LA NOSTRA CULTURA POLITICA
2.4. Anche l'esperimento popolare nacque con modesta aspirazione e mezzi limitati quale fenomeno di collaborazione e anzi raccolse l'eredità del socialismo in un momento determinato della vita italiana, per organizzare la piccola e media borghesia che costituiva nell'immediato dopoguerra, come in tutto il periodo successivo al '70, la naturale premessa economica e sociale della vita unitaria italiana. Ma questa ulteriore fase del riformismo si complicava con le nuove esigenze della politica ecclesiastica ed era la naturale conclusione psicologica della questione romana dormiente da tanti anni; per ciò e perché il movimento si manifestava in un tempo di maggiore maturità storica (dopo la guerra) si ritrovano nel pensiero popolare elementi spirituali più complessi e arguzie dialettiche adeguate alla più varia difficoltà dei compromessi tentati. Il Meda, che aveva formato la sua coltura nella meditazione delle questioni morali della società e nello studio della politica cattolica esperimentata nel Belgio è la naturale continuazione del cattolicesimo liberale succeduto al neoguelfismo e corrispondente ad una illuminata esigenza conservatrice. La preoccupazione dominante nel Meda è la conciliazione dell'attività politica con le premesse religiose, ma egli la risolve senza crisi di coscienza, senza porne fra i due termini le giuste antitesi, equilibratamente dualista, devoto ad ogni principio di ordine e di autorità, pacatamente riformista e conservatore nelle questioni sociali, ignaro della complessità dei problemi pratici. Invece gli atteggiamenti di sinistra dei partigiani di Miglioli si spiegano con la vecchia posizione demagogica della Chiesa cattolica, eternamente preoccupata di opporre il popolo allo Stato, dove questo rappresenta l'eresia; trovano la loro fonte più diretta in Italia nei patriarcali principi della democrazia cristiana di Leone XIII e di Toniolo e riescono ad un significato di attualità soltanto perché corrispondono alle inquietudini di talune situazioni agrarie del dopoguerra. Ma il fatto centrale e caratteristico della cultura popolare, trascurate quelle che sono esterne incrostazioni come Tangorra, Anile, De Sanctis, è il pensiero di Don Sturzo, il messianico del riformismo. Sturzo trova dominante nella situazione in cui gli tocca agire l'illusione riformista che educa il popolo al parassitarismo e all'utilitarismo. Deve fare i conti con la degeneratone concreta del costume politico e della morale. Egli è il messianico del riformismo in questo senso, in quanto tende ad impedire la catastrofe dell'atomismo connaturale con la politica socialista; e accettando la formula cavouriana con la più ingenua convinzione lavora a fare che il popolo creda alla politica attraverso una pregiudiziale morale. Pensa a una vitalità delle democrazie, ma chiuso nei limiti del suo problema, non vede la politica in funzione dello Stato. Egli inquadra la sua azione in rapporto agli elementi palingenetici dell'avvenire dei popoli. Per tale processo può tentare l'opera del proselitismo fallita ai democratici, perché agita la bandiera del riformismo messianicamente e con l'illusione religiosa fa partecipare le masse alla vita della laicità. Né l'eresia della praxis può incutergli timore perché accettando il vecchio liberalismo monco e riformistico rende più difficile la concorrenza dello Stato panteista e del Marxismo. Nella storia della Chiesa egli rappresenta per un analogo atteggiamento e per un'identica misura il riformista del messianismo in quanto politica e religione creano per forza propria posizioni reciproche. La guerra europea ha dimostrato che la Chiesa non può lottare contro tutta l'Europa, non può teorizzare la sua antitesi con l'eresia ma deve anzi dialettizzarla con cautela. Sturzo, alieno dalle posizioni rivoluzionarie, cerca anche in questa lotta la palingenesi pacifica e ai fermenti rumorosi oppone l'agilità di una transazione. Si oppone alla riforma religiosa come si opponeva in terreno politico al materialismo storico ed allo stato liberale. Il Risorgimento è un risultato che bisogna accettare: ecco la premessa tacita che impedisce a Sturzo di raggiungere una soluzione integrale. La riforma religiosa è sempre un atto che preme dall'esterno per soddisfare interessi che si sviluppano dalla vita contro la chiusa unità del dogma ampliatosi a Chiesa. E per evitarla non bisogna opporvi una riforma interna, ma un'agilità diplomatica, una versatilità di consensi e di simpatie: Sturzo resta per questo aspetto nel tradizionale orizzonte di finezza e duttilità del cattolico. Ma nel giuoco è più spregiudicato: fa riescire il suo cristianesimo alla politica, va al popolo attraverso il Vangelo. Ha la fede del cristiano, ottimista e sereno, che agisce nei suoi limiti di uomo e sa che la divinità non può non essergli presente perché è universale. Sente i problemi più vivi dello spirito senza averne il terrore degli asceti; la sua religiosità non è un tormento ma goethiana serenità operosa. C'è una premessa psicologica necessaria nella via che conduce alla trascendenza e il centro dello spirito e delle intenzioni di Sturzo consiste nel fare agire queste premesse. Affermare il dogma e la fede integralmente sarebbe forse un oltraggio alla modernità. Ma il verbo della fede e dell'amore parlato dalla Chiesa sorge spontaneo nella solitudine della coscienza dell'individuo. Gli elementi palingenetici in cui Sturzo confida portano indirettamente al cattolicismo e si offrono nel momento giusto alle speranze inappagate dell'umana debolezza. Bisogna creare l'aspettazione messianica in cui questi impulsi possano agire. Sturzo viene incontro ardimentosamente al mondo moderno e ne aspetta l'istante di debolezza in cui la dedizione alla Chiesa universale potrà tornare ad essere una realtà. Notate come egli si sforzi di vedere in ogni fatto politico un valore morale; e come faccia risalire la giustificazione di ogni atto non alla realtà storica o all'autonomia dei risultati obbiettivi (Marx e Hegel), ma alla suprema dignità della morale individuale. La Chiesa potrà vincere ancora facendo conto sulla paura dei singoli di fronte alle crisi di coscienza. Il calcolo di Sturzo è profondo ma si converte in un giuoco pericoloso. La aconfessionalità è la chiave di volta di questo piano satanico. E' il tentativo di convertire le armi dei liberali contro loro stessi. La sana lotta autonomistica contro lo Stato burocratico diventa lotta contro lo Stato e il socialismo. E' più facile nella praxis vincere gli spiriti singoli che gli Stati. Gli Stati non conoscono le dure vigilie delle coscienza né la paura dell'eresia. Dopo due millenni la tattica che ha servito a sgretolare dall'interno l'impero romano, quando non era possibile per la Chiesa domarlo dall'esterno, ritorna valida. Ma sarà possibile svegliare della coscienze senza suscitarne delle responsabilità?. Le volontà operanti si adatteranno ancora a chiedere la sanzione? Sturzo fa i suoi conti senza ricordarsi del rovesciamento della praxis. S'impiglia nel suo stesso gioco. Non si può servire insieme Satana e Dio. Svegliando coscienze individuali, suscitando impulsi autonomi egli opera come un liberale e non sa più egli stesso fermarsi a mezza strada. Il messianico del riformismo pratico servirà alla Chiesa o allo Stato? Il riformista del messianismo resterà cattolico o seguirà la logica del libero esame? Nella complessità contradditoria di queste domande pare che Sturzo sia stato oggi definitivamente travolto e che abbia subito il gioco del Vaticano da una parte, del fascismo dall'altra; ma il suo pensiero non sarà stato inutile nella storia dei rapporti tra cattolici e Stato. Invece se si prescinde dai limiti della politica ecclesiastica il Partito Popolare nell'esplicare la sua funzione sociale ha peccato di insufficienza e non ha saputo agitare il mito unitario della collaborazione nei giusti limiti sentimentali che si ponevano come caratteristici della situazione ideologica post-bellica esasperata e confusa. Facendo perno della sua azione la campagna, si è trovato a non avere soldati da opporre in città al fascismo. Neanche l'ambiguo messaggio papale riuscì a incoraggiare nei cattolici un'audace controffensiva. Il pensiero popolare si era fermato ai termini della questione manifestatesi durante il Risorgimento e subito dopo il '70: passato l'attimo messianico del dopoguerra senza un'azione decisa in senso risolutivo e rivoluzionario si trovava anacronistico e passivo di fronte al dispiegarsi senza freni della crisi italiana economica e psicologica. 5. Concluso il bilancio del pensiero espresso dai vari partiti nel processo normale della vita italiana prima delle ultime convulsioni, si potrebbe intraprendere, senza variare troppo il tono, l'esame dei caratteri del giornalismo quotidiano. Ma così come il pensiero dei leaders, esso non è troppo superiore alle condizioni di maturità della nazione e non si presta facilmente a un'indagine autonoma che voglia rilevare sfumature e atteggiamenti originali. Tuttavia giova avvertire che come strumento di cultura il giornalismo italiano ha una sua fisionomia e non teme il confronto degli altri paesi. Abbiamo, è vero, certo grossolano giornalismo opportunista e parlamentaristico della capitale e quello demagogico del sud, ma per contro, specialmente nell'Italia settentrionale, giornali che seguono una tradizione di pensiero e una continuità con scrittori politici non improvvisati e con larga parte a argomenti economici e tecnici: Salvatorelli e Cabiati alla Stampa, Albertini, Einaudi, Borgese al Corriere della sera, Missiroli, Luzzatto, Labriola, Schinetti al Secolo, Lanzillo al Popolo d'Italia, Vinciguerra, Cesarini-Sforza, Emery al Resto del Carlino, Ansaldo, Canepa e Caramella al Lavoro, Amendola, Buonaiuti, Ferrara e Tilgher al Mondo. Ma l'informazione predomina naturalmente sul pensiero e la gerarchia dei vari giornali stabilita incrollabilmente dal pubblico con le sue stesse preferenze risulta in base a criteri di tecnica e di opportunità. La critica politica non poté essere alimentata dal commento quotidiano se non in un senso strettamente conservatore anche quando la natura palese delle ispirazioni fu demagogica. Il tipo di cultura promossa dal quotidiano era di un illuminismo caratteristicamente borghese che aveva imparato dal positivismo la legge del minimo sforzo. 6. Il vero pensiero politico delle future classi dirigenti e delle attuali è elaborato fuori della politica militante nelle riviste o in margine al giornalismo quotidiano e si esprime come critica o come tentativo di ricostruzione sintetica della cronaca e della storia. L'eredità di Sonnino e di Fortunato è continuata da una nuova serie di riviste politiche ed economiche. Francesco Papafava e Luigi Einaudi riprendono la tradizione di studi economici e di cultura tecnica ispirata all'esperienze inglesi che nel Risorgimento aveva trovato due opposti promotori in Cavour e in Ferrara; Salvemini è il nuovo Cattaneo della nuova incompiuta unità; Missiroli continua la critica di Oriani fondendo le fantasie storiche di Ferrari con le apocalissi concettuali degli Spaventa; Critica politica riprende i motivi di critica religiosa e di ingenue aspirazioni allo Stato etico del Murri con un'opposizione acerba e quasi reazionaria agli interessi operai del Nord in nome di un quinto stato che non è ancora uno stato. Da tutti questi episodi spirituali esulano, come si vede, le grandi speranze e i miti a lunga scadenza; dominano preoccupazioni di realismo e di conservazione. Ora l'espressione più completa di tale attività si ebbe nel problemismo dell'Unità, la rivista politica più importante dei 20 anni trascorsi. Nell'Unità s'incontrano almeno tre diverse aspirazioni: il pensiero di creare una nuova élite, la preoccupazione mazziniana di rinnovare lo spirito popolare, l'esigenza di studiare a fondo i problemi della vita italiana. Il pensiero dell'èlite da costruire non era stato estraneo alla Voce, i cui interessi tuttavia non furono mai dominantemente politici: Prezzolini l'aveva attinta agli Elementi di scienza politica del Mosca dove si trovava in forma di obbiettiva considerazione e ne aveva fatto il programma per l'avvenire. Pareto e Sorel diedero il loro contributo al ripensamento di questo concetto mostrando coi loro studi l'inconcussa verità dell'affermata circolazione delle classi dirigenti e l'importanza e i valori personali nei fatti politici. Ma Salvemini vedeva più semplicemente il problema come una necessità di cultura e non lo distingueva affatto dall'altra esigenza di chiarire e preparare la soluzione dei problemi attuali. In questo campo c'era tutto un lavoro, specialmente dovuto ai liberali teorici, da continuare. I Dieci anni di vita italiana del Papafava, per esempio, si potevano proporre come modello di equilibrata comprensione della realtà e di garbati suggerimenti sui problemi agitati in parlamento; scritti in uno stile fine e spigliato con un piacevole velo di scetticismo all'inglese. Giustino Fortunato nei poderosi discorsi del Mezzogiorno e lo Stato italiano aveva svelato senza esitare le sventure del Mezzogiorno, intraviste dal Turiello, dal Jacini, dal Villari e dal Franchetti: il paese funestato dalla malaria, isterilito dal folle disboscamento, scarsamente produttivo per la natura stessa del suolo, taglieggiato dalla politica finanziaria dello Stato e dalle disuguaglianze di politica scolastica; e indicava come soli rimedi l'emigrazione che avrebbe aiutato la formazione di capitali mobili e una politica di raccoglimento e di pace che non si abbandonasse a pericolose avventure, ma cercasse di diminuire con le spese militari il gravame tributario. Luigi Einaudi condividendo le stesse preoccupazioni, pur con meno commossa disperazione, veniva assumendosi il compito, continuato poi per più di dieci anni, di critico inesorabile di tutti gli sperperi del governo, di ogni nefasta influenza del socialismo burocratico e parassitario e richiamava l'economia pubblica alla sua logica liberale e conservatrice, predicando una politica di ordine, di economia e di risparmio, ma tra gente ormai corrotta dal riformismo, non disposta ad ascoltarlo, mentre il sorgere di nuove élites industriali era ancora indefinitamente lontano. Pantaleoni gli faceva eco con un'implacata polemica anticooperativista. Giretti, De Viti De Marco, Prato, Luzzatto preparavano i materiali per la lotta sfortunata contro il protezionismo doganale. Ora Salvemini lavorò a questa esigenza con un coraggio e un'intensità non conosciute, sfruttò i contributi di tutti gli altri studiosi, ne eccitò dei nuovi preparando una schiera notevole di giovani scrittori politici. La collezione dell'Unità è una vera e propria fattiva collaborazione a porre e risolvere i problemi presenti di governo e il Partito popolare a suo tempo seppe valersene notevolmente. Infine il problema del rinnovamento morale del popolo italiano era ereditato direttamente dal mazzinianismo e dall'illuminismo settecentesco, ma veniva soltanto accennato fugacemente come motivo di critica democratica e non riusciva a riportarsi al suo centro naturale ossia al problema della lotta politica. 7. Se ora da questa generica preparazione tecnica passiamo ad esaminare i tentativi che si sono avuti nella nuova Italia per produrre miti operosi che inquadrassero le forze storiche e le guidassero alla realizzazione di funzioni superiori, che dessero agli uomini una disciplina rinnovatrice o rivoluzionaria, avremo la conferma più squallida della impreparazione degli italiani a porre e a risolvere il problema dell'azione. Sembrò al tempo del Regno fiorentino che il nazionalismo volesse diventare l'anima di una élite che imponesse all'Italia il suo spirito e il suo ordine. Ma il nazionalismo nasceva con la grave tabe della retorica e doveva presto rivelare in Corradini la sua impreparazione realistica. Gli interessi di politica estera erano vuoti quando non si riusciva a impostare all'interno un problema di consistenza e di vita normale. Corradini parlava di produttori e di esigenze della produzione, ma riusciva poi praticamente a far leva sulla vecchia borghesia italiana impreparata e non moderna. Mentre in tutta la nazione fremevano i sentimenti rivoluzionari di un popolo che stava per entrare nella storia e vi portava la novità della sua forza e della sua ideologia rivoluzionaria, Corradini rivolgeva il suo appello a forze esauste e non distingueva sul terreno pratico tra una borghesia sfinita e decadente, oramai vicina a confondersi con le classi medie e la nuova borghesia produttrice appena nascente nelle grandi industrie delle città settentrionali, che deve ancora provare le sue virtù nella libera lotta e nel gioco autonomo delle iniziative. Ma con queste esigenze, con questi imperativi etici inesorabili non pare affatto congruente la politica protezionista predicata da Corradini. E il sindacalismo del Rocco col parlare quasi burocraticamente di sindacati riesce di fatto ad annullare la complessità delle iniziative e delle forze operanti, in nome di una generica moralità burocratica mentre solo in regime di libera concorrenza l'economia italiana potrà esprimere la sua èlite di produttori e di politici. Praticamente il nazionalismo sfociava nella campagna per la guerra libica ossia in un problema assolutamente inadeguato alla rinnovazione dello Stato e di fronte alla guerra europea non sapeva distinguersi da un generico imperialismo. Culturalmente si limitava a rivelare un gruppo di giornalisti svelti e abili, pratici di problemi di politica estera, ma senza larga preparazione ideale. Più coerente ma più limitato del nazionalismo fu il tentativo di Bergmann e di Caroncini di dare con la loro rivista Critica e azione una coscienza di classe alla nascente borghesia industriale e di risuscitare il liberalismo economico inquadrandola in un'etica severa e bellicosa che giustificò la guerra europea proponendola come necessità di cimenti estremi e di sacrificio eroico. Ma per la borghesia italiana queste nobili ideologie si rivelavano anacronistiche. Il mito di riscossa proletaria ebbe più vigorosamente e realisticamente i suoi teorici in una piccola rivista torinese, L’Ordine nuovo, che fu forse il più curioso tentativo di creare una classe dirigente che aderisse alle reali condizioni economiche del proletariato e ne fosse l'espressione e il potenziamento. Le confuse aspirazioni messianiche del bolscevismo post-bellico avevano i loro limiti nell'inesperienza dei capi. Preoccupazioni estranee di unità di partito e di riformismo, errori tattici del Serrati, degenerazioni locali parassitarie impedirono la formazione di un'aristocrazia preparata e di un mito rivoluzionario preciso che risolvesse la confusa situazione di illusione e di messianismo. I comunisti torinesi trovarono il loro animatore e il loro pensatore in Antonio Gramsci che aveva elaborato la sua esperienza fuori dalle preoccupazioni della politica ufficiale, a contatto con le maestranze nuove della più moderna industria italiana, la Fiat, che contava il più bel frutto della selezione operaia coi suoi lavoratori qualificati. Essi videro l'esigenze e tentarono di provvedervi con una rivista di cultura che si proponeva una specie di esegesi pragmatistica del marxismo e della rivoluzione russa e affrontava con spirito di governo i problemi concreti del divenire della rivoluzione. Nei consigli di fabbrica tentavano di realizzare una forma di ordine nuovo in cui l'organizzazione politica aderisse plasticamente all'organizzazione economica, rispecchiandone le differenze, facendone emergere spontaneamente i fattori più importanti e indispensabili, dando alla classe lavoratrice in lotta contro le vecchie élites la forma naturale di un esercito capace di affrontare la battaglia e di trar profitto di un'eventuale vittoria. Non è a ripetere qui come questo tentativo fallisse per la sua esiguità stessa, per la incomprensione in mezzo alla quale si trovò, per l'immaturità del proletariato italiana a sostenere il proletariato torinese. Ma è doveroso ricordare anche in mera sede di cultura questo che fu uno degli episodi più originali di pensiero marxista in Italia, anzi forse il primo tentativo di intendere Marx al di là delle caduche illusioni ideologiche nel suo significato di suscitatore d'azione. Invece non è ancora possibile parlare in sede di cultura e di obbiettività storica del fascismo, il quale ha risolto prima il problema di governo che il problema della sua identità. L'interpretazione comune (reazione ai miti antipatriottici e alle ebbrezze rivoluzionarie) ha un valore pratico ed è parso sin qui destinato a far fortuna, ma non presenta alcun significato in sede politica dove gli interessi e la retorica dovrebbero trasformarsi in situazioni storiche. Anche l'interpretazione marxistica (reazione borghese) è insufficiente e spiega solo poche situazioni locali. Dall'interno il fascismo non ha saputo compiere sforzi notevoli per chiarirsi. Il richiamo alle élites militari che continuano ad agire guerrescamente quando la guerra è finita, idea di Machiavelli ripresa da Pareto, ha soltanto un valore psicologico. Dino Grandi ha cercato di spiegare il fascismo con la considerazione missiroliana delle idealità democratiche del dopo-guerra, con le evoluzioni delle classi medie e genericamente col fenomeno del collaborazionismo di cui egli accetta l'analisi suggestiva offerta dal Formentini. Il nuovo governo avrebbe dunque in un certo senso il compito intravvisto per la prima volta dall'abborrito Nitti, dovrebbe conciliare le antitesi con una scaltra politica democratica. Le aristocrazie militari la pensano diversamente e non da oggi vanno agitando lo spettro della tirannide. Lanzillo identifica invece il fascismo col sindacalismo soreliano. De Stefani e Rocca ne fanno l'ultima incarnazione del liberismo. Mussolini, per non venire ai dilemmi inesorabili, fa coincidere di volta in volta il fascismo con le varie vibrazioni del suo temperamento. Tutta ciò è perfettamente estraneo alla cultura politica. Non metto conto di esaminare la letteratura nata dal fascismo sin qui. Senonché la realtà di oggi può compromettere la cultura e la realtà di domani. L'abolizione della lotta politica nell'esaltata unanimità delle folle è un regresso evidente se si pensa che non si possono elaborare idee politiche quando gli uomini che le pensano sono soffocati. D'altra parte il fallimento desolante di tutti i partiti attuali, l'incapacità rivelata da comunisti, popolari, socialisti sembra proporre con allarmante urgenza la necessità di rifarsi da principio. Bisogna che l'opera di critica si possa svolgere integralmente perché si formino e si differenzino le nuove élites. La palingenesi delle classi medie è un fatto provvisorio nella vita italiana dove non può tardare l'intervento di forze nuove e di nuove posizioni politiche. Altrimenti avremo a breve scadenza una lotta esasperata per le condizioni di libertà più elementari. Qui alla nostra indagine obbiettiva restano estranee le valutazioni di bene o di male. Ma la cultura politica si può svolgere solo attraverso la lotta politica e la lotta politica nel mondo moderno ha la sua premessa necessaria nella libertà. Vedremo quali effetti avrà avuto il fascismo per questo aspetto in Italia, ossia in un paese che ha superato a stento il brigantaggio e l'èra dei mazzieri conquistando molto tardi, col suffragio universale, le premesse indispensabili della lotta politica. Ma per noi chi vuol rispondere sin d'ora ha in mano i documenti. PIERO GOBETTI.
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