FERRARA CONTRO CAVOUR

per la libertà del credito bancario.

    Per apprezzare i termini in cui veniva la questione della libertà del credito bancario in Piemonte veniva posta è d'uopo ricordare che, ancora nel 1846, il governo aveva rifiutata l'autorizzazione ad un istituto di sconto, dicendolo lontano dalle consuete abitudini e destinato a certo fallimento. Soltanto nel 1847 il permesso era accordato, in considerazione pure del buon esito avuto dalla Banca di sconto, depositi e conti correnti creata in Genova fin dal 1844. Ma le diffidenze ed i timori permanevano, in molta parte del pubblico; nè cessarono quando, a secondare le correnti unificatrici e pacificatrici dello Stato dopo Novara e la rivolta di Genova, i due istituti convennero di fondersi, e nacque la Banca Nazionale Sarda (1849). Incerte risultavano d'altro lato, rispetto al miglior ordinamento bancario, le conclusioni della dottrina, dopo le recenti, clamorose controversie che avevan divisi in due campi gli stessi rappresentanti del classicismo inglese. E l'esempio dell'atto di Peel forniva certo un argomento singolarmente autorevole ai fautori delle prudenziali restrizioni. Un riflesso di tale augusto precedente devesi scorgere, credo, non meno negli statuti del '49 e del 1850, assai vincolatori della libertà della Banca nazionale, che nell'autorizzazione conferita alla medesima dalla legge 11 luglio 1852 di concorrere alla formazione di due casse di sconto indipendenti, a Torino ed a Genova; per tal modo attuandosi, per diversa via, la separazione di funzioni e di regime consacrato nell'issue department e nel banking department della Banca. d'Inghilterra.

    Aveva, par vero dire, disposto la legge 9 luglio 1850 che nessun altra banca potesse sorgere in Piemonte, se non per legge. Ma il monopolio che così era stato accordato all'ente privilegiato non significava, come parrebbe, privativa di credito; bensì soltanto volontà dello Stato di impedire che l'emissione - considerata allora come diritto naturale, di qualunque banca - potesse esercitarsi senza preventivo controllo. Personalmente favorevole a promuovere con tutti i mezzi il più rapido sviluppo delle operazioni creditizie (fu lui a presentare al ministro il piano di banca del 1846), giustamente valutava Cavour la forza degli ostacoli ed il peso delle opportunità, mirando per un verso ad educare gradatamente il pubblico in tale senso, e non dimenticando per altro l'importanza preponderante dei fini politici ultimi, a cui tutta la sua azione, palese e segreta, era rigidamente subordinata, e che imponeva di assicurare allo Stato il concorso della banca in frangenti di supremo bisogno nazionale.

    A simili precedenti, concetti e direttive s'inspirarono le misure che, proseguendo per gradi un piano organico, il gran ministro recò, fra il 1851 e il 1857, in Parlamento; alle quali la critica del Ferrara manifestamente si riferisce.





    Una prima ampia discussione suscita nel 1851 la proposta del privilegio di emissione alla Banca nazionale, contro la quale parlano Farina, Valerio, De Pretis, Pescatore, Bottone, Fara Forni, Barbavara e Chiarle, a favore di Cavour, Torelli e Josti. Ma il dissenso non raggiunge la sostanza. Nessuno sostiene l'opportunità di una banca unica nello Stato. Tutti anzi, ed il governo più degli altri, esplicitamente dimostrarono il desiderio che vi possano allignare e prosperare rigogliose le locali e succursali. Temono però gli oppositori che il favore largito al grande istituto escluda virtualmente l'eventualità di concorrenza; onde il vanto di avere rispettato il principio della libertà, e pluralità delle banche si ridurrebbe ad illusione ed equivoco. E basta tale dubbio perché la legge naufraghi, ricorrendo gli avversari alla manovra ostruzionistica di far mancare il numero legale. Ripreso il dibattito nella sessione seguente, Cibrario Luigi, nuovo ministro delle finanze, rispondendo al deputato Mellana, spiega come, soltanto dopo aver sperimentata l'impossibilità di una libera iniziativa bancaria in talune regioni (Sardegna) il governo si sia deciso a provvedervi mediante succursali autorizzate dall'Istituto di emissione. Ma l'estrema sinistra incalza, censurando l'obbligo che si vorrebbe fare alla banca di accordare anticipazioni allo Stato in date circostanze; sistema che procura al governo mezzi estranei al preventivo controllo parlamentare finanziando talvolta conati liberticidi, come avvenne in Francia, il 2 dicembre. Da un punto di vista tecnico critica invece il progetto Giovanni Lanza, trovandolo ibrido, troppo favorevole al tempo stesso e troppo vincolatore dell'ente privilegiato. Ultimo Camillo Cavour, parlando come deputato, difende il disegno, mostrando con l'esempio inglese, che una grossa banca non impedisce il sorgere di molte piccole; ma sostenendo che la disciplina delle emissioni, quanto alle riserve ed alle garanzie, è indispensabile ad evitare catastrofi in momenti di crisi. La regolamentazione deve però limitarsi a fissare l'entità proporzionale del capitale e della copertura metallica, evitando di fissare il massimo della circolazione, la quale si ragguaglia automaticamente al bisogno del mercato. Con qualche emendamento la legge risulta questa volta approvata. Una più grossa battaglia la attende tuttavia in Senato, dove giunge poco dopo, insieme ad un altro progetto cavouriano per la delega alla banca del servizio di tesoreria dello Stato. Vivace si annunzia subito il contrasto, avendo concluso sfavorevolmente il relatore Carlo Ignazio Giulio, in base alle considerazioni da lui più ampiamente svolte in uno dei più pregevoli fra i suoi scritti economico-polemici. Adeguata alla forza ed alla nobiltà dell'attacco è però l'eloquenza e la sapienza della difesa, che Cavour si assume subito, compendiando in una magnifica sintesi i postulati teorici e la portata pratica delle due opposte scuole bancarie. Fra i principi assoluti a cui si ispirano egli non crede si imponga una scelta intransigente. La legge proposta in Piemonte avrà forse per effetto di impedire, in fatto, la molteplicità degli istituti di emissione, ma ciò risponde alla necessità di accreditare, con la notorietà e l'importanza, un mezzo di pagamento dì cui la parte più incolta del popolo ancor non apprezza pienamente i benefizi. Alla Banca nazionale viene così affidata una funzione educatrice conforme ai bisogni di un ambiente finora non troppo propenso, come la esperienza dimostra, allo spontaneo sviluppo delle iniziative bancarie libere. "L'onorevole relatore, ha ricordato come le dottrine di libertà applicate alle scienze economiche riescano più grate al cuore di tutti gli uomini illuminati, e soggiungeva che questo indizio del cuore è dalla mente confermato, dalla scienza certificato.

    Certamente non sarò io che contraddirò queste generose parole: Credo aver dato, in parecchie circostanze, ripetute prove di quanto io fossi tenace fautore delle libere dottrine delle scienze economiche. Ma non bisogna abusare delle parole. La parola libertà applicata alle operazioni ordinarie di commercio può e deve ricevere la applicazione più larga possibile ma vi sono certe operazioni economiche che, per l'indole loro, non possono essere lasciate in assoluto arbitrio del pubblico. Vi sono molte funzioni che possono e debbono essere dal governo esercitate; a cagion d'esempio l'ufficio del trasporto delle corrispondenze e lettere. Io credo che i fautori più decisi della libertà non abbiano mai proposto di far sottentrare l'azione privata alla governativa in questo ramo, che direi pure di industria e di trasporto. Nella costruzione di strade ferrate nessuno pure, nemmeno gli americani, hanno ammessa la libertà assoluta. Ora le operazioni bancarie, quelle almeno che si riferiscono alle banche di circolazione, sono di natura specialissima, non sono semplicemente commerciali".





    Che sia còmpito dello Stato ingerirsi nella emissione dei biglietti, lo si ammette ormai ovunque. Cobden, Mc-Culloch, Stuart-Mill ("che a mio avviso è il primo autore vivente di economia politica") non criticarono l'atto del 1844.

    "Io credo quindi di potere, senza disdire ai principi che ho sempre propugnati, sostenere l'opportunità di dare una maggior forza ad una grande banca del nostro paese, di dare in certo modo se non un privilegio di diritto, un privilegio di fatto".

    Taceva il ministro, certo deliberatamente, il segreto proposito di apprestare pure nella banca un valido appoggio finanziario ai meditati ardimenti della audace partita politica, di cui intesseva in silenzio la formidabile trama. Volontaria reticenza di cui approfittavano i men perspicaci fra i suoi avversari (Della Torre, Collegno, lo stesso Sclopis) per ricordargli i pericoli a cui si espone, in tempo di guerra, un istituto di credito troppo intimamente legato alle sorti dello Stato. Si sofferma invece il Giulio a confutare il giudizio favorevole dell'atto del Peel, ricordando le deroghe che vi si dovettero ripetutamente consentire. Il verdetto finale del Senato suona approvazione della tesi più recisamente liberista, seppellendo la legge con 32 voti su 60.

    Chi, dopo oltre mezzo secolo, legge, non senza profonda ammirazione, un dibattito che potrebbe assumersi ad indice della magnifica preparazione di quegli uomini all'ufficio ond'erano investiti deve riconoscere che l'opportunismo fattivo del ministro, mentre scientificamente anticipava un punto di vista oggi pacificamente accolto anche dalla dottrina più ortodossa, ebbe in pratica la consacrazione del più glorioso successo, allorquando la banca, auspice il Bombrini, non esitò a prestare allo Stato, in momenti supremi, un prezioso concorso.

    Nella Croce di Savoia del 1851 (6 e 7 giugno) scriveva invece il Ferrara: "Ciò che noi vediamo di più chiaro in quelle combinazioni si è l'enormità di guadagno che, sotto l'ombra del privilegio, gli azionisti della banca non mancheranno di spartirsi fra loro. E non ci fa poca meraviglia il vedere come il conte di Cavour, il quale si dimostra tanto propenso a favorire e promuovere il principio della libertà nello svolgimento della umana industria, si disponga ora con tanta disinvoltura a recedere da quel principio in ordine alle istituzioni di credito alle quali, secondoché ci sembra, più ancora che a qualsivoglia altra manifestazione dell'umana industria, si addice l'elemento della libertà; a niun altra cosa ci sembrano convenir meno che al credito i privilegi, il monopolio, l'ingerenza governativa e l'impero della legge".

    A mano a mano poi che da nuovi provvedimenti la condizione di favore della banca parve rinforzata la severità della critica raggiunse il diapason di una vera esasperazione. Basta il semplice sospetto che dalla libertà del saggio dell'interesse potesse derivare un vantaggio agli azionisti della banca per schierare inattesamente il Ferrara fra i censori del contrastato disegno. Alle repliche del ministeriale Piemonte rispondeva infatti l'Economista accusando apertamente il governo di voler corrompere coi suoi giornali la pubblica opinione per difendere un detestabile tornaconto privato, e denunziando i secondi fini malvagi che lo inducevano a porre in prima linea delle riforme proprio la più invisa alla ignoranza del popolo. "Un Governo centralizzatore quanto mai ve ne furono al mondo; un Governo che non ha il coraggio di sopprimere i monopoli del porto di Genova; un Governo che vede, impassibile, la perpetuazione di tutti i vincoli alla libertà del lavoro, tramandataci dall'antica legislazione; un Governo che prende a dispetto ogni menoma idea suggerita dalla più benevola stampa per operare prudentemente ma fermamente l'emancipazione economica; un Governo che, coi più generosi programmi economici sulle labbra, non conta in pratica (all'infuori delle Dogane) un atto di cui la scienza possa essergli grata, questo Governo è tutt'insieme preso d'amore per la libertà dell'usura, l'ultima che si potesse proporre, la più difficile a farsi amare, non direm dà partiti maligni, ma dalla più ingenua porzione del pubblico. Era ben naturale il sospetto che qualche cosa diversa dal puro amore della libertà, qui si celasse". Gli ufficiosi che si schierano in sua difesa non raggiungono altro effetto che di screditare la scienza di fronte al giudizio volgare. "Ci chiamano uomini di teorie. Noi lo siamo, e dell'esserlo ci facciamo un onore. Ma di teorie noi non ne abbiamo che una: la Libertà ; l'abbiamo sopra le labbra con la stessa tenacità e con lo stesso fervore con cui la coviamo nel cuore. La professiamo in tutto e per tutti, mai non l'abbiamo indebolita, celata, e molto meno venduta. In materia di credito i fatti che accadono nella Società sono precisamente la base su cui l'abbiamo fondata, non noi, ma uomini che sapevano di fatti bancari molto più di quello che si potrebbe impararne alla Borsa di Torino. E del resto se vi ha, riguardo a’ banchi una teoria astratta e scolastica è quella del Piemonte perché è la più comune e antica fra gli scrittori economici. Siamoci più generosi a vicenda; diciamo di appartenere a due scuole diverse; difendiamo ciò che ci sembra la verità: ma evitiamo agli occhi degli inesperti lo scandalo di discreditare lo studio della scienza... Altrimenti il pubblico finirà per conchiudere che tutto è vanità teoretica in questo mondo, e che il solo fatto reale sarebbe la borsa di chi scrive o fa vivere certe Cronache della Borsa".





    Ma a codeste schermaglie succede un attacco formale quando, nel 1856, la camera è chiamata a discutere un disegno di legge che autorizza la Banca nazionale ad aprire una sede succursale in Cagliari, con l'incarico di riscattare, con una apposita circolazione a corso legale, la massa di carta a corso forzoso che ancora si usava nell'isola, obbligandosi d'altro lato il tesoro a ripagarne ratealmente l'importo al banco, nel termine di un ventennio. Consenziente nella necessità di liberare quel mercato di un così dannoso residuo, il Ferrara insorge contro le modalità dell'operazione finanziaria attraverso la quale si propone di attuarla, e specialmente contro la concessione di un interesse del 4 % alla banca sulle somme anticipate per conto dello Stato, in forma di biglietti. Il totale della carta circolante in Sardegna è forse di 450.000 lire, che si vogliono estinguere subito, salvo a sdebitarsi verso la banca con 20 rate annuali di 32 mila lire, fra capitale e interessi. Si può invece ritirare ogni anno direttamente per 32.000 lire di biglietti, sopprimendoli così tutti in 14 anni. Nel primo caso il tesoro perde 189 mila lire, che vanno a pro della banca, in corrispettivo di un servizio ipotetico, non essendo punto dimostrata l'urgenza di operare il ritiro tutto a un tratto. D'altro lato alla banca viene accordato il privilegio di porre il piede in Sardegna, "paese sitibondo di credito", ciò che pure vale qualcosa. Si provi sul serio a provocare la concorrenza di altri capitalisti, e si vedrà che più d'uno sarebbe dispostissimo a pagare per ottenere tutte le 450 mila lire necessarie all'operazione di riscatto. Dunque l'intenzione di favorire illecitamente gli azionisti dell'istituto prediletto risulta anche troppo palese. "La legge è una di quelle piccole leggi le quali pare che tutto adoprino per passare inosservate... Un titolo modesto, anzi locale: un'intenzione, nonché innocente, benefica; un interesse di pochi milioni, da cui lo Stato non raccoglie che agevolezze e profitti; una materia vecchia quanto può essere vecchio e triviale un povero che impronta ed un ricco che presta; sono meriti tali, che quasi parrebbe importunità sprecare il tempo per discuterla". Ma nell'apparente modestia si nasconde l'insidia. Perché tutto il progetto non è che un contesto di monopoli subdolamente instaurati, quasi ad eludere il voto col quale il parlamento ne pronunziò la condanna nel 1852. "II ministro delle finanze, tra cento meriti incontrastabili, per quali non gli neghiamo la lode d'uomo di Stato non mediocre, ha una debolezza cioè un amore indomito per i banchi privilegiati: amore sfortunato, grazie al prof. Giulio, al Senato; e pare che, come tutti gli innamorati, non potendo entrare per la porta, voglia entrare per la finestra. Non mi voleste concedere il gran monopolio della Banca-mostro nello Stato, datemi una Banca privilegiata in miniatura a Cagliari. Datemi il principio, le conseguenze verranno da sé". La Sardegna deve fare le spese dell'operazione. Bisognosa di capitali per la sua redenzione economica, essa dovrà pagarli al tasso usurario imposto dal banco esclusivo. "II solo fatto che essa conierà moneta, cioè getterà in commercio carta con corso legale, basterà ad impedire qualunque altra intrapresa di credito che voglia stabilirsi in Sardegna. Sappiamo che la grande dottrina della libera concorrenza è uno degli articoli di fede del nostro ministro delle finanze, ma qui veramente cade in taglio domandare: quid fìdes sine operibus?... Noi certamente non faremo giammai ai nostri legislatori l'oltraggio di supporre che per essi la Sardegna sia un campo libero di sperimenti strani, quasi l'animan vilem degli empirici; ma, se si ama tanto sperimentare, l'unico sperimento veramente grande e nuovo da fare in Sardegna, e da cui un ministro raccoglierebbe larga messe di gloria e benedizioni, sarebbe quello d'una libertà economica franca, compiuta, illimitata come la scienza lo consiglia e natura lo comanda. Paese senza commercio, fatene il portofranco dell'universo. Paese povero, dovete aprirgli le cento porte del credito libero e universale... Paese senza industria, dovete spronarlo all'opera coll'attività della concorrenza, non coll'oppio del privilegio; amenoché non vogliate imitare quegli altri singolari civilizzatori della Sardegna, i quali, per diminuire l'ignoranza del popolo, non sanno specular meglio che diminuire il numero delle scuole, e per accrescere la sapienza, abolire l'Università di Sassari". I banchi liberi, più che coi prestiti, daranno impulso all'economia dell'isola educando al deposito la diffidenza dei piccoli risparmiatori. Nell'ambiente primitivo della Sardegna, la banca, se non monopolistica, potrà ripetere i prodigi che compie nel nuovo mondo, dove "appena il pioniere ha diradato tanto della selva da potervi piantare una capanna, al domani le si alza daccosto un ufficio postale, un banco ed una cappella, cioè ne prendono possesso l'industria, le comunicazioni, e la religione; e con questi tre geni dell'umanità, sotto le ali della libertà, in mezzo al deserto, sorge la Repubblica degli Stati Uniti".





    L'incongruenza dei criteri accolti dalla proposta ministeriale emerge d'altronde anche meglio quando, nella discussione parlamentare, i fautori del progetto (fra cui Bolmida e Cavour), dopo aver esaltati i benefici che un forte banco centrale assicura all'economia di un paese, respingano la richiesta di chi vorrebbe renderlo altresì collettore di depositi fruttiferi. La superiorità dei grandi banchi unici sui molti piccoli è una vieta superstizione; i maggiori dissesti si ebbero nei primi; mentre il sistema scozzese della pluralità e libertà fu un magnifico successo. Vero è che posteriori emendamenti migliorano a poco a poco il testo primitivo, accogliendosi dalla camera buona parte delle idee svolte dal Ferrara (indipendenza dell'operazione finanziaria dal concorso della banca; precarietà del corso legale, partecipazione dello Stato agli utili eccedenti un minimo; autorizzazione, con certe cautele, dei depositi fruttiferi); non perciò egli disarma. "Noi una cosa sola avremmo ancora desiderato: che la legge si fosse definitivamente respinta. Perché è indubitato che essa ingrandisce e consolida la Banca nazionale, che gode di fatto un privilegio esclusivo, rendendo illusoria quella libertà che nominalmente si ha nel paese di mettere su delle nuove istituzioni di credito. Ora questa situazione è perniciosa. Dovrebbero i legislatori combatterla sempre invece di consolidarla; dovrebbero, a forza di resistenza passiva, costringere il Conte di Cavour a rivolgere in favore del sistema di libertà l'ingegno, le cognizioni, la potente dialettica, il calore talvolta della passione che ha saputo così bene impiegare, o, secondo noi, così sventuratamente disperdere, in favore del monopolio. Il Senato è ancora a tempo a frapporre il suo veto, e veramente, se volesse non obliare i suoi precedenti, sarebbe tenuto di farlo. Noi non siamo neanche certi che il conte Cavour prenderebbe come una disfatta per sé un tal risultato, perché abbiamo diligentemente seguito il filo delle sue idee, pesato le sue parole, e ne riportiamo la convinzione che egli non è contento di trovarsi trascinato a difendere un sistema, in cui è ben lontano dall'aver la fede che il bisogno della difesa gli ha fatto esprimere. Niuno meglio di lui sa il lato debole degli argomenti che ha scelti; e noi siamo pratici assai dell'indole sua per saper lusingarci che non potrà lungamente persistere in una linea, che non è fatta per lui".

    Deluso nella speranza (forse ironicamente espressa di una resipiscenza dell'onnipossente ministro il critico rivolge i suoi strali contro coloro che della legge eran stati i più ascoltati difensori: primo fra tutti il banchiere Bolmida contro i1 quale egli inizia un'aspra campagna allorché, poco dopo, un gruppo da lui capitanato (Bolmida, Barbaroux e De la Rue) ottiene dallo Stato vaste concessioni di terre e di privative per la colonizzazione sarda. Nel parlamento italiano si offrono al Ferrara, nel 1867 e nel 1874, nuove occasioni di combattere con foga giovanile il monopolio bancario e la attribuzione del servizio di tesoreria. Ma, dopo il 1880, anch'egli rinuncia, di fronte alla realtà, all'inflessibile negazione della banca di emissione unica e privilegiata.

    Miglior riabilitazione certo non avrebbe potuto sperare il magno spirito del ministro, anatemizzato trent'anni prima, per il suo veggente relativismo.

GIUSEPPE PRATO.