"LE BAL DES ARDENTS"

    LEONE KOCHNITZKY. - La Quinta Stagione o i Centauri di Fiume. Nota e traduzione dal manoscritto francese di Alberto Luchini. Bologna, ed. Zanichelli, 1922.

    Del bel gesto, ispirato a quelli generosi ed epici del Risorgimento, che D'Annunzio e i suoi legionari iniziarono, partendo da Ronchi nella notte dall'11 al 12 settembre 1919, dell'entusiasmo e del turbamento prima, dell'imbarazzo e del tedio che poi l'impresa fiumana finì di suscitare, oggi non si parla quasi più. Come allora, quando queste cose accadevano, molti ostentarono un'indifferenza più o meno opportuna, così oggi i più se ne vanno in realtà a poco a poco dimenticando. Per raccogliere i primi tentativi di giudizio, abbozzi di definizione – appunti per la commemorazione funebre della marcia di Ronchi, che un giorno o l’altro si dovrà pur fare – noi accettiamo, senza discutere, come punto di partenza, i materiali che Leone Kochnitzky, straniero che fece parte dell'italianissima gesta, raccoglie e la versione dei fatti ch'egli ci offre. Più garbato narratore, più eloquente avvocato, nonché trovarlo, non riusciremmo neppure ad immaginarcelo. Al racconto degli avvenimenti s'accompagna un commento discreto e sapiente: ora appassionato e commosso, ora elegante ed arguto. Attraverso le divagazioni e le fantasie dello scrittore cosmopolita, le squisitezze dello stilista, gli entusiasmi descrittivi e le deduzioni sentimentali, l'atmosfera trasognata, e decadente, particolarissima dell'impresa, anziché disperdersi, traspare chiarissima, e presentata nella luce più simpatica.

    Che insomma cotesta fisionomia presa nel suo complesso rievochi con sufficiente rassomiglianza le ardenti attitudini e gli appassionati sentimenti dall'epopea garibaldina, risulta chiaro non solo dalle dichiarazioni che potrebbero esser tendenziose dei reduci dell'azione fiumana, bensì da un esame spregiudicato e metodico delle psicologie. Vediamo riapparire, nel racconto di K., situazioni di ingenua demagogia e di mistico entusiasmo che avevamo imparato a conoscere da ragazzi, leggendo le vittoriose campagne delle camicie rosse; senza contare le figure di asceti nevrastenici, di poeti disorientati, di aristocratici dilettanti, di eroi pazzoidi, che paion tolte di peso dai volumi dell'Abba. "I Legionari.. Un esercito che non è un esercito, una guarnigione che non somiglia a nessuna guarnigione, insorti che forse sono vandeani, guardie bianche che hanno molto delle guardie rosse, ribelli che sono poi soldati disciplinatissimi, corsari che non predano se non per dar da mangiare agli affamati... Volontari adolescenti scappati di scuola per venire ad arruolarsi: interi battaglioni che, stanchi di vegetare in una vita senza colore nella zona d'armistizio hanno seguito nell'impresa i tenenti quasi ragazzi, lontano dalle corvées degradanti e dai colonnelli bizzosti... Singolare radunata d'uomini di ogni età, d'ogni strato sociale, di tutte le regioni italiane". Anche togliendo da queste frasi il tono d'esaltata passione (che del resto è un elemento del sistema psicologico che stiamo analizzando), rimane un residuo abbastanza grande per riconoscervi le forme e gli spiriti delle gloriose e stranissime avventure garibaldine. Altri già ebbe a notare che gli arditi di D'Annunzio raccolsero dalle generazioni del Risorgimento l'antico ed ingenuo "paradosso" dell'unità d'Italia, accompagnandolo con quelle credenze di miracolosi e definitivi assestamenti, e con quelle idealità umanitarie magniloquenti senza consistenza, diffuse, come è noto, nell'epoca del nostro riscatto.

    Constatando le precedenti rassomiglianze, come non intendiamo approvare senz'altro i ragionamenti partigiani dei legionari e dei loro platonici ammiratori, neppure vogliamo sconvolgere le convinzioni patriottiche degli altri con paragoni irriverenti e comunque inaspettati. Soltanto desideriamo stabilire un rapporto, almeno generico, fra due situazioni psicologiche, caratterizzate da un entusiasmo incomposto e messianico, alle quali noi, pacati proseliti dell'illuminismo, ci avviciniamo forse con la stessa mancanza di simpatia.

    Riconosciuta del resto la vicinanza psicologica, non è difficile definire ed intendere la differenza storica dei due avvenimenti; la quale salta agli occhi, quando si pensi soltanto alla diversità dei condottieri e al mutamento dell'ambiente esterno e delle condizioni politiche. All'atmosfera giovanile e naturale in cui si svolgevano le facili campagne del soldato e popolano Garibaldi, si sostituisce il clima dell'estrema decadenza e stanchezza postbellica, dove l'aristocratico poeta e comandante tesse gli armonici e preziosi ricami della sua eloquenza.





    Chi pon mente a codesta frettolosa impazienza diffusa tra i combattenti nella piccola borghesia dopo la guerra, al disgusto delle soluzioni intermedie, delle fatiche diplomatiche, dei negoziati tortuosi e inconcludenti, chi pensa all'aspettazione, che da questa impazienza e da questo disgusto derivava, d'una catastrofe rivoluzionaria e repentina, coglie il motivo fondamentale dell'impresa di Fiume. "I Legionari di Fiume sono gli assetati di giustizia; – scrive Kochnitzky – Fiume è il doloroso simbolo di tutte le ingiustizie d'un periodo esecrabile. "Pensando di pronunziare un elogio, in realtà lo scrittore belga definisce l'ambiente specifico del legionarismo, e prepara in anticipo la stroncatura della "politica estera", dannunziana, mostrandone il contenuto sentimentale e romantico. Ecco perché, invece della sicurezza giovanile e primordiale e della grossolana baldanza che assicuravano alle truppe di Garibaldi i più inaspettati trionfi, troviamo nella "città di vita" una letizia esasperata e di breve respiro: non la tranquilla e naturale esuberanza dei venturieri, ma il brivido dionisiaco, lo sfrenato baccanale della gioventù disperata di vivere e di vincere. "Affamata, rovinata, angosciata. forse alla vigilia di morire nell'incendio o sotto le granate, Fiume, squassando una torcia, danzava davanti al mare".

    "Le Bal des Ardents"

    Gli assetati di giustizia venivano da tutti i partiti - racconta K -, ciascuno con la sua ideologia, la sua definitiva soluzione da proporre, l'elenco degli errori altrui da distruggere o da impedire. Gli illusi disgustati che affluivano nella gran "nebulosa" di Fiume si trovavano tutti press'a poco d'accordo in un sogno vago di idealità democratiche e umanitarie, inquadrato in uno spirito di esaltato patriottismo e nazionalismo. Muovendo da questo fondo sentimentale e torbido, la ribellione dei legionari diventò - nei discorsi di D'Annunzio – "la crociata di tutte le nazioni povere e impoverite, la nuova crociata di tutti gli uomini poveri e liberi, contro le nazioni usurpatrici e accumulatrici d'ogni ricchezza, contro le razze da preda e contro la casta degli usurai che sfruttarono ieri la guerra per sfruttare oggi la pace, ecc., ecc. "La città di Fiume, il suo capo, i difensori, sono fermamente decisi a resistere fino al trionfo dell'idieale di fratellanza umana che li tiene stretti. Il diritto dei popoli a disporre di sé stessi dev'essere, alla fine, consacrato". Così scriveva a Barbusse l'Ufficio delle Relazioni Esteriori; e aggiungeva un elogio alla Repubblica dei Soviet che difese questo diritto, affrontando "le bande mercenarie di Koltchak e di Denikine, assoldate dalla finanza internazionale, aizzate dalla ringhiosa e impotente Conferenza di Versailles". Nascendo da questo equivoco miscuglio di nazionalismo e di democrazia, il grandioso disegno della Lega di Fiume, l'Anti-League da opporre alla pseudo-Società delle Nazioni asservita all'Inghilterra, naufragò quasi subito. "La navicella della Lega fiumana fu travolta in una tromba marina d'intrighi balcanici, dove Montenegrini ed Albanesi avevano le prime parti". In verità le cause del fallimento non si devon tutte attribuire, come vuole il K., alla mancanza di rapidità nell'esecuzione: van ricercate piuttosto nei caratteri intrinseci di questa politica superficiale e parolaia. Altrove con più sottile arguzia il K. stesso aveva osservato: "Niccolò Machiavelli restò sempre fuori dalla città di vita; e io temo molto che il comandante di Fiume non anteponga al Segretario Fiorentino Baldassare Castiglione o il Cardinale Bembo". Del resto non è senza interesse la constatazione che gli avversari accaniti di Wilson riprodussero i lati più ingenui e ridicoli della politica di lui, sopratutto quell'aspirazione confusa ad una giustizia universale e perfetta che era allora, a quanto pare, nelle menti di tutti; senza d'altra parte giustificare questa superficiale ingenuità col possesso di quel contenuto pratico ed utilitario che si nasconde sotto le formule della democrazia puritana anglo-sassone. Si dice che accanto a questo falso entusiasmo democratico degli arditi, esistesse a Fiume un nucleo di legionari rappresentanti di una più profonda convinzione veramente democratica. Sulla quale sarebbe interessante conoscere le impressioni del legionario ed amico della "Rivoluzione Liberale" Novello Papafava. Di lui il K. disegna, a carte 188 e seguenti, un nobilissimo ed affettuoso ritratto.

    Come nella politica estera, i legionari portarono nella vita interna di Fiume una sete di rinnovamenti frettolosi e sommari, una somma di fedi esagerate e un cumulo di odi altrettanto ingiustificati. Adoperare la città del Quarnaro come "campo sperimentale d'assestamenti sociali", fu prima che un sogno del "dilettante" D'Annunzio, l'ideale di tutti i suoi seguaci. Un socialismo senza i socialisti (ma con Alceste de Ambris), una politica antiborghese senza esser proletaria, proposte di amicizia ai bolscevichi russi e ungheresi con la creazione di non so che bolscevismo latinizzato; la Costituzione di Fiume "invenzione suprema di due generazioni di esteti... il naturale sbocco di sessant'anni di biblioteca, collezioni„ musei... il balocco dell'erudizione mondana": ecco i risultati estensori di quello stato sentimentale. Sui quali è certamente inutile spender parole, quando il K. stesso ci avverte che "mai la Costituzione fu attuata nel suo spirito". Sarà più interessante leggere le pagine in cui K. descrive con una discreta e forse inconscia ironia la politica di D'Annunzio tra le masse operaie non ostili, forse capaci di una segreta simpatia, ma tormentate dalla fame e dalla disoccupazione, e gli astuti caporioni della borghesia fiumana: l'aiuto debole, breve e nello stesso tempo troppo palese offerto ai proletari in occasione dello sciopero generale non bastò ad assicurargli le simpatie costanti di questi, mentre gli attirava contro l'abilissima ostilità dei borghesi. Veramente nella città di vita mancava lo spirito di Machiavelli.





    Non abbiamo nessuna intenzione di irridere a sentimenti e passioni che, sebbene estranei al nostro spirito, sono certamente sinceri e onorevoli agli occhi di chi li professa. Vogliamo credere, sebbene la constatazione sia più triste che altro, che veramente tutta questa gente pensasse di attribuire non so che meraviglioso "significato al gesto imperituro di Ronchi": il quale è assai più probabile del resto che somigliasse, secondo un'altra espressione del K., a un grand rêve. Soltanto desideriamo mettere in rilievo l'atmosfera esaltata, irreale, piena di fremiti vagabondi, di violente esasperazioni, di segni rivoluzionari, ubbriaca d’una grandezza fittizia e retorica; l'atmosfera soffocante e moribonda nella quale l’impresa dei legionari si sviluppò e s'infranse. Fatta questa constatazione, non ci fermeremo a pronunciare una più recisa ed esplicita condanna. Non è difficile tuttavia riconoscere nelle imprecise idealità democratiche e antiparlamentari dei dannunziani, nel paludamento patriottico e nazionalista che le ricopriva, nelle velleità di ribellione, nella retorica esuberanza dei gesti che nasconde una inverosimile povertà di pensiero, il segno di quella medesima neutralità italica, oggi fascista, che già troppe volte abbiamo avuto occasione di combattere su queste colonne. In realtà, Fiume, che doveva essere il simbolo di non so qual lotta luminosa delle nazioni povere ed oppresse contro il mondo dei mercanti e degli usurai, fu, oltreché il segno della disgregazione morale e civile d'Italia, un elemento della più generale disorganizzazione europea: ribollimento intempestivo di meschine tendenze individuali.

    Gli appunti che si riferiscono alla psicologia del poeta-comandante non son certo le parti meno interessanti nel bel libro di Kochnitzky. Quando si pensa a quest'uomo ("creatura innumerevole... incantatore di uomini, meraviglia delle meraviglie", come si esprime l'ardente entusiasmo del nostro autore), è difficile mantenere per lui l'atteggiamento di indifferenza, e magari d'antipatia, usato coi suoi proseliti. Egli può ben aver aderito, e anche guidato, un movimento di idee e di passioni; rimane sempre estraneo ad esso, non si confonde con le sue azioni singole. Sarebbe troppo semplice attribuire a lui la colpa d'uno sforzo sentimentale, come il legionarismo, che appartiene manifestamente alle abitudini civili de' nostri tempi e della nostra razza. A questa, come già ad altre correnti ideali o pratiche, egli ha dato tutto sé stesso (almeno in certi istanti); con uno slancio d'affetto che sarebbe difficile giudicare insincero. E’ possibile anche prendere il suo nome come simbolo d'una politica o meglio di una mentalità da combattere o da difendere. In realtà egli è fuori di tutto ciò: non soltanto fuori, al di sopra. D'Annunzio, comandante militare e politico di Fiume, che si dimentica di Macchiaveli, mentre sulle sue labbra ricorron frequenti il nome e le parole di Flaubert; "Cesare poetico" che si circonda di rarità bibliografiche, di rilegature cinquecentesche, d'orologi a polvere, di musica decadente; quest'uomo senza amici che "finge d'interessarsi profondamente" alle persone che gli stanno intorno e "in realtà se ne infischia"; il poeta che serba in ogni luogo la sua "preziosità naturale"; che fabbrica la costituzione fiumana e si fa giocare dalla vecchia ed astuta borghesia della città, che ispira (o piuttosto segue senz'accorgersi) la politica dell'Anti-League, e intanto fa aspettare a lungo e non scrive il messaggio contro il terrore bianco ungherese: quest'uomo poi s'oblia di tanto in tanto a descrivere "un meraviglioso convegno notturno sopra un colle marino, al chiarore delle fiaccole". E bisogna credere che in questa mirabile capacità di non interessarsi a nulla così profondamente come alla virtù de' suoi occhi, stia tutta la sua forza veramente poco ordinaria. Senonché a provar ciò si richiederebbe un altro discorso, che il carattere politico di questa rivista non ci consente di sviluppare.

NATALINO SAPEGNO.