IL PARLAMENTO

    A questa pagina forte e serena del Fortunato noi siamo dubbiosi se apporre come data il 1900 o il 1923.

    Succede in Italia un fatto straordinario. Senza sentimento religioso, siamo giunti a creare un partito clericale; senza un largo strato di lotta di classe, abbiamo alimentato un gran partito socialista, quasi dappertutto gli amici dello Stato si trovano innanzi avversari dichiarati e decisi della presente costituzione politica. Viviamo in giorni di dubbio febbrile, e ognuno è commosso meno del ricordo dei tristi fatti cui abbiamo assistito, quanto della oscura visione di quelli cui andiamo necessariamente incontro. Che nome dobbiamo dare a un ribollimento così inconscio, ma così largo, degli spiriti?

    Oggi perciò non si tratta più di un discorso: è l'ora delle confessioni. Che cosa vuole il popolo italiano? Chi lo sa, chi può dire con sicurezza di non ingannarsi, quello che pensi e che voglia il popolo italiano! Chi può intendere chiaro in tanta Babele, come nella torre che i figliuoli degli uomini tentarono di erigere, migliaia di anni fa, sulle rive dell'Eufrate! Un grido solo io raccolgo, ovunque io vada: "abbasso i deputati!". E questo grido, che sino a ieri soltanto i nemici della patria osavano levare, si stende ogni giorno più, acquistando forza e valore, assumendo autorità e consacrazione politica. Su dieci persone, cinque almeno vi rispondono: "il paese è stufo dei deputati". Chiedete loro degli autori d'ogni male? Eccoli, i deputati. "Su via, abbandonateli a sé stessi, lasciateli che si divertano da soli, che precipitino dalla ribalta alla platea; voi, elettori, astenetevi": sogghigna e suggerisce il giornale, molto ben pensante, del capoluogo della provincia. E l'altro del circondario, non meno temerato, lodando e commentando la cartolina postale del "Pungolo Parlamentare", bellissimo lavoro d’arte del nostro Petroni: "o non indovinate voi la fiera allegoria che è in quella maschia figura di aratore, esasperato dalla tarda, indolente infingardaggine de’ buoi insieme aggiogati?" I deputati! Abbasso, urrah! – Dacché mondo è mondo tutte le reazioni sono incominciate così.

    Ardua, troppo ardua impresa sarebbe riassumere le ragioni per le quali in Italia si è tanto estesa l'avversione contro il sistema parlamentare. Quel che è innegabile, e solo importa, è l'accertamento del fatto: ossia, che noi, anzi che scorgere nella rappresentanza che ci siamo eletta la propria immagine migliorata e la propria coscienza purificata, non vi ravvisiamo ormai se non la fecondazione di tutte le debolezze, le esagerazioni di tutti i vizi, di tutte le infermità, di tutti i guai di casa nostra. Lo scetticismo che è il fondo del nostro carattere, e che a torto il Giacosa esalta come l'assenza, nonché di pregiudizi, di tutti i preconcetti o meglio, come uno spirito critico, un vedere largo e libero negli aspetti del vivere sociale, mentre, a parer mio, non è, purtroppo, se non un congenito difetto di ogni convinzione; lo scetticismo è giunto fra noi allo stato acuto, e non manca chi consigli estremi rimedi: quasi tutti concordano nell'affermare, che se negli italiani la memore gratitudine per Casa Savoia è forte, non è men vero "si aspetti dall'alto l'esempio di una eccezionale energia", in lingua povera, qualche cosa che somiglia al "colpo di stato". Le nostre istituzioni sono intangibili, meno, a quanto pare, quella che più essenzialmente è nostra, che esce da noi, che con noi dovrebbe vivere la vita di tutti i giorni, di tutte le ore. Che cosa è il Parlamento? si domandavano ora è poco, due pubblicisti, molto noti, di parte moderata. "La feccia – meno poche eccezioni – del paese", rispondeva il primo. E il secondo: "nutricola causidicorum, come Giovenale diceva dell'Africa: o non ha esaurito il suo compito anche in Inghilterra, ov'è di formazione storica e sorretto da una educazione secolare che manca da noi?"





    Certo, senza far teorie di diritto costituzionale, la tendenza piazzaiola di denigrare il parlamento, di fronte al potere esecutivo, è prova manifesta della scarsa educazione, della ottusa coscienza del paese. E per questo io temo assai dell'ora presente: temo che l'Italia, da un momento all'altro, possa essere colta da uno di quegli impeti di impazienza nervosa, di parossismo isterico, in cui una nazione, stanca delle sofferenze patite, creda intollerabile ogni indugio, e tenti a un tratto rinnovar tutto, o tornando al passato o buttandosi a capofitto nell'avvenire. Nessun pericolo maggiore, per un popolo come il nostro, che lasciarsi vincere dall’illusione di estremi subitanei rimedi, accusando d'ogni male il regime che abbiamo, solo perché gli uni lo giudicano monco, gli altri o soverchio od eccessivo.

    Il problema del parlamentarismo è uno dei più gravi che non solo in Italia, ma dappertutto faticano la mente dei pensatori e commuovono il cuore delle popolazioni: esso costituisce una questione di vita o di morte per un istituto quale è quello della rappresentanza nazionale, che gli uomini della Rivoluzione, nell'intento di creare una giustizia che fosse al disopra degli interessi, han creduto, imitando l'Inghilterra avere assicurato alla civiltà moderna. Oggi sembra non si possano più nutrire tutte le speranze, che avevano accompagnato il primo sorgere del regime parlamentare nel continente europeo, perché ovunque esso attraversa una crisi che lo ha screditato agli occhi del volgo, cui pare, a cagion sua, di non essere governati; e non essere governati è come vivere in uno stato di anarchia, fuori – come direbbe il Rousseau – del contratto sociale. L'istituto parlamentare, avvertono i più, funziona male, perché è stato male interpretato e peggio attuato. E' venuta meno ogni guarentigia di coerenza e di unità nell'azione del governo, perché il governo non ha più né forza né stabilità; esso è servo dei deputati; i quali, dal canto loro, dipendono dal capriccio, dall'interesse particolare degli elettori. Come provvedere? Col mutar la forma dell'elettorato, no, certamente: tutti metodi che mirano a meglio organizzare il suffragio, come il voto plurimo, il cumulativo, il progressivo, hanno il peccato originale di essere congegni artificiosi, i quali contraddicono, più o meno apertamente, all'indole stessa del sistema. Non c'è se non una via di salvezza: poiché il vizio si occulta nella vaga determinazione de' poteri attribuiti ai corpi elettivi, il rimedio deve solo consistere nel richiamare l'istituto al suoi principi, restituendo alla Corona, il diritto effettivo, non solo formale, di nomina e di revoca dei ministri.

    Questa, voi sapete, è la teoria predominante nel campo conservatore, secondo cui si dovrebbe sostituire al governo di gabinetto, quale si è esplicato in Italia dal 1848 ad oggi, l'istituto del cancelliere irresponsabile dinanzi al Parlamento. Strana teoria di ateismo costituzionale, appena concepibile in un paese come gli Stati Uniti, ove la responsabilità è tutta del capo dello Stato! Un governo rappresentativo che non sia parlamentare? Ma in Francia se ne fece già l'esperimento, sotto il secondo Impero che finì a Sedan. Un governo semplicemente costituzionale e non anche parlamentare, come il tedesco e l'austriaco? Ma è un sentenziare sulle semplici apparenze, fingendo ignorare, che se in Germania e in Austria i governi sono meno mutevoli, l'azione legislativa non è punto né più sicura né più coerente: le stesse difficoltà, e qualche volta più aspre e difficili. Nel fatto, continuerebbe o no il Parlamento ad avere il diritto di veto sui ministri? Se si, non s'intende quale sia l'utilità del provvedimento. Se no, ecco in ballo la responsabilità giuridica e politica del Sovrano. Bel frutto – grazie a coloro che pure, da mane a sera, fanno professione di ortodossia monarchica!





    Oh, è ben più alto, più profondo il problema! Esso, con amore assiduo e tenace, va studiato nella riforma del costume nazionale, nel rinnovamento di tutta la nostra vita morale e sociale di cui la politica è l'apparenza esteriore. Bisogna raddrizzare e purificare l'anima della nazione, obbligandola, costringendola a conoscer meglio sé stessa prima, a parlar chiaro dopo. Niente è più necessario di ciò. L'universale dilatarsi degli intrighi di stato, osserva il Ferrero, la mancanza di giustizia amministrativa, la poca severità nell'applicazione delle leggi, l'abuso dei favori e delle protezioni, sono mali che hanno cause più generali e tormentano governi assoluti come il russo e paesi liberi come l'Italia; anzi, se un paese come il nostro è afflitto da questi mali, le istituzioni parlamentari servono, sino a un certo punto, a temperarne la forza: se il Parlamento non fosse, noi avremmo, come in Russia, da un lato una amministrazione anche più accentrata, senza controllo, irresponsabile, corrottissima, e dall'altro l'intercessione delle amanti, dei camerieri, dei ciambellani di corte, di tutti i grandi funzionari potenti a Palazzo. Il Parlamento non morrà in Italia, solo perché molti o pochi invocano il ritorno al governo assoluto. Ma se vogliamo che esso non si riduca a una scuola di servitù, e l'elettore e il deputato non finiscano per mistificarsi a vicenda, cosicché l'uomo di governo speculi su di essi e li domini padrone, dobbiamo attivamente adoperarci a risollevarne il prestigio. La forma parlamentare, sia lo Stato a monarchia od a repubblica, rimane e rimarrà a lungo la forma naturale, necessaria, dei governi civili. E' debole, è malato il regime parlamentare – che è pure il solo regime in cui le società civili possono, a un tempo trovare tutela dei diritti individuali e la dignità della vita sociale? Ebbene curiamolo, mostrando di conoscere la fisiologia delle odierne istituzioni politiche; ossia, che se una virtù ha il governo rappresentativo è quella appunto di riverberare, con efficacia i pregi e i difetti essenziali di un popolo, il quale, con cambiare di abiti, non cambia né di cuore né di mente. Curiamolo, perché non possiamo abolirlo, perché anche potendolo dovremmo soffocare la pubblica opinione; sopprimere la stampa, il telegrafo, le ferrovie; perché in fine, anche riuscendo a disfarci di tutta la storia da cent'anni in qua, noi non avremmo che cosa sostituire ad esso. Tutti abbiamo interesse a rialzarne le sorti, tutti dobbiamo volerne la salda restaurazione, se non vogliamo vedere discendere il nostro paese a pari della Turchia o, per altra via, di una o due repubbliche americane del Sud. Lasciamo che altri ripeta le solite scempiaggini intorno al passato e inneggi alla bontà dei regimi paterni, all'autenticità delle antiche magistrature, alla santità dei vecchi costumi, etc. etc., tutte fole di gente assolutamente ignara o perché nata ieri o perché ha dimenticato, in tutto o in parte, il nostro passato prossimo e remoto. Siamo parlamentarmente deboli, perché manca tra noi l'elemento integrante d'ogni buon governo libero; la pubblica opinione, la vera, non quella dei giornali, non quella dei caffè e dei circoli, meno di conversazione, che di giuoco e di mormorazione; e manca perché non ancora siamo riusciti a leggere nell'intimo nostro essere, ad acquistare quell'intuito delle idee medie proporzionali della realtà, a cui soltanto, dice l'adagio greco, gl’iddii hanno dato una forza infinita di bene. Siamo parlarmentarmente malati, e le istituzioni rappresentative agiscono tra noi in modo poco conforme al loro spirito, perché mezzo il Regno non ha ancore condizioni sociali abbastanza corrispondenti ad esse, e troppo i governi possono ancor premere là per l'appunto, ove la ricchezza e la cultura sono più scarse, ove il concetto della libertà, è sempre quello delle remote civiltà orientali, ossia, di una esigua minoranza che si imponga, con la violenza o con la frode, alla grande maggioranza. Certo, nessun paese è più essenzialmente democratico del nostro, perché nessun altro ha più spontaneo il senso dell'eguaglianza. Eppure in nessun altro lo spirito democratico agisce più scarso e lento. Perché? Perché tra noi la vita politica, priva di ogni solida e larga corrente di opinione pubblica è organata come l'antica nostra vita letteraria: sul fondamento delle accademie. Or volete che il Parlamento cessi, magari, di essere la massima delle nostre accademie? Non tollerate più che altri lo denigri, e fate voti che dall'alto e dal basso, il più presto possibile, si ritorni alle sane norme costituzionali. Tutta l’importanza eccezionale del momento che traversiamo, è in questo appunto. In questo, più che nella condanna, severa e giusta, di tutti gli eccessi della estrema Sinistra. Se il Parlamento sparisse, se le discussioni – deplorevoli fin che vi piaccia – tacessero, chi può garantire non succederebbe la vera e propria guerra civile, per le piazze e per le strade?

GIUSTINO FORTUNATO.