LA NOSTRA CULTURA POLITICA
1. Dopo il Risorgimento l'Italia non ha saputo creare più i grandi miti intorno a cui si organizza nel corso della storia il pensiero di una nazione sintetizzando le manifestazioni più diverse. I miti stessi del Risorgimento erano stati poveri e generici, o meglio, non avendo avuto un sufficiente periodo di maturazione, erano rimasti allo stato di ideologie, non avevano avuto il tempo di cimentarsi con la realtà costringendo gli uomini a sentire il dissidio tra pensiero e azione, a risolverlo chiaramente ossia a formarsi una coscienza realistica. Non nascendo dalle esigenze morali, l'azione politica era per gli Italiani qualcosa di esterno e di dilettantesco: Cavour non diventò popolare per le sue qualità di realizzatore, ma per quella sua astuzia esterna e niente affatto eccezionale che lo faceva protagonista di mistificazioni internazionali. E' mancato così persino un linguaggio, nonché uno stile politico; e va diventando sempre più impossibile farsi intendere. Si sono creati dei miti diseducatori come la purezza di Mazzini e il suo disprezzo per la realtà, il cinismo di Cavour, ecc. Il pensiero politico, anzi addirittura la preparazione politica, sembrò a un certo punto diventato incompatibile con la politica militante. In vero il compimento stesso della nostra unità nazionale non fu senza gravi confusioni e incongruenze. Solo il Piemonte recava al nuovo stato oltreché una dinastia (invero prossima alla decadenza), una classe politica autentica, non del tutto pari forse ai compiti di un grande stato europeo, ma conscia dei suoi limiti, aderente alla realtà, competente nei problemi dell'amministrazione dello stato, dotata per natura dell'istinto della probità civile. Era la classe politica che aveva superato se stessa, in Cavour; ma anche i Valerio, i D'Azeglio, i Boncompagni, i Berti, i Solaro della Margherita, come più tardi i Sella sapevano che cosa fosse il problema del governo, erano informati di letteratura politica ed economica e seguivano la vita dei paesi esteri. Assai più limitati erano gli orizzonti delle classi politiche alimentate nelle altre province del Nord. Roma contrastava ogni libera circolazione di élites e ogni premessa di lotta politica. La Toscana era un piccolo stato di classi medie rurali che esaurivano i loro interessi politici in un pensiero conservatore. Nel Mezzogiorno poi la presenza di una grande corte a Napoli alimentava le ambizioncelle, svegliava gli spiriti della retorica e della demagogia. Il Sud portò alla nuova Italia abitudini di mal costume politico e di democrazia parolaia, e tutti gli artifici caratteristici di una vita artificiosa in cui le classi medie non sono continuamente rinnovate dal basso, ma rappresentano la decadenza delle classi ricche e nobiliari.
Dal ‘70 al ‘900 il problema della consistenza amministrativa assorbì tutte le attività, non permise una lotta politica. L'antitesi tra sinistra e destra era una questione di parole e di pratica tecnica. Si lasciarono nella solitudine e nella dimenticanza uomini come Stefano Jacini e Alfredo Oriani che richiamavano l'Italia ai suoi problemi e ai suoi destini. Sonnino, Fortunato e gli altri scrittori della Rassegna settimanale rimanevano impopolari per la loro stessa cultura. L'economia politica a stento si udiva nelle cattedre universitarie, ove per altro nessun Ferrara rinasceva.
Se si ripensano queste condizioni non si può non considerare con ottimismo la situazione nuova. Oggi la conoscenza dei grandi problemi è più universalmente diffusa; tra la scienza universitaria e la vita pubblica si hanno più frequenti rapporti, sono nate riviste tecniche, il giornalismo quotidiano è migliorato. Non ci sono tuttavia i segni di una vera rinascenza: i partiti d'opposizione non hanno alimentato alcuna grande ideologia, il socialismo non ha trapiantato Marx in Italia, ma si è spesso corrotto in una pratica parlamentaristica e burocratica. Il grande ostacolo alla formazione di un ambito propizio alla coltura politica continua ad essere il Mezzogiorno e l'assenza di una coscienza unitaria che fa temere, ad ogni affermazione netta, per le condizioni elementari di vita e di sviluppo. L'economia nazionale è ancora troppo arretrata, il paese è povero e non concede tregua agli individui, non permette loro la dignità di cittadini. Due terzi della popolazione dividono le sorti di un'agricoltura arretrata e condannata per lunghi anni a non divenire moderna. Si tratta di piccoli proprietari, affittuari, mezzadri che aspirano soltanto alla pace e alla conservazione dello stato presente, ostentando indifferenza per ogni più larga preoccupazione. L'aristocrazia industriale e operaia, alla quale è legata la possibilità di una trasformazione moderna dell'Italia è appena in sul nascere e non riesce a distinguersi dalle sovrapposizioni e confusioni parassitarie, non riesce a vincere il pauperismo e il dilettantismo.
E' logico che il governo, date queste premesse, pensi più all'amministrazione che alla politica: uomini che vantavano la loro cultura e preparazione, come Salandra, Nitti, Sonnino, non hanno fatto nulla più di Giolitti e degli altri tecnici della burocrazia. La lamentata incultura dei deputati rappresenta l'incultura e la confusione del paese. Le corruzioni demagogiche, le indulgenze verso il parassitarismo, la monarchia socialista, corrispondono alle nostre condizioni storiche e indicano appunto l'incapacità e l'impossibilità di porre il problema nostro che determinerebbe ogni chiarezza, il problema dell'antitesi tra Nord e Sud. Non si può giungere (almeno nel pensiero dei governanti) a queste chiarificazioni integrali perché ne resterebbe addirittura compromessa la possibilità di una vita unitaria. I partiti, tutti fuori della realtà, soffrono del naturale contrasto tra le premesse e la pratica di ogni giorno che deve pur sottostare alle esigenze prima dimenticata, ma che si impongono. In sostanza l'Italia patria di tutte le ideologie e di tutte le ribellioni si riduce a un paese di conservatori in cui i partiti di opposizione temono ad ogni istante di essere stati troppo intransigenti e si affrettano a moderare le loro affermazioni, a piegarsi all'opportunismo. I cosiddetti liberali, rappresentando la conciliazione del momento per momento, hanno compiuto per 20 anni la funzione di impedire il cozzo netto degli interessi e sono riusciti a salvare per questa via anche le loro clientele. Neanche i repubblicani, in questa terra malata di enfasi romantica, seppero conservare le intransigenze ideali.
I socialisti sorsero con le pretese di un partito rivoluzionario, ma aggregarono alle loro file i piccoli borghesi e createsi le loro clientele parassitarie non riuscirono ad evitare il riformismo economico. In queste piccole preoccupazioni di miglioramenti economici e di utilità personale la lotta politica diventa un semplice compromesso e si è indifferenti alle questioni più capitali di principio e di forma. Il problema istituzionale è ignorato, non si osa discutere uno Statuto, trasgredito ogni giorno, vecchio di settant'anni, improntato a uno spirito tirannico e teocratico; invece di criticare il parlamentarismo si pensa di distruggere il parlamento, manca negli italiani ogni senso più elementare di libertà e di Stato. Nel '98, i radicali, senza alcun'eco nella nazione, si riducono ad assumere degli atteggiamenti eroici da rivoluzione francese perché veramente questa esigenza è ancora viva in Italia, dove la preoccupazione della libertà è stata continuamente soffocata dalla preoccupazione dell'unità. Il trionfo fascista si connette a queste condizioni di impreparazione.
Paralleli agli amori con la dittatura si svolgono gli amori con la teocrazia. La tesi di Machiavelli sulla fatale antitesi tra la chiesa cattolica e la formazione di una coscienza italiana ridiventa di attualità. In fondo il neo-guelfismo in Italia non è ancor morto e lo spirito estetico degli italiani rimpiange di non aver combattuto contro gli austriaci sotto la condotta di Pio IX. Non si spiegherebbero altrimenti le ebbrezze per Pio XI "il papa italiano". In questo ventennio i cattolici lavorano alla chiarificazione di se stessi, si sforzano di partecipare alla vita politica. Tra l'esigenza laica e l'esigenza ecclesiastica nasce il tentativo di conciliazione del Partito popolare che è un momento importante nella formazione del nostro spirito nazionale.
2. Ma né i liberali, né i socialisti, né i cattolici popolari trovano la via per la formazione precisa di ideologie politiche vitali per il futuro. I liberali non riescono a preparare neanche la risoluzione in campo tecnico e scientifico dei problemi presenti dello Stato (burocrazia, dazi doganali, finanze, problema meridionale). Salandra con le sue idee di stato laico ed etico non rappresenta in realtà altro che i suoi grandi proprietari terrieri e persino uomini di scienza come Antonio De Viti De Marco si appagano di un liberismo generico, favorevole ai consumatori e agli agricoltori del Sud senza pensare il problema integralmente nelle sue relazioni con l'industria e senza tener conto dell'opposta politica che il governo vien favorendo. Il pensiero di Nitti appare tra tutti il più chiaro come quello che ha coscienza delle transazioni a cui la lotta politica in Italia è condannata e che partendo da premesse liberali, per il fatto stesso di esser legato a clientele burocratiche e piccolo-borghesi meridionali, teorizza la funzione di compromesso della democrazia, e accettate dalla realtà le tendenze riformiste del socialismo, si propone di realizzare almeno in grande stile la premessa unitaria, di un governo integrale di collaborazione. Se Nitti fosse riuscito la guerra avrebbe raggiunto la sua conclusione ideale facendo per la prima volta sentire agli italiani la loro unità. Il paese avrebbe avuto dieci o venti anni di pace incolore e di progresso economico attraverso i quali la preparazione rivoluzionaria avrebbe trovato le sue garanzie di libertà. Fallito Nitti, il compito pare che voglia essere posto al fascismo da alcuni spiriti lungi veggenti come Dino Grandi; ma il pericolo, travolti gli elementi politici che inquadravano le esigenze popolari, e troncata la continuità, è che ci si fermi alla soddisfazione di clientele e all'annullamento delle differenze e delle libertà.
Dopo Nitti il livello della cultura dei nostri uomini di Stato, fatta eccezione per Giolitti che si potrebbe dire la sublimazione più rara e quasi unica dell'ordinaria amministrazione, sembra rappresentato dalla retorica costituzionalista di V. E. Orlando e di De Nicola, mentre la competenza e la finezza di uomini come Tittoni sono assolutamente eccezionali e incomprese. L'impreparazione è grave anche nel mondo della nostra diplomazia dove c'era un solo uomo non digiuno dei problemi della politica internazionale, lo Sforza.
3. Non migliori dai liberali sono gli sforzi teorici dei socialisti. La Critica sociale è sempre andata decadendo dopo un primo periodo eroico in cui rappresentò non già ideologie rivoluzionarie, ma appena le esigenze di una garanzia liberale ('98). Treves, Turati, hanno avuto efficacia come polemisti parlamentari, il primo per schemi grossolani di politica estera, il secondo con i suoi piani di ricostruzione interna fondati su considerazioni di pauperismo e speranze cooperativistiche. Matteotti e Schiavi, gli economisti del socialismo, non hanno più importanza che un articolista di giornale. I problemi sindacali sono stati trattati con qualche competenza e precisione dal Rigola, ma senza efficacia neanche divulgatoria. Le competenze dei molti Baldesi della Confederazione del lavoro sono miti che è prudente non indagare. Il solo pensatore del socialismo italiano contemporaneo è Rodolfo Mondolfo il quale ha studiato a lungo il materialismo storico, ma, quando dalla speculazione scende alla critica politica, non mostra alcuna fiducia nelle masse e nei suoi piani e nei suoi calcoli si occupa sopratutto delle classi medie. Di Enrico Ferri e delle sue leggendarie scoperte parrebbe ironico discorrere in sede politica. I sindacalisti (Labriola, Leone, ecc.) non hanno avuto né fortuna né originalità; pareva che il Labriola potesse diventare il capo dell'avanguardia, e disciplinare la lotta rivoluzionaria (egli mostrava invero competenze specifiche negli argomenti di marxismo) ma finì ministro collaborazionista. Il problema doganale che doveva essere centrale per un partito che s'ispirava a sistemi piccolo-borghesi e parlava ai consumatori fu ignorato da tutti fuorché dal Modigliani e da U. G. Mondolfo.
Gli studi del socialismo erano vittima di un curioso equivoco per cui non si esaminavano i problemi pratici e le riforme politiche per mantenere purissime le premesse rivoluzionarie e non si trovava poi nella realtà alcun impulso e appiglio per affrontare la crisi rivoluzionaria e preparare la coscienza alla risoluzione integrale del problema. La pratica riformista era perciò curiosamente priva di ogni lume della cultura e della tecnica, la predicazione rivoluzionaria s'inebriava di parole. Gli eroi di questi sistemi erano dopo il Ferri, pontefice massimo, i Lazzari, i Vella, i Morgari.
I riformisti bissolatiani tentarono di chiarire la situazione con una pratica apertamente liberale di critica al governo, ma mancava loro qualunque preparazione di studi: il Bissolati essendo soltanto un uomo di grande fede, un mazziniano d'ingegno, e il Bonomi conservando sotto le ambizioni l'animo di un conservatore.
Più interesse nella storia del nostro socialismo è l'esperimento Salvemini.
La posizione spirituale di Salvemini dal 1900 ad 1910 appare analoga alla posizione di Sorel, se appena si tien conto delle specifiche condizioni in cui doveva ridursi la lotta politica italiana per effetto dell'immaturità nel campo della storia e dell'economia. Ma il richiamo a Sorel non ci deve mettere in sospetto di rigoristiche premesse o di misteriose iniziazioni mitiche: perché il sorelismo che attribuiamo a Salvemini (e che prescinde in ogni modo da una lettura o da una accettazione o anche soltanto da una specifica influenza) lungi dall'avere un significato dogmatico vuol definire con precisione di rapporti storici la funzione critica che il Salvemini ebbe di fronte al movimento socialista nelle sue degenerazioni riformistiche e utilitarie.
Che se si volesse precisare il confronto in una questione di stile politico dovremmo finire con l'escludere decisamente nel Salvemini una vera e propria mentalità marxistica, anche se considerazioni critiche valorizzate dall'autorità del marxismo possano dargli giustamente ragione nella sua polemica con Turati. Sarà agevole mostrare come le idee direttive di Salvemini muovano da un'informazione del tutto diversa e si dirigano verso altri orizzonti. Smascherando il rivoluzionarismo verboso di E. Ferri e mostrando come alla rivoluzione si oppongano inesorabilmente condizioni obbiettive le quali consigliano di volgersi invece ad una lotta decisa ad ottenere le riforme politiche, Salvemini non faceva insomma che continuare la battaglia combattuta dai socialisti dal 1892 al 1901 per liberare i cittadini dal giogo dello Stato non conosciuto e del parlamentarismo estraneo e richiamandoli alla loro responsabilità, promuovere iniziative coscienti invece che illusioni demagogiche e parassitarie. Contro il riformismo denuncia i pericoli del Socialismo di Stato e si scaglia contro il parassitismo cooperativistico. E qui più che di marxismo si deve discorrere di realismo politico con netti riferimenti a un liberalismo radicaleggiante e con qualche accento di solidarismo. Riesce difficile al Salvemini nascondere l'impeto di affetti e di commozioni che lo porta all’indagine del problema meridionale. Talvolta il problema gli si presenta addirittura come problema morale e di educazione, ossia gli sfuggono i termini propriamente marxistici: e del resto raramente il suo marxismo è qualche cosa di più che un'antipatia verso le superstrutture ideologiche, un amore per i fatti, che in lui scende direttamente dal Cattaneo.
Tuttavia sotto il feticismo per i fatti e la morale della solidarietà e la preoccupazione costante per il Sud, si trovano nel pensiero dei nostro atteggiamenti e concetti più vari.
Alla sua adesione al socialismo non bisogna attribuire alcuna intenzione ideologica fuor della volontà di una lotta concreta contro tutti i privilegi: il motivo spiega anche esaurientemente il suo posteriore distacco. Ché se vorremo trattar qui delle più delicate questioni di personalità bisognerà confessare che proprio questo moralismo solenne che è il suo più intimo fascino, appare il segreto delle sue debolezze: la troppa moralità, l'assenza di una liberazione ascetica dai termini individuali e pessimistici del problema, sono i limiti della sua azione. Chiarificatore, schematizzatore, ma chiuso al senso degli imponderabili è troppo sofferente per riuscire un vero uomo di lotta. Gli è più facile descrivere un fenomeno che aderire al gioco sottile delle forze operanti.
Uscito dal socialismo senza critica e senza crisi il suo illuminismo si è chiarito come problemismo. Il suo problemismo è prima di tutto un canone descrittivo, un mezzo di capire. Cerca il fatto obbiettivo, prescindendo dalle sfumature, ignora le illusioni che presiedono all'opera. E' una concezione razionalistica e si risolve in un'azione illuministica e propagandista. Nella sua aridezza può essere l'oggetto di una Società di cultura, non il terreno per un'impostazione di partiti. E' una preparazione scolastica per la serietà delle classi dirigenti, ma non risolve il problema degli uomini e delle iniziative perché non dà il senso dell'azione e dell'intransigenza.
Del resto il problemismo in cui s'è venuta ad esaurire quasi tutta l'azione di Salvemini dopo il 1910 aveva anche il torto di non tener conto di certi elementi della sua mentalità e della sua capacità attiva che erano stati mirabilmente fecondi nel decennio anteriore. Bisogna credere che il distacco dal partito socialista richiamandolo ad interessi troppo specificamente regionali e ad un'opera quasi di predicatore gli abbia diminuita assai la sensibilità politica e la possibilità di valutare le forze e i limiti della concretezza che sono invece le qualità formidabili che caratterizzano nel momento più epico della sua solitudine e della sua azione nella lotta per il suffragio universale.
Confessiamo d'aver trovato nei saggi della Critica sociale e dell'Avanti! anteriori al 1910 uno stile molto più complesso e una volontà assai più preoccupata del ritmo dialettico della società che nei lucidi e coltissimi saggi seguenti che sono esenti da ogni ingenuità di informazione economica o di cultura storica, ma peccano appunto di troppo definitiva semplificazione. Negli anni di socialismo noi incontriamo persino certe professioni teoriche che sarebbero poi sembrate compromettenti o inutili al Salvemini tanto che egli se ne astenne costantemente. Eppure noi rileggiamo ancora con sorpresa e con cordiale adesione le sue critiche all'anticlericalismo, e lo seguiamo consenzienti quando egli dice che "la classe lavoratrice deve crearsi da se con le sue forze, i suoi diritti" e lo vediamo notare con singolare preoccupazione che "le moltitudini hanno un fondo inesauribile di misticismo e d'aspirazione al bene" o considerare pensoso "la meravigliosa forza di espansione morale che è racchiusa nella formula dell'ideale socialista". Alle aspettazioni utilitarie del mecenatismo governativo opponeva la "vera praticità delle grandi iniziative apparentemente disinteressate".
E' incontestabile che i motivi della sua critica al riformismo ministeriale ne rimanessero assai più profondi e vari. Il suo antigiolittismo, che può ora parere quasi donchisciottesco, ebbe appunto perciò un significato tragico ed eroico. In queste sue illusioni e in questi miti si trova una profonda capacità realistica. Come non preferire la prima fase della lotta contro il socialismo di stato quando in questa Salvemini è interamente preoccupato dal pensiero di evitare che le aristocrazie diventando oligarchie siano assorbite dal ministerialismo e ne vengano così disgregati gli strumenti di lotta del partito operaio e la stessa unità della classe: mentre in seguito riduce tutte le sue lagnanze a una questione di giustizia? Nessun dubbio che fosse quella veramente la via maestra per un'azione politica non fittizia; in quanto soddisfaceva le necessità tattiche di coordinane la marcia delle avanguardie con quella del grosso dell'esercito e poneva le precauzioni più evidenti per impedire la formazione di mediocrazie al posto delle vere élites operaie. Rinunciandovi, Salvemini passava da Marx e da Cattaneo alla democrazia. Il motivo più valido del suo apostolato rimase la sua posizione concretamente unitaria di fronte al problema meridionale; una posizione di franco liberismo nonostante certi spunti platonici di propaganda educativa.
In realtà il Salvemini ebbe il torto di non elaborare la sua critica al rivoluzionarismo in una decisa posizione rivoluzionaria; questo è il punto morto del suo regionalismo e del suo liberismo. La concessione del suffragio universale e della proporzionale furono la sua sconfitta irreparabile. Il suo moralismo istintivo poteva rimanere rigoroso sinché gli toccò la parte di vittima. Fatta alla Camera dei Deputati, la sua campagna epuratrice ed educativa ha un sapore di ironia e manca del suo fascino centrale. Il ritmo dell'azione deve inseguire attraverso gli scopi concreti un'illusione trascendente, o l'ideale di un'autonomia infinita, la liberazione che viene dagli istituti giuridici e dalle stesse riforme politiche è solo una molla ad agire e non significa nulla senza la forza delle iniziative. Il chiaro razionalismo di Salvemini era tratto invece a veder esaurite e attuate le iniziative nel momento in cui si conquistavano le riforme ossia si lasciava sfuggire l'insegnamento più realistico del movimento operaio: un insegnamento liberale di intransigenza. Però la medaglia ha i1 suo rovescio: Salvemini direttore dell'Unità ha diritto ad un posto centrale nella storia della cultura politica italiana; il suo insegnamento etico non si può ammirare senza un senso di stupore. Ma questa inchiesta esula dai limiti di una critica del socialismo.
(continua) PIERO GOBETTI.
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