Capitalismo e libertà

Milano napoleonica

    Nei recente saggio dell'antico Raffaele Ciasca sull'Evoluzione economica della Lombardia dagli inizi del secolo XIX al 1860 (Milano, 1924, vol. edito dalla Cassa di Risparmio, per il centenario), trovo elementi decisivi per il problema dei rapporti tra capitalismo e libertà.

    Consideriamo il primo periodo: l'economia lombarda durante il dominio francese.

    Nella Lombardia della fine del '700, tutte le riforme che potevano essere compatibili con un Governo paternalista di tipo illuminista antifeudale erano state attuate. Liberazione dalla tirannia delle corporazioni d'arti e mestieri, abolizione delle manomorte, scioglimento dei fede commessi, ecco le grandi riforme della politica giuseppina. Ne risultò un'atmosfera legale favorevole alla proprietà frazionata e mobile. I nuovi capitali della nascente borghesia si impiegarono nelle terre: le statistiche danno un notevole afflusso dalla città alla campagna, specialmente verso la pianura del Po.

    Nelle città invece, a Bergamo e a Milano, abolita l'oppressione del regime feudale si assiste a uno sviluppo industriale, notevole specialmente nella manifattura della seta. Ma questo sviluppo è artificiale, dovuto in gran parte alle esenzioni fiscali. Sotto il regime austriaco che coincideva colle feste, e col lusso dell'aristocrazia, uno sviluppo industriale serio non era concepibile per mancanza di capitali, maestranze e commerci mondiali.





    L'Austria era ostinata nel protezionismo doganale, necessario per l'equilibrio artificiale e il paternalismo intervenzionista con cui teneva in piedi l'Impero già scosso.

    La nuova borghesia milanese doveva essere per reazione democratica e doveva tendere a un riordinamento politico della penisola che le aprisse i mercati della intera pianura padana.

    Questi interessi nuovi affiorano infatti nel tempo della Repubblica Cisalpina: si complicava però con un altro fenomeno: l'instabilità degli affari, l'atmosfera di avventura del dopo-guerra. È nell'ambiente di libertà e di spregiudicatezza portata dai francesi che si forma, con i caratteristici sistemi che si sono esperimentati in più alto rilievo nell'Europa del 1919, il primo capitalismo italiano. Capitalismo figlio di libertà. Milano conosce intorno al 1800 gli arricchiti di guerra, i fornitori militari, gli speculatori, i dissipatori di fortune troppo presto raggiunte. Lusso, strepitoso rialzo dei consumi, gioco degli inflazionisti, speculazioni sul cambio tra Milano e le provincie. Erano i miracoli ignoti dell'aumentata velocità di circolazione del capitale. Il Governo francese riscuoteva nel Regno d'Italia 180 milioni di lire annue d'imposte e ne spendeva 145 in Italia per le forniture militari e per la burocrazia. Il regno dei pescicani e degli impiegati; plutocrazia e classi medie!





    In questo periodo trionfano uomini nuovi, agili, intraprendenti; la Banca acquista una grande influenza sulla vita sociale; la borghesia sbalza di seggio l'aristocrazia delle feste e delle mode esotiche, impone le nuove mode della Parigi imperiale, si fa maestra di eleganza a tutte le classi sociali, conquista i poteri municipali, compra terre e palazzi dalle famiglie nobili, tagliate fuori dalla vita nuova, dai loro pregiudizi e dalla loro educazione. Osti, caffettieri, pasticcieri, pizzicagnoli, si arrichiscono sul traffico incessante portato dai militari, le modisterie guadagnano sul gusto per il lusso esteso a tutte le classi sociali. Notevole è l'incremento edilizio sia della città che delle case private: e anche, di qui derivano nuovi lavori, nuove imprese, nuove fonti di arricchimento per i più audaci e per i più pronti.

    Questo esperimento infernale di nascente capitalismo fu turbato da un gruppo di circostanze connesse con la situazione politica.

    Il nuovo clima di libertà era fittizio e un capitalismo vigoroso e costruttivo non può svolgersi se la libertà è continuamente alla mercè dell'intervento straniero.

    L'industria milanese si trovò sotto la concorrenza minacciosa delle manifatture francesi: era un argomento decisivo per il miglioramento della produzione; ma presa appena questa via si ebbe la nuova politica economica di Napoleone. Il blocco continentale, del 1805 portò due conseguenze disastrose.

    Da una parte alterò l'equilibrio economico generale, determinando un artificiale e provvisorio interesse di dedicarsi a produzioni improprie al nostro clima economico, momentaneamente redditizie per l'allontanamento dell'offerta inglese. Costosissimo diversivo! D'altra parte diede alla Francia una posizione di assoluto privilegio. I lavori di ferro e di acciaio non si poterono più esportare nell'Italia francese (Piemonte, Toscana, Romagna, Parma). L'industria della seta fu duramente colpita dalla concorrenza dei sistemi di vendita francesi.





    Forte incremento ricevettero le industrie di guerra: ma è da vedere anche qui se l'incremento non venisse a turbare per l'appunto il normale equilibrio della produzione, alterando le iniziative naturali con diversivi incoraggiati dallo Stato.

    Da tutti questi fattori di instabilità derivano infatti la depressione dei commerci e i frequenti fallimenti che caratterizzano gli ultimi anni del regno. Se si vuol continuare l'analogia accennata si pensi alla crisi di depressione del 1921 succeduta all'audacia produttiva del 1915-1920.

    La sola agricoltura risentì i risultati stabili, vantaggiosi, di questa enorme trasformazione di ricchezza. E anche questo fenomeno possiamo intendere meglio se lo guardiamo alla luce delle esperienze rurali della guerra e del dopo-guerra, cui ci trovammo ad assistere. Una parte dei nuovi ricchi si dedicò a dissodare le terre di recente acquisto, con energia singolare. Canali, risaie, praterie, sostituirono la deficiente agricoltura del feudalismo ecclesiastico. Risale a questi anni il primo tentativo di industrializzazione in vasta misura della pianura padana. Si pensa a migliorare il sistema delle acque; la grande proprietà s'impone nelle risaie, i piccoli contadini occupano i pascoli comunali e li sottopongono a cultura con tenacissima audacia. Il risultato di questo breve esperimento liberale è formidabile: dal 1762 al 1814 si trova un aumento reale dell'esportazione agricola lombarda del 50 %.

    L'opera di due lavoratori indipendenti vale in sede economica come il lavoro di tre servi.

p. g.