PER LA STORIA DELLA LOGICA
(Economia liberale e movimento operaio).Non di rado avviene nel seguire corsi di diritto, di assistere a vani esercizi dialettici di virtuosi "accursiani" o "bartolisti" docenti di diritto privato. Attraverso faticose e minute polemiche essi si affannano a far rientrare nei loro schemi privatistici tradizionali tutte le nuove e più impensabili situazioni giuridiche che giornalmente scaturiscono dalla pratica. Lo spettacolo diviene poi esilarante quando cotesti signori si avventurano, muniti del loro divino specifico, forti del classico armamentario, nei regni del diritto pubblico interno ed esterno. Gelosi dei nuovi e prosperi rami scientifici che solo chiedono di svolgervi in modo autonomo, compiono i più erculei sforzi onde estendere la loro sovranità sui nuovi domini. Orbene non pochi fra gli economisti liberali del genus non della species (ahimé che "genus non perit!") somigliano assai a quei tali signori docenti in diritto privato. Forti di un sistema scientifico più che centenario elaborato da menti sovrane al primo sbocciare della economia capitalistica, con ogni mezzo e senza risparmio di artifici dialettici si propongono sistematicamente di far in quello rientrare tutte quelle forze, tutti quei movimenti che la caleidoscopica pratica loro ammannisce. L'es. più clamoroso ci è recato dal movimento sindacale per il quale uno scrittore non sospettabile come l'Edgeworth non poté far a meno di scrivere che "in materia di Movimento Unionista, non meno che in fatto del fondo predeterminato dei salari, la mente incolta dell'operaio è ancora più diretta al segno che l'intelletto dell'economista fuorviato da un cattivo metodo". Sarà forse interessante dilungarci intorno a questo argomento. La libera concorrenza è la colonna centrale del sistema liberale; dogma fondamentale della scuola è "il libero giuoco delle forze economiche". Donde la condanna preventiva di quei movimenti e di quelle forze, in qualunque senso dirette, che attentino al sopradetto principio. Se però quei movimenti e quelle forze non accennano a scomparire, se anzi tendono ad affermarsi nella vita sociale, allora o vengono recisamente condannate, (l° tempo) o si tenta costringerle, sia pure solo in teoria, nei limiti del sistema (2° tempo). Così è accaduto pel movimento sindacale. Per buona parte del XIX secolo gli economisti classici e post classici, tolte rare eccezioni, specie in Inghilterra dove la questione era più scottante (Smith, Ricardo, Malthus; Mac Culloch; Stirling, Stuart Mill, ecc. ecc.) negarono esplicitamente o implicitamente in base a diverse teorie l'utilità delle unioni di mestiere. Anche se i motivi dovettero venir poi rigettati come erronei (teoria del fondo-salari, legge di popolazione, fantasie del Senior, legge di bronzo) pure non si può disconoscere la logica connessione della conclusione col sistema. Peraltro il movimento operaio non accennava per nulla a voler scomparire. Condannato preventivamente alla più assoluta sterilità, esso cresceva a dismisura, si rafforzava, dilagava paurosamente in tutti i paesi del vecchio e del nuovo mondo, si imponeva ognora più a Stato e padroni. Di fronte alla ostinazione della pratica l'economia liberale chinò il capo, aperse la bocca, trangugiò il rospo e…ed ora vedremo come e quanto l’abbia digerito. Allo stato attuale della scienza, per quanto a denti stretti, si può dire che in generale gli economisti liberali riconoscano l'utilità, soggettiva e sovente oggettiva, alcuni financo la necessità, delle organizzazioni operaie. Senza dirlo esplicitamente, visto che l'organizzazione sorse allo scopo precipuo di eliminare la concorrenza nella offerta di lavoro tra i membri esercenti uno stesso mestiere, affermano dunque l'utilità e la necessità che alla concorrenza nella offerta si opponga la solidarietà tra i detentori della cosidetta merce-lavoro attraverso l'associazione professionale. Volere o volare si rigiri la frittata come più piace, questo si chiama uno strappo palese al sistema liberale. Si riconosce cioè esplicitamente che vi sono dei casi nei quali è necessario porre un argine artificiale al "libero giuoco delle forze economiche", alla concorrenza sfrenata. Immagino una facile risposta: l'organizzazione sorge spontanea, risponde a un preciso bisogno e ad un criterio di giustizia contrattuale pel singolo operaio; non scaturisce da una coazione esterna, ma da un imperativo interno; è il libero giuoco delle forze economiche che genera l'organizzazione professionale. Quindi sarebbe andar contro le leggi naturali il contrastare un movimento di tal genere. Va bene. Sicché il giorno in cui ci trovassimo in pieno regime monopolistico si potrà sempre proclamare vegeta e sana l'economia liberale. Sicché possiamo ancora dire che i molteplici esosi protezionismi nostrani e stranieri sono il naturale portato del "libero giuoco"… Siamo in piena dialettica hegeliana. In alcuni paesi segue però un fenomeno impreveduto ed imprevedibile, almeno dal lato economico: sorgono cioè, sopratutto per ragioni politiche in relazione a dogmi fideistici (la questione gerarchica tirata in ballo da Formentini in un articolo del resto interessantissimo, c'entra poco o nulla) più organizzazioni per ogni ramo d'industria o per ogni mestiere. La lega operaia, sorta per eliminare la concorrenza fra i membri ecco che si scinde in più elementi contraddittori. La concorrenza risorge così sotto altre forme. E siccome per motivi prevalentemente politici, per le inframmettenze dei partiti e pel compiacente incoraggiamento padronale (sindacati gialli ...) un tale stato di cose si prolunga, ecco che bene o male tornano di moda i vecchi principi della economia liberale ed ecco quindi economisti di partiti che proclamano, che cosa proclamano?… Essere principio fondamentale quello della libertà di organizzazione, doversi mantener la concorrenza nel campo operaio! Tanta strada per giungere al punto di prima! E perché, di grazia la concorrenza tra le organizzazioni e non tra gli individui? E quale grande differenza può correre tra le due forme di concorrenza? Si è dunque profittato dell'intervento provvidenziale di un elemento politico disgregatore nel giuoco delle forze sindacali per affermare ancora una volta il principio della libertà di organizzazione e per combattere il monopolio nel campo economico. Francamente non c'è malaccio! Se cotesti scrittori si fossero limitati a sostenere questa tesi dal punto di vista oggettivo dell'interesse della collettività, quantunque ritenga errata anche questa tesi, transeat; ma sono in assoluta contraddizione quando si sforzano di convincere le organizzazioni operaie a muoversi sul terreno della libertà d'organizzazione nel loro proprio interesse. Né vale l'obiettare che le loro critiche si rivolgono solo alle organizzazioni attuali che agiscono troppo spesso sotto la spinta di interessi politici; perché: l) essi sono giunti a queste conclusioni ragionando in astratto; 2) l'affermar il principio della concorrenza tra organizzazioni divise non dal fine economico che è unico, ma da etichette politiche, significa sospingere le organizzazioni su di una via che si è ritenuta viceversa sino allora profondamente erronea. In conclusione io affermo che dal lato economico, una volta ammesso che le leghe operaie sorsero e sorgono coll'intento precipuo di eliminare la concorrenza, si deve logicamente affermare che è naturale, giusto, necessario, ch'esse tendano al monopolio. Nulla da obiettare allorché si lotta contro questa o quella politica sindacale; ma da respingersi senz'altro l'astratta e dogmatica illazione antimonopolistica. Ogni strumento ha le sue leggi inderogabili, e una volta impugnato sarebbe ridicolo il volersene servire per scopi diversi ed opposti di quelli pei quali venne creato. In un altro articolo parlerò più a lungo del monopolio sindacale; ora mi preme di passare ad un secondo capo di accusa. Gli economisti liberali già da più anni sono venuti denunciando in Italia con una perseveranza certamente lodevole, i colposi fenomeni di parassitismo di ceti capitalistici ed operai sfruttatori della collettività attraverso i dazi doganali, i premi di produzione, concessioni graziose, ecc. ecc. Ed hanno anche deplorato vivacemente gli accordi e gli idilli che in tali occasioni si stabilivano tra le organizzazioni sindacali contrarie, accordi ed idilli che non stavano a rappresentare se non una delle tante volgari mascherature di interessi particolari. Però non si sono mai chiaramente domandati, posto che accettano il postulato edonistico secondo il quale ciascuno tenderebbe a far trionfare il suo particolare interesse: l) Se cotesti fenomeni parassitari non siano convenientissimi per chi li pratica; 2) Se cotesti accordi colposi tra maestranze e ditte, tra leghe operaie e sindacati padronali, non si moltiplicheranno grandemente allorquando, in un giorno ch'essi han sempre auspicato, ad una teoria e sopratutto a una pratica del movimento operaio orientata in base al postulato della lotta di classe, si vada sostituendo una teoria ed una pratica collaborazionista (vedi organizzazioni bianche e tricolori). Ora gli economisti della scuola liberale, a meno di non contraddirsi, non riusciranno mai a dimostrare che non è interesse, putacaso, di una lega di operai siderurgici italiani che agisce in base ai suoi particolari interessi, infischiandosi di quelli generali, di astenersi dallo sfruttamento delle collettività. E' vero che a lungo andare la situazione si rovescierà poiché essendo l'esistenza di una industria siderurgica del tutto artificiale, è interesse degli operai di procurarsi un impiego più sicuro anche se meno redditizio. Ma questi son ragionamenti teorici che somigliano assai a quelli che si fanno per dimostrare agli operai esercenti di un dato mestiere che la sostituzione di macchine alla forza-lavoro umana è per loro vantaggiosa. Tra l'uovo di oggi e qualche pennuola della gallinetta di domani, né io, né gli operai, né tampoco gli economisti liberali esiteremmo un istante. Le stesse considerazioni si possono fare nei riguardi del principio collaborazionista che la maggior parte degli economisti liberali sostiene debba applicarsi nelle relazioni tra capitale e lavoro. Spero che una lega operaia siderurgica non si accordi coi signori Bondi e C. Diversamente si finisce per adagiarsi sui rugiadosi piani della scuola solidarista dell'ineffabile Bourgeois tanto da perdere ogni contatto colla fredda indagine scientifica. Gli economisti liberali negano in sostanza i frutti ed aspirano al contatto, all'accordo che fatalmente li genera. Desiderano il contrasto (quante volte si sono lamentati e giustamente contro organizzazioni operaie che agivano di conserva agli imprenditori) per poi negare non solo la lotta di classe, ma financo l'esistenza di un dissidio. Negano la lotta di classe per riconoscere invece quella assai più pericolosa per gli interessi generali, di categorie particolari. Sono in patente contraddizione. Sembra invece che la "lotta di classe", la lotta fra detentori di capitali e detentori di forza-lavoro eserciti una funzione utile e necessaria nella economia capitalistica. Se effettivamente non esistesse la classe bisognerebbe costruirla artificialmente. Giacché di fronte alla innegabile impotenza dei consumatori nel fenomeno dello scambio, di fronte al progressivo rafforzarsi della posizione strategica dei venditori attraverso monopoli e sindacati, l’ultima trincea che resta è quella del corpo organizzato dei produttori. Quanto più vasta ed unitaria sarà l'organizzazione dei produttori, tanto più il suo interesse si identificherà con quello della massa consumatrice. Per un giuoco che appare dialettico si può affermare che la migliore difesa dei consumatori può esser raggiunta solo attraverso la loro coalizione in veste di produttori, vale a dire nel lato positivo dell'attività umana. I fenomeni di parassitismo e di accordi colposi col padronato sono tanto più difficili quanto più misera, debole, divisa, è la organizzazione generale dei produttori. Né si creda con ciò che io esca dal campo edonistico. Vale a dire non ritengo che gli operai siderurgici si astengono puta caso dall'accordo perché tanto nobili ed altruisti da anteporre l'interesse generale al loro particolare; ritengo ch'essi lo facciano perché urtano o sanno di urtare inesorabilmente nella loro azione contro la muraglia dei produttori-consumatori organizzati. Al contrario gli economisti liberali si affannano a patrocinare la causa della libertà di organizzazione. Non si può fare a meno di rilevare le palesi e stridenti contraddizioni nelle quali cadono continuamente i seguaci di questa scuola. Mentre il mondo corre ahimè verso il più esoso protezionismo, mentre i monopoli si moltiplicano, mentre i sindacati capitalisti ci si ingigantiscono, mentre pochi individui dominano la vita economica del mondo, essi continuano bellamente a combattere per la libertà di organizzazione. Il male si è che il loro esempio è contagioso e trovate degli organizzatori che attuano i loro principii al pari di colui che ritenesse utile e valoroso togliersi dal volto la maschera di protezione in una atmosfera satura di gas asfissianti. Non si chiedano costoro perché il protezionismo tronfi; o, se se lo chiedono, finiscono per confessare amaramente che ciò avviene perché l'interesse particolare ed egoistico di pochi ed abili sfruttatori della collettività prevale sul generale. Ma ormai sono passate diecine di anni e il protezionismo dilaga e si fa ognora più grave. Ma la lotta di classe, quella no, non esiste. E si continua a predicare a tutte le classi a tutte le categorie, che loro dovere ed interesse è di marciare d'amore e d'accordo. Se una organizzazione operaia ha il coraggio di proclamarsi classista affermando ch'essa si propone di tutelare il particolare interesse dei suoi membri, la denunciano all’opinione pubblica. Ma nel tempo stesso la loro innegabile sincerità li obbliga sovente a denunciare alla medesima pubblica opinione i casi ben più gravi di organizzazioni collaborazioniste che sotto la scusa dell'interesse della patria si infischiano degli interessi generali e taglieggiano il mercato. Gli economisti liberali combattono sacrosante battaglie con armi spuntate, o, se preferite, si illudono con un fuscellino di forare l'epidermide di un elefante. Credono proprio che l'appello agli interessi generali, all'onestà, all'amor di patria, produca un qualche effetto sugli interessati delle due parti. E non si accorgono come ahimè questo reale interesse generale, esclusa preventivamente questa divisione in classi della società e relativa solidarietà tra membri componenti, non commuova particolarmente alcun ceto. Chi rappresenta dunque l'interesse generale? La collettività consumatrice, la Nazione tutta, vi risponderanno cotesti scrittori. Ma dov’è essa, quale organizzazione la rappresenta, quale voce si leva a difenderla? Nessuno. Cioè, pardon, il Governo. Ma quale Governo, l'attuale, il precedente, o il futuro? Neppure. E allora? Gli economisti liberali in questa occasione somigliano assai a meravigliosi avvocati di un cliente che non esiste o che si polverizza appena se ne tenti la concretazione. Un cliente esisteva, effettivamente e se vogliamo esiste in carne e ossa e lo possiamo rintracciare nella organizzazione dei produttori; ma essi al contrario si affannano ad annichilirlo e te lo dividono in fette reclamando a gran voce la libertà di organizzazione. Ecco un quadretto riassuntivo delle loro contraddizioni nei riguardi del moto operaio: FATTI POSITIVI RILEVATI
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