione politica. Ecco il senso nel quale il momento economico è decisivo in confronto agli altri.





    Questo principio significa che la conoscenza critica della realtà è la premessa necessaria ad ogni azione storica. Significa che il materialismo storico è – come io credo di averlo definito con una certa esattezza - una concezione critico-pratica. Dalla critica della realtà sociale alla praxis storica: questo cammino segna il superamento dell'antitesi di volontarismo e fatalismo in un concetto realistico e vivo della necessità storica. Tanto più realistico e tanto più vivo, in quanto la formula sopra enunciata si rovescia nella sua reciproca; perché se (come s'è detto) non è possibile cangiare senza interpretare, d'altra parte solo chi vuol cangiare ed agire sa interpretare. Lo sforzo teorico del filosofo è vano se non è accompagnato e sorretto dalla volontà d'azione: soltanto nella praxis storica quindi si compie e si saggia nella sua verità la critica della realtà sociale.

    Ecco la filosofia della praxis che s'immedesima col processo della storia. E quanto siamo con ciò lontani da ogni concetto di fatalismo e di automatismo non c'è bisogno di star a chiarire.

RODOLFO MONDOLFO.

    Nota. - Questi rapidi cenni non intendono certo essere una compiuta esposizione del materialismo storico; ma solo la dimostrazione per via della presentazione di taluni punti essenziali – dell'errore, insito nelle interpretazioni correnti ed accolto e rinnovato anche nell'articolo di Gaetano Mosca. Per i lettori di Rivoluzione liberale credo opportuno aggiungere una breve risposta ad un'osservazione di P. Gobetti a mio riguardo. Nel suo primo articolo su La nostra cultura politica (8 marzo 1923), in un assai cortese accenno ai miei studi sul materialismo storico, il G. mi attribuisce una sfiducia nelle masse e una confidenza esclusiva nelle classi medie: nel che certo sarebbe una grave inconseguenza con l'interpretazione del materialismo storico che io sostengo, la quale proprio sull'azione storica delle masse deve imperniare il problema sociale dell'età presente. Ma in realtà - che io mi sappia - l'osservazione del Gobetti non ha altro fondamento se non il ricordo di un mio scritto sul fascismo (Introduzione alla raccolta degli studi sul fascismo dettati da rappresentanti dei vari partiti italiani), nel quale io, considerando che la forza ideologica e sentimentale del fascismo era venuta dalla adesione delle classi medie, vedevo e indicavo nell'immancabile futuro contrasto fra queste e i ceti plutocratici ed agrari quasi il reagente chimico della decomposizione futura. In una critica del fascismo io mi ponevo un problema interno a questo: la considerazione delle masse non c'entrava ancora, perché, quando io scrivevo, queste erano ancora fuori della organizzazione fascistica, che solo posteriormente iniziava la loro inserzione nei suoi ranghi.