IL REALISMO DI UN PESSIMISTA.
In memoria di Ernesto Fortunato il nostro amico e maestro Giustino Fortunato ha stampato in pochissime copie un volumetto commosso e profondo del quale noi siamo lieti di poter far conoscer per primi le pagine seguenti, di un'importanza singolare per la conoscenza e la storia del problema meridionale. Eravamo, da fanciulli, cresciuti insieme sotto l'amorevole scorta di genitori, mirabili esempi di disparata virtù; severo e rigido il padre, mitissima e pia la madre; e il vincolo di famiglia, allora cosi forte da noi, c'informò per tempo gli animi, componendoli a disciplina e bontà. Era una vecchia famiglia terriera, la nostra, di quella borghesia che il nuovo secolo aveva sospinta al governo dello Stato, devota bensì al principio tradizionale della unicità, che la buona educazione aveva sempre preservato da corruzione, ma tuttavia immune da quella infingardaggine di spirito e di cuore, da quel preteso diritto alla infingardaggine, il quale a lungo formò e costituì il carattere del nostro proprietario di terre. E questo amore alla famiglia fu appunto il sentimento, che primo ci ispirarono i genitori nostri; e, primo de' loro precetti averlo gelosamente sempre in custodia. Sentimento, che fu la maggiore, se non addirittura la sola forza spirituale che Pasquale Villari, commemorando Domenico Morelli, riconobbe ed esaltò nella debole compagine decadente della società meridionale, anteriore alla unificazione: forza, oggidì, presso che scomparsa, e se con profitto in un paese ancora "troppo duro, di troppo peso, e di pochissima utilità ", – in un paese che ancora bisognerebbe "fosse di meno fumo e più quiete", quale è "la coda d'Italia", come nel 1515 Leone X designò il Mezzogiorno, - dica chi ci vive dentro e soffre del progressivo suo dissolversi sociale. Toccò a me, naturalmente, precedere il fratello in un Convitto di Napoli; ma egli ed io vi rimanemmo, – anche dopo la fortunosa parentesi nella casa paterna del 1860-61, per altri lunghi quattro anni; insieme ne uscimmo nel '865 e, sostenuti gli esami di licenza liceale, c'inscrivemmo alla Università; dove, io avanzandolo di un anno, egli pure – ventenne appena – si laureò in giurisprudenza, l'agosto del '870. E solo allora avemmo opportunità di discutere, con nostro padre, del nostro avvenire. Specialmente dedito allo studio del Codice Civile, mio fratello non titubò nella scelta, eleggendo far pratica forense con l'avvocato Zeuli, già degnissimo magistrato, "destituito" come allora corse l'andazzo, solo perché borbonico, "in omaggio alla pubblica opinione". Com'egli di quella pratica e di nuovi studi volesse e sapesse giovarsi, pur tenendosi lontano dall'esercizio dell'avvocatura, apparve, primo, dal contributo che egli diede alla gran causa demaniale sostenuta dal vescovo di Melfi, domino diretto di Gandiano, contro il comune di Lavello, - e in occasiono della quale egli dettò, serbando l'anonimo, due memorie, mirabili per la fine analisi di alcune tra le più ingarbugliate questioni di diritto feudale, - poi, dal non aver mai la famiglia avuto necessità di ricorrere, per alcun atto o procedimento proprio, al patrocinio di consulente e procuratore. Del resto, amantissimo, nelle ore libere, della lettura, poi che di libri e di giornali volle abbondanza nella solitudine campestre, una singolare predilezione egli ebbe: quella di leggere, e serbare, quante Memorie in causa di diritto privato a lui mandavano in dono gli amici avvocati. E nel ragionare con lui, sorse in me l'idea di uno studio su la criminologia civile, come un giorno mi scappò detto, quale espressione dello stato morale di un paese ben diverso da quanto risulti dai registri della cancelleria penale: una idea che egli, non io, digiuno di apposita preparazione, avrebbe potuto tradurre in atto, se egli non avesse provato una invincibile ripugnanza a divulgare alcun suo scritto per via della stampa. Ma, scorsi non più che due anni, un giorno, risolutamente e come colto da un'improvvisa ispirazione, eccolo manifestare la intenzione di incamminarsi per un'altra via, quella della diretta conduzione delle nostre terre, a cui in verità, sin da' primi anni io lo avevo veduto proclive, sull'esempio del padre, che egli adorava, e per il ricordo degli antenati, avanti e dopo la lor venuta nei paesi del Volture. Forse a questo passo dovè anche contribuire la condizione, tutt'altro che prospera, nella quale la famiglia, uscita dal primo turbinoso decennio della unificazione politica, ebbe a trovarsi. Un giorno sarà fatta, su' processi e i documenti di archivio, la storia del brigantaggio e delle fazioni locali di quel tempo, così terribile per le nostre provincie "tempo di calamità universale", direbbe il Manzoni, "in cui l'istinto bestiale dell'uomo suole paurosamente crescere e dominare". Vittima per l'appunto de' casi di quegli anni, la nostra famiglia, - allora e poi fortunatamente senza l'acre voluttà e il rimorso, della vendetta – era rimasta non poco compromessa dalla totale perdita delle maggiori sue industrie del bestiame: – l'ovino e il suino – e dall'ingente somma sborsata per il ricatto del maggiore de' fratelli Germano. A quei giorni, chi de' nostri pensava più di tornare a Gaudiano, per rifarci, col lavoro, de' danni sofferti? E lui, invece, il giovane ventiduenne, abbandonati i codici e le aule giudiziarie, non si perita di chiedere al padre e agli zii di andirezione di tutta intera l'azienda... Tutto l'andarvi egli stesso, di rimanervi, di assumervi la no, a Gaudiano? Se la incolumità della persona poteva oramai dirsi sicura, come garantirsi dalla malaria, a breve distanza dal malefico fiume, presso cui non pochi conterranei, primi censuari del '806, - i Faraone, i Severini, i Granata, i Piacentini, – non erano sostati nemmeno per due o tre lustri, e un di loro, sin dal '814, ci aveva venduta la sua quota di Monte la Quercia? De' nostri stessi, non uno v'era mai dimorato dal giugno al novembre: il luogo era reputato pestifero cosi universalmente, che a' lavoratori stabilmente ivi addetti il nonno aveva largito maggior compenso annuo e il diritto alla pensione... Il consenso, in fine, venne pur dato, ed egli - come dimenticarlo? - sul cominciare del '73 andò a prender possesso, con la visione limpida e sicura dei nuovi suoi doveri, col deliberato proposito di essere qualcuno, di essere innanzi tutto se stesso. E si che aveva pur conosciuti, sentiti gli ardenti fremiti della giovinezza! Anche dopo egli li conobbe e sentì, ma ognora libero dalle malinconie che colpiscono le nature passionali, ognora desto al senso onnipossente del rispetto di se e della propria dignità, che lo tenne sempre lontano da ogni volgare accomodamento... Bastare a sé, e stimare ricompensa d'ogni opera il farla, spendendo utilmente il proprio tempo: questo il viatico, che egli portò seco. Pensarono intimidirlo, tanto la novità giovanile del suo atteggiamento parve avventata, col minacciare anche lui, poco men che un decennio dopo quanto era toccato allo zio, di ricatto. Ma aver notizia della minaccia e, in compagnia di due guardiani, sorprendere i mandanti ed arrestarli, fu tutt'una cosa. Affermatosi cosi nella fama, e restaurata alla meglio la cadente piccola abitazione – che coll'andar del tempo, avrebbe ampliata e rifatta, – non dubitò partecipare, nel nome del padre e dello zio Raffaello, – quasi inventario di quanto aveva trovato, – al primo concorso agrario regionale, tenutasi in Portici nell'agosto del 1845; e nel maggio del seguente anno far gli onori di casa ai soci della sezione alpina di Napoli, in escursione da Castel del Monte presso Andria a' laghi e al bosco di Monticchio sul Vulture. Presto intanto, – sollecita ricompensa della infaticata e intelligente sua operosità, la estimazione de' competenti, la fiducia senza limite di don Federico Paroncelli, il benemerito fondatore della casa, cui Cerignola deve il suo risorgimento economico; quando, per un ammanco che volle far suo alla insaputa del padre, e per sopperire alla spesa di una nuova piscina e di straordinari lavori ricorse al Paroncelli, e questi, senz'altra garanzia che la parola, gli fu largo d'ogni soccorso. E morto il padre il primo gennaio del '49, egli, rimasto l'anima veramente fattiva della famiglia nel maggiore e miglior senso della parola,– la famiglia, che secondo il comandamento dell'avo, "nulla al mondo doveva dissolvere e spendere", – non quetò sino a che non ebbe dato a quanti la componevano, fratelli e sorelle, quasi premio alla loro non mai turbata affettuosa armonia, sicurtà di vita libera da impedimenti, e da angustie. E soltanto quando ebbe ciò fatto, volle e potè interamente dedicarsi all'opera, lungamente sospirata e prima e dopo la sua dimora a Gandiano: la riforma, cioè, de' vecchi sistemi agrari fino allora praticati, assiduo argomento del pensier suo pure nelle quotidiane passeggiate lungo i poggi sovrastanti la fattoria, dove la menta selvatica odora acutissima, e il biancospino e le ginestre fioriscono... Perché, se poco, nel frattempo, aveva appreso da' libri e dalle riviste, molto gli era riuscito conoscere per i colloqui con i lavoratori del luogo, e molto imparare dalle stesse sue prime prove, se costose, non tutte felici; moltissimo, da esperte affermazioni famigliari che gli tornavano, caro ricordo, alla mente. Prima fittuari, poi censuari, da ultimo – per via della benefica legge del 1865, riscattatrice del Tavoliere di Puglia – proprietari di terre a coltura estensiva, mille volte egli aveva sentito ripetere dal padre e dagli zii quel ch'essi dicevano aver imparato da' vecchi, e questi da' predecessori: che cioè per lunghi trecento anni il bestiame, non la cerealicoltura, – l'eterno miraggio cosi del contadino come del proprietario meridionale, – ci aveva dato, unitamente con la remora ai matrimoni e l'abito al risparmio e le molte quaresime, quel tanto di agiatezza che avevamo. Mille volte essi gli avevan detto che la cerealicoltura, in terre aduste e aride come le nostre, era "il terno al lotto", non di rado paragonandola, – con una immagine se non erro, che dicevan tolta dal Galanti, – al giuocatore che prendesse tanto di denaro, quanto bisognasse all'acquisto delle sementi e alle mercedi del lavoro, e lo buttasse al vento, contro gli elementi naturali e le stagioni che tenessero banco... Co' pochi registri e le poche carte sopravanzate de' più vecchi anni, chi meglio di lui avrebbe potuto - e ne convenne con Leopoldo Franchetti, suo amicissimo, quando lo ebbe ospite a Gandiano – raccontare i casi della nostra famiglia, ad ammaestramento di quegli uomini di buona volontà, che tuttavia prestano fede – pare impossibile! – a' miracoli delle agresti fortune del Mezzogiorno? E chi più di lui aveva conosciute, e a sua volta provate, le ansie paterne, – indelebili nella mente di noi fanciulli, – per "la sterile ruggine o l'ardore dello scirocco" a dirla orazianamente, che, in primavera, facevan credere alla inevitabile privazione dell'intero raccolto! Pure, tutto egli tentò per vincere il tristo presagio, anche lui sedotto dalla simbolica figura dell'Abbondanza, con la cornucopia in braccio riboccante di biondi chicchi di grano, anche lui preso dalla suggestione della vasta distesa bionda, picchiettata dal rosso vivo de' papaveri, sotto l'ardente cielo di Puglia; tutto egli tentò, sia estendendo la semina, sia migliorando maggesi e culture con ben altro frutto, senza dubbio, in confronto del passato, non mai pero' consentendo nelle altrui pretese per un maggior dazio d'introduzione alla dogana. Ma un anno più dell'altro anche a lui fu forza conchiudere, che senza desistere dal seminare grano, – la pianta che da nessun'altra in pregio è pareggiata su la superficie terrestre, – è fatalmente necessario che il sistema culturale estensivo, unico possibile in un ambiente geografico e climatologico come il nostro, trovi il suo complemento, nonché in una più larga ed accurata piantagione di alberi fruttiferi - ultimo voto di lui in occasione del particolare Congresso qui tenuto poco prima della sua morte, – nel risorgimento della industria del bestiame, se anche trasmigrante da' pascoli invernali di Puglia agli estivi dell'Appennino. O non è forse vero che normanni e svevi ed angioini dovettero riconoscere, che la sola e vera sorgente di benessere per quanti, nel Mezzogiorno, vivon dell'agricoltura, è la pastorizia? Già per tempo, egli, il fratel mio, si era accinto a riallevare ovini e suini: gli ovini, non più merinos del famoso allevamento borbonico di Tressanti – ma pugliesi delle Murge, de' signori Martucci di Altamura, – non più obbligati, quindi a estivare negli Abruzzi; i suini, non più dell'originaria razza lucanica, e, per ciò, non più bradi e solo da boschi, ma dello allevamento stallatico Yorkshire, del marchese Stanga di Grotta d’Adda. Molto utile gli diedero i primi, niun frutto i secondi, distrutti dal mal rossino, recente non ultima maledizione del Mezzogiorno agrario. Più tardi collocò lungo l'Ofanto, nella propria "isca" di Santo Angelo, anche i bufali, con riproduttori della antica razza cerignolana de' La Rochefoueauld Doudeauville. Le stese vacche, accresciute di numero, e più lungamente costrette a rimaner in Puglia; gli stessi buoi, assai meglio di una volta trattati, e tenuti al coperto, ogni cosa, dunque, dové deciderlo alla soluzione del problema capitale, non prima mai né risoluto né proposto: conoscere, cioè, quale fosse il miglior foraggio possibile nel tavoliere pugliese. Come egli, a furia di esperimenti, ne venisse a capo, e come, alla vigilia della vittoria, ingiustamente restasse colpito a morte, sa il lettore. Ma potrei io aver dimenticato l'agitazione del suo animo, durante quel difficile non breve periodo quando egli pensava e diceva, che ove la morte lo sorprendesse a mezzo dell'opera, avrebbe inutilmente vissuto, perché tutto era inutile nell'opera sua ciò che non fosse compiuto? Un esame così vario di questioni attinenti all'organismo della vita economica, gli fu scuola di volontà risoluta e ferma. Tutto, infatti, egli deve alla forza del volere che gli occorse, il più delle volte, esercitare con una tensione veramente singolare dello spirito. Niuno aborrì dell'ozio più di lui, solito a ripetere che un uomo, il quale "si rispetti", debba aver già compiuto il suo lavoro quotidiano "per l'ora di vespro", allo apparire dell'uccello sacro a Minerva. Nessuna meraviglia, quindi, che in cosi lunghi anni di solitudine egli acquistasse un'assoluta originalità nella visione del mondo reale, tale da non aver mai esitazioni né pentimenti, come i molti rosi da una irriquetudine oscura, che non conoscono un sol giorno di pace. Siffatta superiorità semplice ma sapiente, finì col destargli se fisicamente non abbastanza forte, un coraggio sempre tranquillo, frutto d'uno di que' convincimenti che vengono dalla più ponderata risoluzione, dopo che ogni contrasto fu valutato e combattuto. L'immane silenzio della steppa, rotto soltanto dal frequente infuriare del libeccio, che suole laggiù portar seco come l'eco di altri sterminati lontani silenzi, dov’è certo contribuire a fargli anche acquistare, insieme col pieno dominio di sé, la più grande serenità dell'anima. Conservo ancora una sua lettera, di poco anteriore alla guerra, in cui ringraziandomi di alcuni libri, – tra i quali due volumi dello Shakespeare, – mi scriveva d'essersi grandemente rallegrato di riconoscersi in quel pastore della commedia dal titolo: Come vi piace, che dice: "io sono un onesto assiduo lavoratore; io raccolgo quel che mangio, guadagno quel che porto, non odio e non invidio la felicità di alcuno, beato del bene altrui; e il più grande mio orgoglio è quello di vedere le mie pecore pascolare, i miei agnelli succhiare" . Pure, nell'apparente fermezza dell'aspetto, male nascondeva un giudizio non lieto, una comprensione assai relativa del mondo, sebbene il dubbio circa la non buona indole umana, e la umiliante realtà della vita; non giungessero mai a tormentarlo tanto da scemargli la pacatezza del sentimento o l'alacrità dell'opera. La percezione che il divino esistesse, non gli era già mai venuta meno: la dimora nell'aperta campagna, fuor delle terre murate, gli giovò sicuramente a rinvigorirgliela; e il bene, quindi, egli comprese ed esercitò, aborrendo da ogni ostentazione, con un intimo appagamento poco men che religioso. Preferì nello affetto il popolo coltivatore, pure non ignaro dell'atavica sua natura "così ambigua e diffidente", – egli diceva, – "che non c'è da farci assegnamento" in perenne contatto con esso e, da parte sua, senza alterigia, si può dire egli abbia trascorso quasi tutta la vita. E se gli pareva rinascere in mezzo a' forti minervinesi, che a differenza de' lavellesi non rifuggivano dal pernottare in campagna, questi particolarmente, ammirava ed amava per la onesta e mite indole loro; era beato, ove riuscisse a comporre le loro liti domestiche, assai spesso dissuadendoli dallo adire il magistrato: "i lavellesi" notava, "sono i soli, è vero, che usino e abusino delle querele, ignota arma a' contadini degli altri paesi; ma anche i soli che rifuggono dal farsi giustizia con le proprie mani, essi che non diedero mai contingenze al brigantaggio". Se un rammarico egli portò nel sepolcro, fu quello di non aver mai saputo decidersi a compiere due studi, pensati apposta per giovare a' contadini, in genere, del Mezzogiorno: su la necessità, il primo, della conservazione dell'istituto del demanio nei piccoli Comuni montani; l'altro, della riforma ab imis del contratto di fitto delle terre pianeggianti, specialmente se di coltura estensiva. E quanto i contadini, – i lavellesi, più degli altri, – lo ricambiassero del più puro affetto, chi ignora? Rammento un vecchio, che a Gaudiano, uscendo da un colloquio con lui; incontratomi, mi disse: "è più buono del sole d'inverno", e una povera donna: "Dio gli riguardi gli occhi d'vricc che ha". Durante i quattro interminabili anni della guerra, o non ricorsero a lui, anche più che a me tutti i contadini di Rionero e di Lavello, ed egli, sebbene infermo, non si prestò loro, anche meglio di me? "Sono i nostri", diceva, e la voce gli tremava, "quelli che han dato più vittime, perché il Mezzogiorno non ebbe esoneri né imboscamenti; eppure gli altri, i fratelli del nord, oh quanto più adulati e carezzati e premiati de' nostri!". Se le essenziali qualità sue, della mente e del cuore, lo resero - come tutti sanno - schivo degli onori e inaccessibile agli allettamenti della notorietà, nessuna meticolosa modestia fu però in lui, e, ne' dinieghi, egli restò sempre coerente. Viver fuori della vita comune, gli sembrò inconcepibile; e se spesso dovè dire di essere conscio della propria inettitudine alla vita pubblica, nel fatto la odiava: troppo egli ebbe in sospetto il maggior numero degli uomini politici, sedotti – a parer suo – dalle astrazioni delle idee; e assai disprezzò i politicanti d'ogni risma. Si ricusò nel '96 col De Bernardis, sottosegretario al Tesoro nel Gabinetto Di Rudinì, per la nomina a Commissario del Banco di Napoli, e nel '906 col Gianturco, ministro de' Lavori pubblici nel Gabinetto Giolitti, quale membro del Consiglio di amministrazione delle ferrovie di Stato; nel '900 col Salandra, ministro dell'Agricoltura nel Gabinetto Pelloux, per la proposta a senatore del Regno, nel '912 col Nitti, anche lui ministro dell'Agricoltura nel Gabinetto Giolitti, per la nomina a cavaliere del Lavoro. Di tutte queste offerte egli serbò, religiosamente, il segreto. Ed ogni volta, con me, sorridendo: "o non è uno dei modi per servir la patria anche quello di fare, come meglio si può, il proprio mestiere? Se tutti ci dessimo attorno, e tutti disertassimo le campagne, chi più lavorerebbe la terra? ". Del resto egli riteneva per fermo che gli uomini cercan lontano, e per vie difficili, il bene che, inosservato o dimenticato, è a portata della loro mano... Ma che non fosse un uomo chiuso in sé, seppero e posson dire coloro che lo avvicinarono e lo udirono parlare, se rado e calmo, con brio e con arguzia: ché se espressa con parola alla buona e senza pretesa, l'osservazione gli riusciva oggettiva e facile, e, con l'andar degli anni, sempre più viva e sciolta. Il motto e, alcuna volta, l'aforisma, – frutti di così lunga esperienza, – pur negli anni di forzata dolorosa permanenza qui in Napoli, gli venivan pronti su le labbra, poi che grande e versatile gli era stata la prontezza della mente nel godere delle assurdità umane. Certo, egli non prestò mai fede alla possibilità d'ogni rimedio per ogni umano malanno. Ma grazie alla chiara idea e allo schietto sentimento, che con tanta costanza aveva proseguiti; avverso ad ogni maniera di artificiosi ordinamenti sociali, ad ogni misero surrogato del libero lavoro in mezzo alla libera natura, "che solo", – era uso ripetere, "impara a pensare prima di parlare", rinascita civile ed elevamento morale eran termini, per lui, inseparabili, e tutto il resto ciarla, non che vana, dannosa. GIUSTINO FORTUNATO.
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