VIAGGIO IN ITALIA

I disertori impuniti

    Avezzano, 24 settembre.

    Sono andato all'Incile del Fucino, dove le acque del collettore si precipitano nel cunicolo che le conduce al Liri. Alessandro Torlonia, compiuta l'opera, eresse sull'Incile una statua a Maria Immacolata, e vi appose una lapide.

    La lapide è bella. "Maria sine labe concepta"... è scolpito in testa alla lapide a caratteri cubitali. Mi piace la finta modestia del principe romano, che fa scolpire il nome di Maria a caratteri tanto più grossi di quelli adoperati per il suo. Le finte virtù degli uomini sono infinitamente più interessanti della virtù. "Maria sine labe concepta auspice…", Con l’auspicio di Maria Immacolata, l'opera invano tentata da imperatori e da re, Alessandro Torlonia principe romano con ingente forza d'animo e di decoro la cominciò nell'anno del Signore 1868, la finì nell'anno del Signore 1878".

    Bella lapide dunque. Ma la statua dell'Immacolata, non c'è più.

     - E la Madonna dov'è?

    E' là, dice il guardiano, accennando a dei frammenti abbandonati fra le erbe del viottolo.

    E' venuto il terremoto del '15, e la statua cadde nella conca d'acqua sottostante, e si frantumò. Ripescarono il globo su cui il piede divino schiaccia il serpente, ripescarono la testa e il seno castamente ravvolto nella tunica, ripescarono il troncone del ventre: e questi miseri resti li piantarono là, all'ambra dei pioppi. Li sono da otto anni.

     - E perché non rimettono la madonna a suo posto?

    Il guardiano fa una faccia rebarbativa, che tira gli schiaffi come la calamita tira i pennoni.

    E ci sono ancora dei Torlonia, pel mondo? E sono principi romani, e reggeranno il baldacchino nelle processioni papali! Rimettete sull'Incile la madonna di vostro nonno, nobili dei miei stivali! Queste mancanze di rispetto verso la pietà degli avi, mi offendono, me plebeo: che diritto avete voi di godervi il vostro palazzo di Roma, se non sentite l'obbligo di difendere la dignità dell'opera più gloriosa che un Torlonia abbia compiuto? Siete come quegli altri principi romani che nell'inverno del '17 si stabilirono al Palace Hotel, perché nel loro palazzo di Piazza Apostoli non c'era l'impianto di caloriferi. Ma le Guardie Regie, o disertori, il palazzo di Piazza Apostoli e i pingui poderi del Fùcino non ve li salveranno per un accidente!

P. P

    Subiaco, 29 settembre.

    (Monastero dello Speco)

    Il cosiddetto Monastero è così schiacciato sotto le rupi incombenti del monte di Morra, che vien proprio fatto di alzar la testa in su, per vedere se siamo al sicuro. L'identico atto lo fa una statua di marmo di San Benedetto, posta in fondo al cortile: alza la testa in su, ma in più, lui che è santo, fa un gesto risoluto di protezione di proibizione. E sotto c'è scritto: "Ferma, o rupe: non minacciare i figli miei".





    Io desideravo ascoltare una bella storia di miracoli, e mi volsi al frate cuciniere, che mondava le suo patate, con un corvo malandato accoccolato sulla spalla: uno dei corvi tradizionali, che sono mantenuti nel monastero, in memoria di quelli che portavano le vecce a San Benedetto pregante nello speco.

    Il frate cuciniere degnò appena d'una guardata la statua del povero Santo. E invece mi disse: "C'era no scojo, na vorta, che volava venissene giù, a rovinare tutto. Ma il Ministero lo fece toiere. C’è dev'esse pitturata ancora la data. Vedete, lassù sulla roccia? 187... L'urtimo numero nun se vede, è già annato via".

     - Povero San Benedetto, che continui a implorare dal Cielo la grazia già elargita dal Ministero!.. Almeno questi tuoi figli, "i figli tuoi", avessero la grazia di nascondere l'intervento ministeriale sotto qualche frangia!

     - No, no, signore, fece ancora il frate cuciniere. Anzi, ebbe la bontà di alzarsi, di venirmi vicino, con un gorgoglio di catarro mezzo ironico per San Benedetto:

     - Ho sulla statua, ve dico. Lassù, sulla roccia. 187... L'urtimo numero doveva essere otto. Milleottocentosettantotto.

    Ma il corvo disturbato dal movimento della spalla e del braccio che si innalzava per segnare, si arrabbattò gracchiando per terra, starnazzando con le ali mozze lungo il saio bisunto.

    Il Partito Popolare ha la stessa fede di quel frate sbardellato, e i richiami della Curia di Roma ai Vescovi e ai Parroci sano gracchiate di corvi.

    Ma il Papa di Milano non fa neppure più da corvo, perché - anche lui! - più che nella misericordia di Dio, crede nella onnipotenza di Mussolini.

Gli ultimi baroni.

    Subiaco

    Monastero dello Speco, 30 settembre.

    Questi due o tre giorni di foresteria benedettina sono i miei primi giorni di campagna.

    In Italia, in Abruzzo, non si incontrano che città. L'Abruzzo è una regione tutta di città. Scanno è una città, Pescocostanzo è una città, Penne è una città, Opi è una città. Per capire tutta la singolarità di queste città inchiodate sui monti, basta confrontarle a Tortona, a Stradella, a Desio: questi sono mercati. Quando i fascisti del contado vi fanno le concentrazioni, essi non sentono nessuna vibrazione, nessuna sottile rimembranza del misterioso orrore del contadino verso il luogo murato. Essi sono i figli dei fittabili che occupano il mercato.

    Ebbene invece: la Valle Sacra dei Benedettirni sublacensi è "campagna" in mezzo all'Italia cittadina e murata. I monasteri del Sacro Speco e di Santa Scolastica sano dimore baronali, nel contado.

    Solo l'ordine benedettino, io penso, ha questo carattere baronale e cavaliere. Precursori della coltura occidentale, essi si accampano dinanzi alle porte della città antica, ma non vi entrano: anche i Germani sul Reno si accampano più volte dinanzi alla città romana di Strasburgo, ma non vi entrano. Soltanto i Francescani e i Domenicani costruiscono nella giovane città gotica: ma le loro costruzioni sono malinconiche, nostalgiche: come i palazzi eretti dai baroni, rimpiangono il castello nel contado. I Gesuiti eccoli finalmente, i cittadini convinti, senza malinconie e senza nostalgie del contado: ecco l'ordine monastico che solo può affrontare l'aridità della pietra sulla pietra, del muro contro il muro, della strada lastricata e dei panorami di tetti. Goethe, lui, se ne accorse bene di questa allegria gesuitica di vivere in città. Leggete le prime pagine degli Italiénische Reise, la descrizione del collegio dei Gesuiti di Regensburg.

    Per godervi dunque un po' di vera campagna, tenetevi cari i Benedettini.

    Dal rosaio di San Benedetto, si vedon giù, in un campo sassoso, tre uomini che lavorano di zappone: e solo il rumore dei sassi percorsi varia il mormorio dell'Aniene. Solo perché sono nel castello baronale di San Benedetto, nel roseto del signore del luogo, accanto allo Speco che testimonia la legittimità e la continuità della signoria, considero quei tre faticoni come gente di contado, rustici, coloni: tutt'al più, contadini. Se non avessi tutto questo sussidio del monastero e dell'Ordine benedettino, mai più mi azzarderei a nutrir tanto orgoglio.

    Ma ditemi un poco: qual paradossale paese è mai questo, in cui per sentirsi signori bisogna farsi frati!

Di nuovo la zattera della Medusa.

    Roma, 30 settembre.

    Ecco ancora la Sala dei Passi Perduti, ecco ancora i divani scesi: primo, secondo, terzo... Sul terzo sono accosciati i banditissimi. Gli stessi, nello stesso posto.

    Essi discorrono fiaccamente, sempre, con le stesse notizie e gli stessi commenti. Bandi, olio di ricino, incendi di cooperative, cacciata di amministrazioni, complicità delle autorità, debolezza del governo, partigianeria della magistratura, e poi le solite smanie, i soliti aneliti, i soliti sospiri.





    L'unico cambiamento apprezzabile, da quindici giorni a questa parte, è nella persona del "farinella". Quest'oggi non è l'on. De Bellis che con le sue barzellette distrae i banditissimi è l'on. Graziadei.

    Uno dei banditissimi mi chiede dell'Abruzzo, e di quello che ho visto: ma io cambio discorso, perché mi pare che sia crudele portare sensazioni nuove attorno a quel divano rosso, attorno a questa zattera di un regime e di un partito. Certo le mie immagini e i miei ricordi sono poca cosa: ma anche il Pochettino prudente della favola, nel pericolo del naufragio, ammoniva il compagno: "Non pisciare in mare! Tutto fa per fare affondare la barca".

    FINE.

GIOVANNI ANSALDO.