L'AGRICOLTURA DELLA CALABRIA

    Questa regione calabrese, che, separata dal resto d'Italia dal massiccio apenninico del Pollino, si protende, montuosa, e lunga per oltre 240 chilometri, fra i mari Tirreno e Jonio, sino al Capo Spartivento, ha una sua vita economica non corrispondente a quella che la natura le aveva destinata.

    Essa ha una distesa di coste di 800 chilometri, le quali si adagiano sul mare piane, ovvero in esso scendono ripide, offrendo naturali approdi, e lasciando credere che lungo esse debba vivere una popolazione marinara, prosperarvi la pesca, la navigazione e le industrie del mare.

    Ma commercialmente non si approda là dove l'uomo non ha preparato opere che assicurino dall'insidie marine, e che garantiscano il traffico interno: e queste opere mancano del tutto in Calabria. Nei sedici paesi toccati dal mare si è cercato di migliorare lo stato degli approdi con lavori iniziati e non compiuti, destinati pur sempre alla piccola navigazione, come boe d'ormeggio, pontili o banchine d'approdo. Fra questi restano ancora luoghi ove il carico dei velieri vien compiuto facendo galleggiare sino ad essi, da terra, le botti piene d'olio. D'altra parte presso coste così lunghe le zone abitate sono poche. L'uomo ha dovuto fuggire il mare che bagnava le grandi città della Magna Grecia, e che è sempre elemento di ricchezza per altri luoghi: esso è fuggito, ha chiesto rifugio alla salubrità delle colline e dei monti, perché, là dove la montagna, allontanandosi più o meno dalla riva, lascia una zona in piano, questa è infestata dalla malaria che vince l'uomo, l'indebolisce e l'annienta, e sopprime insieme parte della produzione di quel piano, dei benefici di quel mare.

    È proprio così. Queste onde, glauche o azzurre, che comprendono, da tutti i lati, questa terra di Calabria, non sono la ricchezza di questo popolo. Il quale dal mare nulla riceve, e nulla per esso trasmette, facilmente ed economicamente.





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    Sarà ricca la Calabria per le sue alte e belle montagne: nello schienale che la percorre tutta, e che si allarga nel magnifico altipiano sfilano, per formare poi il monte della Serra e il terminale massiccio dell'Aspromonte. Ovunque sono cime e pendici ricche di foreste superbe, d'acque copiosissime, di minerali preziosi, d'aria pura, saluberrima, vivificatrice. Ma chi sa, chi conosce il valore, e vuole utilizzarlo, di tutti questi doni della natura, se non è dato giungervi senza strade?

    La guerra ha scoperto le foreste per farne scempio; congiungendo punti lontanissimi, e sconosciuti quasi, mediante una corda d'acciaio, attraverso baratri e distanze enormi, sulla quale legnami preziosi han trovato la via della loro utilizzazione, e i boschi uno sfruttamento non sempre razionale. Le acque di queste sorgenti montane non hanno trovato alcuna applicazione: non per irrigare il piano, non per fornire salutare, agognata bevanda ai moltissimi paesi che non ne hanno. Esse dilavano le pendici defraudate dal bosco, e portano nel piano la desolazione e la malaria.

    Poche utilizzazioni idroelettriche servono solo, timide, ad illuminare qualche paese. Un grande impianto, quello che raccoglie i fiumi Arvo, Ampollino e Neto, è per compiersi in parte, a formare quei laghi silani, che daranno l'enorme forza di diecine di migliaia di cavalli, la quale andrà in Sicilia ed in Puglia: verso questa regione è in costruzione la grande linea aerea di trasporto ad alta tensione. La Calabria ammirerà quest'opera grandiosa di sfruttamento di una sua ricchezza a vantaggio di altre regioni, senza poterne profittare per dar valore ai suoi monti e ai suoi prodotti.

    Il sottosuolo calabrese ha, latenti o poco utilizzate, ricchezze minerarie. Esse vanno dalle cave di salgemma di Lungro alle marne zolfifere del Cotronese, dalla limonite di Stilo alla galena del Catanzarese e di S. Donato, ove è pure il cinabro. In più luoghi si trova lignite; abbondano le pietre da ornamento, marmi, graniti e porfidi, come i materiali calcari e da cemento. Si esportano da Parghelia arene pregevoli per la lavorazione delle maioliche e dei vetri.





    Chi non ha visto i monti della Calabria non può concepire il fascino di una vegetazione di elevata altitudine in zona meridionale, con tutti i vantaggi che questo clima moderatamente fresco offre all'uomo che voglia risanare la propria salute. Ebbene, appunto per le difficoltà enormi di accesso in quei luoghi, è rara in essi la permanenza di quella moltitudine di persone, che accorre in altri posti, dove è ricca l'iniziativa privata e il soccorso statale, dove la natura è più povera.

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    Qui è povero l'abitante. Indici di questa miseria sono, non solo la bassa ricchezza media risultante dalla statistica, ma ancora la parsimoniosa frugalità nell'alimentazione, gli scarsi comodi del viver civile, che esso si concede, e la terribile corsa verso le nazioni transoceaniche.

    Se gli Stati Uniti d'America hanno quasi impedita dall'Italia l'immigrazione, i nostri concittadini partono come prima, diretti agli Stati del Sud-America, specialmente Argentina, Brasile, Uruguay.

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    In questa regione che dal mare sale ad altitudini di oltre duemila metri, in una larghezza media, fra Jonio e Tirreno, di 50 chilometri, si ritrovano varietà enormi di terreni, di clima, di colture, di costumi e patti agrari, di ripartizione della proprietà. Le grandi tenute, i cosidetti latifondi, sono nel piano e nella montagna, mentre nella zona di media altitudine, che è quella meglio e più intensivamente coltivata, la terra è ripartita fra medie e piccole unità culturali, ed è in mano, in gran parte, del piccolo proprietario, coltivatore diretto.

    Dunque quella che si chiama "questione del latifondo" investe la Calabria per una estensione discretamente importante in rapporto alla superficie totale della regione, e più alla quantità di terreno agrario.

    Sono le zone del piano e dell'alta montagna quelle che offrono questi nuclei culturali estesi da 300 a 1000 ettari. La storia conta in parte nell'origine del latifondo; né essa è causa dell'odierna sua esistenza; né questa può, moltissime volte, imputarsi a malvolere del proprietario.





    Là dove la possibilità di coltivarne proficuamente il terreno si riscontrava, con la facilità d'accesso e la salubrità del posto, quasi sempre il latifondo è scomparso con la suddivisione in mano di diretti coltivatori, ovvero esso si è trasformato in ottime aziende; ove è possibile, e utile, un'agricoltura in grande, con macchine e con allevamenti di bestiame: e in questo caso nulla consiglierebbe il danno di una ripartizione di quelle vaste aziende. Latifondo da risanare è oggi quello posto a grande distanza dai centri abitati, o quello sito in piano in balia delle piene dei torrenti, della palude e della malaria. Esso è, per queste ragioni, sottratto all'iniziativa e al lavoro dell'uomo: e non chiede leggi che l'"aboliscano", ma strade agrarie, case, sistemazioni idraulico-montane, lavori e protezione igienica, capitali. Così risanato soltanto, esso troverà automaticamente la sua trasformazione.

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    Perché qui va ricordato che, quando, venti anni fa, un terremoto funesto assunse il compito di rivelare le deficienze di opere pubbliche in Calabria, e di narrare come e quanto noi fossimo stati lasciati colpevolmente indietro, una legge stabilì una serie di provvedimenti, atti a sanare quelle deficienze.

    Scarse le vie rotabili e le ferrovie; una parte enorme del territorio, circa centomila ettari, da bonificare idraulicamente; i monti da rimboschire o da rinsaldare; i torrenti da costringere nel loro alveo; nessun approdo sicuro; un terzo del terreno infestato dalla malaria; centinaia di paesi senza acqua, senza scuole, senza cimiteri, privi di qualsiasi strada!

    Quella legge offrì rimedio in parte a mali così profondi, ma essa è oggi applicata solo per poco.

    Non deve così recar sorpresa se le grandi qualità dell'individuo scompariscono, in questa bella regione, nella lotta continua con tutti gli elementi contrari.





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    Non vogliamo calcolare quanto di meglio e dippiù la Calabria offrirebbe alla produzione nazionale se le venisse dato tutto quel necessario che ad essa manca di lavori pubblici e di istruzione agricolo-professionale. Sarà facile intenderlo a ciascuno che si soffermi sui dati che seguono, e che mostrano quali sforzi è capace di compiere questa popolazione calabrese, in ambiente difficile, nel solo campo concesso alla sua attività, l'agricoltura.

    L'intero territorio, di 15 mila chilometri quadrati, può considerarsi ripartito in tre grandi zone. La prima, estesa all'incirca 400 mila ettari, comprende la pianura, sino ad un'altitudine di 100 metri, vi si coltiva l'agrume e l'olivo, è quella più battuta dalla malaria. Nella seconda zona si coltiva anche l'olivo, ma abbonda in essa il fico e la vigna; è quella collinare, che va sino a 500 metri d'altezza, ed è estesa per 500 mila ettari.

    Le altitudini superiori sono comprese nella terza zona, ove sono i restanti 600 mila ettari di superficie, dei quali un terzo sopra i mille metri. È questa la zona del castagno, dei boschi, della segale e del pascolo di montagna. Estesa più di ogni altra coltura, e a volte in terreni poco favorevoli, o inadatti del tutto, è quella del frumento. Essa occupa 240 mila ettari, e dà una produzione media unitaria di quintali 5 per ettaro, fornendo, verso l'intera nazione, queste proporzioni: estensione coltivata a grano in Calabria circa 1/25 di quella italiana, prodotto 1/50! Le altre graminacee occupano circa 70 mila ettari: importante fra esse è la segale, cereale delle zone alte, alimento principale pei contadini delle montagne.

    Le colture da rinnovo occupano meno di 100 mila ettari, e hanno scarsa importanza: potrebbe essere migliorata molto, ed estesa, la coltura della patata che trova sulla Sila ambiente ottimo.

    Per inadatti sistemi di rotazione agraria, per lo scarso uso di concimazioni, è poco estesa lo coltura d'erbe da foraggio e di prati; nell'insieme hanno un'estensione inferiore ai 100 mila ettari. Il bestiame, nella quasi totalità ad allevamento brado, si alimenta nei pascoli spontanei, di piano nell'inverno, o di montagna in estate: essi si calcolano intorno a 400 mila ettari.





    Non si può con precisione segnare la superficie dei boschi; essi dovevano, prima della guerra, misurare forse circa 200 mila ettari. Fra i quali è compresa la parte di castagneti non destinata a frutto. Sono 90 mila ettari coverti a castagno, con un prodotto medio annuo di quasi 750 mila quintali di castagne: in questa produzione la Calabria è solo inferiore alla Toscana e al Piemonte.

    Ma la ricchezza produttiva dell'agricoltura calabrese è data dall'olivo che copre 130 mila ettari. Esso è il re del piano, ma è pure, col fico e col gelso, l'albero della collina. Dà, in media, circa 500 mila quintali di olio, che, in rapporto alla produzione totale italiana, di quintali 2.060.000 (media dell'ultimo decennio), ne è la quarta parte; e che, al prezzo, non quello elevato odierno, ma di un anno fa, in L. 700, dà pure l'enorme somma di 350 milioni di lire.

    L'agrumeto ha un'estensione di quasi 10 mila ettari con una produzione media che tocca un milione di quintali di aranci, pel valore di oltre cento milioni di lire: ai quali va aggiunto quanto si ricava dai cedri, dal bergamotto e dalle essenze relative, nonché dall'agro di limone: ed è pur molto se si pensa che l'essenza di bergamotto si vende a 160 lire il chilogramma.

    Continuo incremento ha la coltivazione del fico: pianta rustica, che trova, nei terreni aridi e argillosi della collina e nel clima caldo, il suo ambiente. Se ne hanno, in buona quantità, i pregiati e noti fichi secchi, ben quotati all'estero. Così questa del fico trova posto fra le colture più redditizie della regione.

    La coltura del gelso alimenta l'industria dei bozzoli da seta, pei quali si può calcolare un prodotto annuale di 25 mila quintali di bozzoli crudi, pel valore, in quest'ultima stagione, di oltre 65 milioni di lire.





    Ha grande importanza nell'economia locale l'allevamento del bestiame. Questo è costituito da 200 mila bovini, 150 mila suini, 800 mila pecore e 400 mila capre. Riferendoci a numero di animali per chilometro quadrato, si rileva che nella Calabria vi è minor quantità di bovini che in Italia; quasi ugual numero di suini, ma circa 1/3 dippiù di ovini e caprini. Si esportano nell'Italia centrale i vitelli e gli agnelli da carne, e là ugualmente trova smercio parte del formaggio prodotto e la lana delle pecore.

    Va ricordata in ultimo la coltura della radice di liquerizia, perché è quasi un'esclusività calabrese e siciliana. Il succo di essa, esportato in Inghilterra e in America principalmente, dà molti milioni di reddito.

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    La maggior parte dei prodotti calabresi, frutto di un'agricoltura antica e poco curata, l'olio, i fichi secchi, le castagne, le frutta, gli agrumi, le essenze, la liquirizia, i bozzoli e le sete, le carni, i formaggi, le lane, si consuma altrove, e contribuisce all'approvvigionamento della nazione. Ma taluni di essi, specialità del luogo, son destinati all'esportazione, e avevano guadagnato, pel loro solo merito, importanti mercati esteri. Oggi l'esportazione non è quella d'anteguerra: cause politiche profonde la fanno languire. Ma tuttavia costituisce sempre una cospicua entrata di valuta preziosa nella nazione.

    Ma quanto dippiù essa darebbe se potesse mettersi a pari delle progredite province d'Italia!

    S'immagini una Calabria sistemata nel piano e nel monte con criteri locali, che abbia facilità di comunicazioni ed economia di noli di trasporto; con assicurata possibilità di permanenza in pianura, o nelle campagne lontane da centri abitati, per sufficienza di ricoveri, e per garanzia igienica.

    Quando, opportunamente istruita, in quello che deve e le conviene sapere, e guidata da apposite stazioni sperimentali, essa potesse sfruttare, industrialmente ed espertamente, i suoi prodotti, si avrebbe una Calabria rigenerata. Ma questo non è soltanto un problema economico: è un problema di politica generale.

FRANCESCO GENCARELLI.