LETTERE SCOLASTICHE
II.
Dalla scuola dell’"orator" alla scuola del "citoyen"
Caro Gobetti,
la questione della nostra scuola media è la "questione della scuola di coltura generale"; perché da noi, "Scuola di coltura" non è solamente la scuola "media" vera e propria, cioè la scuola preparatoria all'università, cioè la scuola classica, ma scuole di coltura generale sono divenute anche le nostre scuole tecniche, anche le scuole medie professionali (normale, istituto tecnico), in cui il tecnicismo e il professionalismo iniziale si è andato obliterando, per lasciar posto a quella vaga e informe "cultura generale a fondamento e a mentalità letteraria" che è, ripeto, la base di tutti i nostri istituti di istruzione media.
Anzi il concetto della "cultura generale" è rimasto, o è divenuto, dominante di fatto anche nella scuola elementare e nella scuola popolare, le quali, non ostante i propositi e i precetti dei fondatori o dei riformatori, sono state, dagli insegnanti, progressivamente contraffatte e distorte a immagine e somiglianza delle scuole di cultura, onde gli insegnanti stessi provenivano.
Che l'intrusione della "cultura generale" nella scuola popolare e nella tecnico-professionale sia un guaio, non occorre, io credo, dimostrare; ma io dico di più: codesta "cultura generale" io ritengo sia stata e sia la rovina anche della scuola che è fatta apposta per essa, della scuola che di proposito è definita come scuola di cultura generale, cioè della scuola classica. E si badi bene ch'io non dico questo per dire, come tanti altri, che la "coltura" la quale si ammannisce nella nostra scuola classica, sia una "falsa coltura", una "non coltura", e che questa malintesa coltura sia impartita con metodi e criteri errati o inadeguati; no, io voglio andare più in là, io voglio dire che il difetto fondamentale della nostra scuola classica non è nella qualità della sua coltura e nei metodi in essa praticati, ma è proprio nella sua essenza, nella sua definizione di "scuola di coltura": io voglio dire insomma che la nostra scuola media in genere, non esclusa la classica, se va male, va male proprio perché essa è intesa e trattata come scuola di cultura generate, come scuola disinteressata.
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Sapere è fare, insegnare è addestrare, educare è esercitare, scuola è vita, o, più precisamente, la scuola è la palestra, il foro, la sacrestia, la bottega, la caserma, la fabbrica.
Va benissimo. Ma questo miracolo si è avverato una volta sola nella storia del mondo, nella Grecia classica, dove scuola era la lesche soleggiata e la tettoia del maniscalco, dove scuola era l'agorà con i banchetti dei trapegiti, scuola la chorodidascalia, il phylacterio, il dicasterio, dove insomma tutto era scuola e la scuola non si sapeva che fosse. Ma quel miracolo durò poco e, così perfetto, non si rinnovò mai più. Anche in Grecia vennero su i retori ed i sofisti, e con essi sorse la scuola, che non fu più negozio ma ozio, non fu più vita ma scuola; e la scuola dei retori e dei sofisti produsse Euripide ed Isocrate, i quali non furono già gli ultimi greci, ma furono i primi Alessandrini, anzi i primi uomini moderni, i primi "leggitori e compositori di libri".
La prima scuola nel senso odierno fu dunque quella retorica sofistica, che trovò poi il suo tipo nella scuola romana dell'età imperiale, la scuola di Seneca il vecchio e di Quintiliano, Romani di Spagna tutti e due, la scuola dell'optimus orator. Difetto capitale ne era già quello: il divorzio dalla vita, e già i contemporanei lo dicevano; ma però quella scuola in fondo era ancora assai connessa colla vita, perché aveva come scopo immediato quello di conferire ai suoi frequentatori un'abilità pratica, ch'essi potessero poi, all'occorrenza, esercitare largamente nella vita; quella scuola era ancora un po' la casa di Quinto Muzio Scevola aùgure, a cui Cicerone giovinetto era, "dedotto" per farvi pratica; quella scuola era ancora un po' il tribunale, la curia, il foro; quell'insegnamento era ancora addestramento, quella educazione esercizio; la scuola aveva uno scopo preciso, un centro, un'impalcatura; mirava si, come tutta la scuola, a formare, in remoto e in astratto, la "classe dirigente", ma concretamente e prossimamente sapeva di formare quel tale professionista, e a ciò intendeva con i mezzi che reputava più acconci.
La scuola medioevale, dove esistette, seppe bene anch'essa dove voleva parare: mantenne, sostanzialmente, la tradizione didattica della scuola imperiale, ma la piegò al nuovo scopo, immediato, professionale, interessato anch'esso dì formare il "perfetto servo di Dio". Col Rinascimento l'impalcatura è ancora quella della scuola dell'orator, messa anzi in maggior evidenza che non nel periodo antecedente: ma la grammatica, la retorica e la filosofia vi sono, qui come là, mezzi: scopo della scuola del Rinascimento sarà, immediatamente e consapevolmente, quello di formare il "principe" ed il "cortigiano", cioè il più perfetto tipo di umanità vagheggiato in quel tempo. Ma sotto "l'uomo di corte" che si pretende di educare nella scuola del Rinascimento, è già evidente, fin dal principio, l'altro tipo dell'"uomo di lettere", che sarà l'ideale proclamato della scuola del sei e del settecento, della scuola dei Gesuiti: l'uomo di lettere che Daniello Bartoli difendeva et emendava, l'uomo di lettere in cui era degenerato il cortigiano del Castiglione e l'alunno della Gioiosa, con l’annegarsi delle signorie negli stati nazionali e ipernazionali, e col decadere, o col trasformarsi, della civiltà del nostro Rinascimento.
E siamo alla Rivoluzione Francese, la cui pedagogia batte in breccia la scuola umanistica e confessionale dell'antico regime, contrapponendo alla scuola "dei preti e degli oratori" la scuola che mira a formare l'uomo, il cittadino, che presume di sviluppare armonicamente tutte le facoltà, impartendo tutte le cognizioni utili a ciò, senza troppo approfondirne alcuna (1). La quale scuola come ognuno vede, è niente altro che la "scuola di cultura generale".
Dalla Rivoluzione in qua siamo ancora a quel punto, e il concetto dominante per la scuola media, certo da noi, forse dappertutto, è ancora quello di "scuola dì coltura".
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Come ognuno può facilmente intendere, anche qui come altrove, la Rivoluzione Francese, mentre si proponeva con i suoi uomini, di mutar radicalmente la faccia al mondo, non faceva che continuare l'opera dei tempi anteriori, svolgendola e, qua e là, anzi, esagerandola. Anche la scuola dei gesuiti come quella del Rinascimento, come la medioevale, come l'imperiale, attraverso l'oratore, il chierico, il cortigiano, il letterato, miravano a formare l'uomo eloquente, l'uomo pio, l’uomo virtudioso, l'uomo per bene, o, più genericamente, l'uomo: e questo scopo si era fatto già più evidente e consapevole nella scuola "umanistica", ed era divenuto poi predominante nella scuola dei gesuiti, per la quale insomma la differenza fra "letterato" e "uomo dabbene" e "uomo" è addirittura evanescente; ma all'ideale umano, ripeto, le scuole prerivoluzionarie tendevano non direttamente ma indirettamente, proponendosi non di formare genericamente l'uomo, ma specificamente l'uomo oratore, l'uomo chierico, ecc. La Rivoluzione Francese, qui come altrove, non ha fatto altro che sopprimere il termine medio, per proporre deliberatamente all'insegnamento il termine ultimo: qui come altrove la Rivoluzione Francese, partendo da una presunzione di maggior concretezza e realtà e utilità, al concreto, al reale, all'utile, ha invece sostituito l'astratto, il convenzionale, l'inutile: avendo sbaudito dalla scuola media il prete, il monaco, il poeta, l'oratore, tipi di umanità superata, se mai, ma sempre tipi di umanità, vi ha posto invece l'uomo, il cittadino (l'uomo politico), un tipo cioè di umanità perfettamente astratto e inesistente; avendo voluto sostituire alla vacuità oziosa della cultura classico-umanista dell'abate, del letterato, la cultura realistica e concreta dell'uomo illuminato, ha invece diluito la cultura unilaterale, sia pure, ma precisa, concreta, bene orientata del "letterato" nella "serie di cognizioni utili e indispensabili a tutti gli uomini", cioè nella indefinita, astratta, inafferrabile "cultura generale"; volendo trasformare la scuola media da "disinteressata" a "interessata", ha ottenuto il risultato opposto, creando appunto la scuola il cui unico vanto – io dico la cui massima colpa – è quella di essere, "disinteressata".
Manco male che in pari tempo la Rivoluzione Francese, svuotando di ogni contenuto pratico e interessato la scuola media, trasferiva questo contenuto da una parte all'Università, dall'altra, cosa più importante per noi, alla scuola tecnico-professionale, di cui essa Rivoluzione poneva, consapevolmente, le basi.
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Ponendo così il divorzio fra i due tipi di scuole, la media di cultura disinteressata, e la tecnica professionale, la pedagogia rivoluzionaria era vittima di una illusione e commetteva un errore gravissimo, perché si staccava, anche qui, dalla realtà. Come non esiste l'uomo generico accanto all'uomo professionista, all'uomo meccanico, all'uomo letterato, così non esiste una cultura genericamente "umana" indipendente da una cultura particolarmente tecnica, non esiste una coltura disinteressata diversa e altra dalla cultura interessata; e, per conseguenza, come non esiste una cultura "generale disinteressata", così non può esistere una scuola fatta apposta e solo per impartivi tale inesistente cultura. Tutto è disinteressato solo in quanto è interessato; ognuno di noi è "genericamente un uomo" solo in quanto è "specificamente quell'uomo"; ogni azione nella vita è interessata immediatamente, disinteressata mediatamente, interessata nei propositi, disinteressata negli effetti; io so che salendo in montagna mi accosto a Dio, ma quando parto per una escursione dico: "vado a far la Grivola" non dico "vado ad accostarmi a Dio", e appunto per far la Grivola m'addestro e m'armo. Non c’é una scuola disinteressata e una scuola interessata, una scuola di "coltura generale" e una scuola di "preparazione tecnica", ma la scuola che ti dà una vera coltura sarà la buona scuola professionale, come la buona scuola tecnica sarà quella che farà dello scolaro una persona colta. Il seminario e la scuola militare – le due sole vere scuole che noi abbiamo – mirano bene tutt'e due a far l'uomo, ma ciascuna provvede a ciò formando, innanzitutto e di proposito, il sacerdote, il soldato: la scuola di meccanica, magari non si cura né punto né poco di formare l'uomo, ma se è una buona scuola, essa ti farà il buon meccanico, solo facendo, sia pur senza saperlo, l'uomo.
E questo appunto la scuola dei gesuiti aveva di vantaggioso rispetto alla scuola della rivoluzione, che essa sapeva immediatamente dove parare, e, per formare l'uomo, il suo uomo, non disperdeva gli sforzi ma li concentrava nella formazione del "letterato"; e la scuola dell'età del Machiavelli e del Castiglione di tanto era stata superiore a quella dei gesuiti, di quanto il tipo del "principe" e del "cortigiano" era stato più umano, più vivo, più concreto, più interessato, di quello, già troppo evanescente e sbiadito, del "letterato", in cui già traspariva il tipo dell’"uomo colto" del periodo posteriore. Come viceversa, se nei tipi di scuola lasciatici dalla Rivoluzione Francese, qualcuno si è dimostrato buono e utile, questi sono stati quelli che avevano caratteri più definitamente interessati, scuola militare, scuola di applicazione, scuole professionali vere e proprie; e, se fra le scuole medie di cultura generale post-rivoluzionarie l'unica che ha seguitato a far discreta prova è stata la scuola classica, e specialmente la scuola classica inferiore (il nostro ginnasio), la cosa è dovuta, io credo, al fatto che il ginnasio post-rivoluzionario è ancora in sostanza la scuola di grammatica-umanità-retorica dell'antico regime, vale a dire, non la scuola laica di coltura generale, ma ancora, di fatto, la scuola gesuitica del letterato, e se in questa stessa scuola – adesso ho finito – nelle risultanze qualcosa di meglio si ebbe rispetto all'antico regime nel periodo post-rivoluzionario, questo po' dì meglio lo si ottenne perché la pedagogia rivoluzionaria, fra tanta indeterminatezza ed astrazione, qualcosa mise pure di concreto e preciso, cioè il principio di nazionalità, per il qual principio la scuola classica, pur rimanendo in sostanza la scuola del letterato, divenne non più la scuola dell'uomo letterato, ma la scuola del letterato francese, del letterato italiano, cioè qualcosa, rispetto al periodo antecedente, di più concreto e di più preciso.
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Ma questo della "coltura nazionale" in luogo della "coltura generale" è un meno peggio, ma è sempre una cosa insufficiente e pericolosa: finché resta nella scuola il concetto della "coltura generale", le cose non andranno mai bene.
I danni di questo concetto nella scuola media sono visibilmente infiniti: s'è salvato, dicevamo, il ginnasio, perché quello di fatto non è scuola di coltura generale, ma di coltura particolare; ma il liceo se n'è già mezzo andato perché esso è divenuto non una scuola, ma due scuole: la scuola umanistica, privata della sua unità con la sostituzione del corso alla classe, più la scuola laica di coltura generale con il solito "campionario" delle notizie indispensabili; la scuola media cosidetta tecnica (tecnica e istituto) e la scuola magistrale, che sono da noi le creazioni tipiche della pedagogia rivoluzionaria, ognuno sa che abominio sian divenute, appunto perché esso, distortesi per la immaturità dei tempi, per l'indole della gente e per l'interesse della classe dirigente, dall'indirizzo tecnico imposto loro dai primi fondatori, han finito con rappresentare il trionfo della "coltura generale a prevalenza pseudo-letteraria", che è il carattere distintivo della scuola media post-rivoluzionaria. E la peste della "coltura generale con spirito letterario" ha pervaso, almeno in Italia, anche la scuola universitaria, dove nelle singole facoltà non si prepara il professionista, e non si fa la scienza, ma unicamente si impartisce, a suon di lezioni parlate e cattedratiche, la "coltura generale" dell'avvocato, del professore, del medico e via dicendo. E non ne vanno immuni neanche le scuole medie e superiori tipicamente professionali, dove le materie di "coltura generale" sono studiate quasi dovunque per sé sole in orari eccessivi e usurpatori; e non ne va esente neanche la scuola militare, dove la "coltura generale" imperversa, senza che nessuno se ne dia conto, in modo più feroce e più rovinoso che nella nostra scuola media inferiore e superiore.
Ma il danno gravissimo, il disastro vero e proprio, è quello che avviene per via della "coltura generale" nella scuola elementare popolare.
Questa scuola dovrebbe, pedagogia a parte, immediatamente insegnare alfabeto e abaco e rispondere alle elementari eterne curiosità del bambino e del popolo, mediatamente formare, come si sa, l'uomo. Lo scopo mediato fu la linea di minor resistenza per la lue: formar l'uomo per il maestro di scuola popolare doveva voler dire formare il contadino della val del Po, il pastore della terra sarda, l'operaio di Milano, il marinaio di Chioggia o di Posillipo, ecc. e nient'altro; da questo contadino, pastore, operaio, marinaio avrebbe poi provveduto la Chiesa, l'esercito, il partito, l'officina, a cavar fuori l'italiano e l'uomo; il maestro non se ne doveva, come maestro, immediatamente imbarazzare. Invece è successo che, sparita la generazione dei maestri divenuti tali di preti, di contadini che erano, e rimasti tali pur divenendo maestri, nelle scuole elementari vennero ad insegnare i maestri o le maestre, uscite dalle "scuole di cultura generale" del periodo positivistico, i quali maestri e le quali maestre, parlo, si capisce, in generale, non potevano con tutta la loro buona volontà altro fare che travasare nelle teste di quei bambini la loro coltura, o, più precisamente tirar su a loro immagine e somiglianza quei figli del popolo, cioè trasformare il contadino, il pastore, l'operaio in un piccolo borghese scontento e presuntuoso, in uno "spostato" spirituale e sociale.
E così è avvenuto difatto, e i danni sono stati enormi. E danno dei danni, per il popolo e quindi per l'Italia, che il nostro "popolo", almeno quello che passava per la scuola direttamente o indirettamente "statale", non era più popolo, il contadino emiliano, il pescatore carlofortino, l'operaio torinese non era più né contadino, né pescatore, né operaio, e non era più né emiliano, né sardo, né piemontese, ma era un "cittadino italiano", cioè un brutto tipo di politicante, parassita dello Stato e sconoscente dello Stato, un "piccolo borghese", ripeto nel senso peggiore della parola, per nulla diverso, come mentalità, dal "piccolo borghese" diplomato, patentato e, magari, laureato, che è prodotto delle nostre scuole medie e universitarie, e col quale forma quel nuovo "stato", né terzo, né quarto, il cui assestamento costituisce oggi in Italia il più inquietante problema della nostra vita pubblica.
AUGUSTO MONTI
Brescia, 26 dicembre 1922.
(1) Vedi, in proposito, il bel libro di E. CODIGNOLA: "La pedagogia rivoluzionaria".
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