IL TRIONFO DELLA DIPLOMAZIA

    Contro il semplicismo schematico della politica antinglese dei nazionalisti e contro il generico sentimentalismo antifrancese, lo Spellanzon offre in una serie di studi modesti e diligenti le linee culturali direttive di quello che dovrebbe essere il pensiero di una democrazia intelligente. L'influenza del Salvemini vi si avverte costante, mentre tutta la narrazione è affatto esente dall'astrattismo ideologico dei pacifisti e dalla sicumera progettista dei critici di Versailles. Gli elementi storici vi sono vagliati con sobrietà, la preoccupazione realistica minuziosa appena si potrebbe rimproverare per la monotonia e per il completo difetto di suggestioni stilistiche.

    Si constata senza ridondanti lamentazioni 1'ostinato isolamento dell'Europa, ormai decisa a non ritrovarsi ma lo sguardo non è fisso sino al fondo inesorabile della tragedia. Una naturale simpatia guida l'autore nell'esame della rigorosa formazione liberistica dell'Impero inglese, moderatore di ambizioni (Crespi), come nel rapido sguardo alla democrazia tedesca, intesa a salvare la pace, e alla Russia bolscevica che deve difendere la rivoluzione. Come l'amore cela il tradimento siffatta simpatia altera l'equilibrio della narrazione quando non è concessa in egual misura alla Francia, tormentata dall'ossessione della sicurezza, o all'America, chiusa nel suo isolamento. Per certi giudizi nessuna preparazione più cauta dell'ascesi. Anche il paradosso, francese ha le sue giustificazioni democratiche. In realtà la politica estera del dopoguerra non è ancora cominciata. E mentre la tela non è tessuta nessuna soluzione deve esser compromessa. L'isolamento reciproco è un sistema per mantenere l'equilibrio valido come la politica delle alleanze: esige una diplomazia più fine e un'abilità più pregiudicata. Del resto la caratteristica generale della nuova politica internazionale è nella volontà esperta di ognuno di non decidersi, di non considerare come punto di partenza nessuno dei risultati raggiunti, di confidare nel futuro: per cui né da Versailles né da Genova vennero fuori nuove combinazioni di potenze o accordi di direttive. Nel gioco reciproco di nascondersi, la politica estera fotografa le convulsioni interne ed esclude la mutua confidenza. A guardar bene le cose questa incertezza inconcludente non è dannosa e bisogna congratularci coi nostri ministri degli esteri che non si stancano al gioco. La ragione centrale di turbamento potrebbe sembrare l'entrata dell'America e del Giappone nella storia e il premere dell'India sulla politica inglese: ma invece di parlare del tramonto dell'Europa bisogna vedere il disordine come frutto di una necessaria diffidenza reciproca. Le soluzioni più evidenti sono, in tali frangenti, le più semplicistiche che nulla risolvono e soltanto introducono semi di discordia aprioristici inaderenti ai reali interessi: il blocco delle nazioni proletarie dei progettisti non fa che constatare l'esistenza di un mondo dilacerato con Russia, Germania, Italia in crisi di depressione e America Inghilterra in crisi di eccesso di produzione. Ora la lotta dei debitori contro i creditori sarebbe la soluzione estrema e disperata che riaffermerebbe la scissione in modo anche più doloroso, mentre l'equilibrio deve mirar a combinare nel modo più sapiente creditori e debitori.





    Una politica wilsoniana da parte dell'Italia a Versailles (nel senso che la voleva Salvemini riecheggiato qui dallo Spellanzon) avrebbe costituito forse uno dei termini fissi della riorganizzazione, avrebbe offerto un punto di direzione e di convergenza alle nazioni deboli e indecise (Piccola Intesa, Penisola Balcanica, America del Sud) senza escludere l'esigenza della laboriosa dialettica. Perché la mera aspirazione nittiana all'unità del mondo, mossa da intelligenti apprezzamenti sulla Germania, trascura il terreno realistico su cui gli avvenimenti si svolgono; l'impossibilità di distruggere certe naturali differenze. Per esempio è molto probabile che sia più democratica la Francia di Poincaré che la. Francia dell'Ere nouvelle. Qui non si pretende di condannare i popoli ma è evidente che Francia e Germania sono ridotte irremediabilmente a delle posizioni statiche e preconcette e l'America pare che ne voglia seguire l'esempio, sicché solo all'Inghilterra, all'Italia, alla Russia, fallito Wilson, viene a spettare, per opposte vie e secondo opposte esigenze, la funzione delicata delle comunicazioni e dei movimenti in un mondo rigido.

    Versailles è dunque una tregua nel senso più completo e oserei dire normale della parola non solo non è una pace, ma esclude la pace, che dovrà esser preparata e realizzata a poco a poco in un lavorio di decenni dai diplomatici. Se non intervengono decisioni avventate, nonostante i problemi intricatissimi delle riparazioni della penisola balcanica, della Russa, della eredità dell'Austria, l'Europa s'avvia, appunto a una lunga parentesi di pace duratura (a parte i piccoli conflitti locali). Di che la ragione non va ricercata nelle sue stremate forze, ma nell'estremo buon senso (non paia ironia) prevalso in questi anni di dopoguerra, nell'assenza di ogni posizione intransigente, nell'effettiva unità dell'Europa sentita universalmente anche se ognuno dei governi crede di fare una politica nazionalista. In effetti dalla politica estera del dopoguerra sono stati esclusi affatto gli avventurieri (ultimamente persino Venizelos) e abbiamo assistito per quattro anni a una singolare fermezza di nervi, a uno spinto di ascesi non venuto meno neanche attraverso le inconclusioni di decine di conferenze internazionali! Tutti son divenuti naturalmente diplomatici, e chiusa la partita di una discussione ne vogliono aperta un'altra: scopo essenziale non già l'espandersi, ma il neutralizzar l'avversario. Veramente sotto il cinismo dei diplomatici bisogna riconoscere che uno spirito di carità cristiana nuovo ha pervaso tutta l'Europa, né dovremo lamentarci se si mostra come finezza e tatto invece che con dichiarazioni di simpatia: da quattro anni gli uomini di stato agiscono col più sublime disinteresse e tanto è il fascino di siffatta atmosfera che persino il bellicoso Mussolini fu fatto mansueto a Territet da poche parole di Lord Curzon e da un sorriso di Poincaré. E' naturale che ognuno nasconda gelosamente la buona volontà sotto il decoro dell'occasione, ma in realtà chi osò cogliere una delle migliaia di occasioni per una nuova guerra manifestatesi dopo Versailles? La lentezza: questa è l'arma per cui la diplomazia del dopo guerra viene spiegando i suoi diabolici disegni di pace mentre i popoli non sognano che di uccidersi. Altro che politica estera fatta dai parlamenti! Solo gli aristocratici sanno realizzare la democrazia.

    Queste premesse offrono una base organica per chi voglia esaminare criticamente la politica estera dell'Italia in questi quattro anni. Nel giuoco comune noi avevamo per natura una delle posizioni più mobili e spregiudicate. Non si seppe comprendere il forte nostro interesse al disinteresse. E' chiaro che la sicurezza dell'Italia dipende dalla sua politica di alleanze, dalle simpatie che riesce ad alimentare e non dalle... concessioni orientali; è chiaro che anche una politica nazionalista è ammissibile soltanto se noi riusciamo a non esser soli, ad inserisci a un sistema di forze. Ciò fu compreso soltanto dallo Sforza che realizzò prudentemente, la politica d'accordo non la Piccola Intesa; rovinata dal Della Torretta questa che era la sola politica organica, il meno peggio è pure sempre il piano di Schanzer, che si appoggian all'Inghilterra, non potendo disporre della enorme riserva di iniziative e di imprevisti che la Russia, per esempio, può far agire in India, in Asia Minore, in Europa centrale quando assume un atteggiamento antinglese. Noi manchiamo, oltre tutto, di una tradizione di diplomatici: ebbimo nel Risorgimento il Cavour della guerra, non abbiamo saputo produrre oggi al momento opportuno il Cavour della pace: Salvemini, Sforza capirono, ma Salvemini è un teorico, Sforza un diplomatico, né l'uno né l'altro un politico. Bisognava saper giuocare. sul wilsonismo: la politica delle nazionalità oppresse che ci aveva fatto vincere la guerra ci avrebbe fatto vincere la pace.





    Riuscirà Mussolini? si chiedono gli ingenui italiani. Mussolini è già fallito a Territet, per una questione di psicologia. Il carattere del diplomatico non è quello del capo-partito come ben compresero Lenin e Trotzchi che preferirono mandare a Genova l'esperto Cicerin, capace di nascondere la politica sotto l'impenetrabile sorriso del demiurgo. Mussolini è piuttosto attore che artista, piuttosto tribuno che statista: la sua inferiorità in un consesso internazionale di impenetrabili è palese poiché egli non sa che specchiarsi nella propria enfasi; la sua eloquenza, la foga del polemista, non sanno battersi sul terreno delle ironie e dei sottintesi, restano smontate appena dal comizio e dalla sala di scherma si passi all'arguta conversazione ed alla snervante schermaglia insidiosa delle parole. (1). L'esercizio quotidiano di scherma prepara eccellentemente chi si disponga a vincere al decimo assalto, ma con certi lord Curzon della politica europea accade che non si riesca ad impegnarli a fondo neanche dopo cento riprese - Sassone o Nadi non riescon più sufficienti maestri! L'Italia farà una politica estera quando saprà sostituire all'entusiasmo il cinismo.

Piero Gobetti.

    7 gennaio 1923.

    Gli ultimi avvenimenti provano

    1) che la spavalda bravura di chi vuol sottrarsi all'astuzia dei diplomatici non riesce ad inserirsi nella realtà (Mussolini);

    2) che a non capire le sfumature e le necessità all'indecisione si possono correre pericolose avventure: Bastò l'ingenua enfasi di Mussolini per mettere in forse l'equilibrio e la pace europea;

    3) che l'Italia deve destreggiarsi appoggiandosi almeno all'Inghilterra;

    4) che dopo tutto noi contiamo poco, e neppure i più grossi spropositi riuscirono a perderci;

    5) che neanche il rigorismo finto di Poincaré, unito alle rinunce mussoliniane riesce a compromettere la pace di cui l'Europa ha bisogno ad ogni costo.



(1) Manca tra noi persino una letteratura consapevole dei valori e delle caratteristiche che formano il perfetto diplomatico. I saggi più agili sull'argomento restano i quattro articoli di Ansaldo da Genova pubblicati dalla R. L.
Perché Tittoni e Sforza non scrivono le loro memorie?