LA SITUAZIONE BALCANICA

    Se noi risaliamo il corso della storia vediamo che tutto il problema balcanico nasce dal fallimento di un doppio tentativo unitario. Quello dei turchi dal sud, quello dei tedeschi di Austria dal nord.

    Dal tramonto della signoria turca, lasciante un'eredità di miseria, e dal fallimento del tentativo di totale organizzazione austriaca, si ebbe il profondo risveglio nazionale dei vari popoli della regione balcanico-danubiana, che da secoli parevano addormentati sotto la uniforme indifferenza turca o sotto la perfetta macchina burocratica austriaca, pur apportatrice di civiltà. Essi si riallacciavano alla tradizione degli Stati del medioevo, effimere costruzioni o tentativi interrotti dalla invasione ottomana.

    E il movimento si profilava - prima della guerra - impetuoso, irrequieto e incapace di organizzare le nuove organizzazioni statali, nei Balcani - represso ancora, ma irrefrenabile, nella monarchia asburgica. Dalla bandiera che i "popoli oppressi" levavano contro l'Austria veniva alle grandi Potenze dell'Intesa come una luce e un soffio di idealità.

    Le reazioni conducono alle situazioni estreme e dove prima si stendevano due unici imperi ora si organizzano tanti nuovi Stati. La creazione dello Stato ceco e di quello jugoslavo è stato forse il più luminoso risultato della grande guerra, così sanguinosa nel suo svolgimento e così cupa nelle sue conclusioni. Ma nel groviglio delle popolazioni, seppure tutte ben conscie di se stesse, non si videro mai un più clamoroso fallimento e più palesi violazioni del principio di nazionalità, pur mentre lo si asseriva base necessaria alle nuove organizzazioni statali.





    Il wilsonismo che, se attendeva la pacificazione dei popoli dalla buona volontà degli uomini, aveva pur intravisto la necessità di attenuare nell'Europa balcanico-danubiana i dissidi scaturenti da una impossibile netta divisione per linee di nazionalità, con una forma di solidarietà inter o super-statale, è stato poco più che un nobile sogno.

    Le passioni nazionaliste divampano in tutta l'Europa centrale. Tutti questi nuovi Stati, tesi nello sforzo di assicurare a se stessi una possibilità di valida vita, fondati sul predominio di un'unica nazione, si rifiutano ad ogni accomodamento e ad ogni reciproca comprensione. I nuovi confini, tracciati più o meno ad arbitrio, fanno degli Stati vincitori tante piccole intolleranti Austria.

    Ed è una intolleranza che può addolorare ma che si comprende. Bisogna addentrarsi nella psicologia di questi popoli. Inermi per secoli di fronte alle grandi organizzazioni statali che si contendevano il primato europeo, questi popoli hanno troppe volte visto da vicino il pericolo dell'annullamento della propria individualità nazionale, perché ora la conquistata indipendenza non difendano con tutti i mezzi, anche i più pericolosi.

    Singolare è il destino loro nella storia d'Europa. Fuori delle grandi linee della storia, inutili a chi guardi solo l'abbraccio delle grandi nazioni; eppure fieri, tenaci, sempre presenti, insopprimibili. La loro lingua non è studiata da nessun straniero, per molti di essi solo da pochi anni si è affermata fuori della indifferenziazione del dialetto, eppure anche come dialetto è stata con tanto maggiore tenacia conservata nel profondo dell'anima popolare. Da queste oscure oasi viene di tanto in tanto una luce. Uno di essi alle volte si affaccia vigoroso alla storia, per un decennio, poi pare ritorni nell'oscurità, in cui però non cessa di agire il travaglio interiore. Si pensi agli ungheresi contro i turchi, ai serbi agitatori di libertà tra i popoli slavi del sud.





    Si guardi all'Ungheria. Equiparatisi solo da poco ai tedeschi nella duplice monarchia, ebbero certo gli ungheresi non piccola parte nell'irrigidimento di questa in una posizione reazionaria e snazionalizzatrice; sconfitti, passati attraverso rivoluzioni e incursioni predatrici, diminuito e tagliato il loro territorio in un modo atroce, non hanno perso né la volontà né la fierezza nazionale. Nella mancanza di forze proletarie (la rivoluzione di Bela Kun l'ha denunciata in modo irrefutabile), nella divisione aspra delle classi sociali - da un lato il contadino, che pare avere appena superato le forme medioevali, dall'altro una aristocrazia, che si è completamente staccata, ed è erede di una civiltà che già era grande due secoli fa - in questo dissidio si capisce come la monarchia appaia, pur nella sua essenza reazionaria, emblema della unità e della difesa della razza.

    Chi sale da Pest a Buda, al Palazzo Reale, sente, nelle cose stesse, questo dissidio, da cui pare debba uscire una necessità di violenza dominatrice. Si lascia una città balcanica e si sale ad una affermazione di civiltà orgogliosa. Se prima si poteva aver pensato alla inutilità di tutte queste razze mescolate e senza pace, che a noi paiono razze inferiori, ora non si rimpiange la dominazione turca che tutto aveva livellato e sommerso. La esasperata volontà di individualizzarsi e di affermare in ogni maniera la propria volontà di esistenza che, se non è vana illusione, al viaggiatore si rivela quasi nel paesaggio stesso che si apre sotto i suoi occhi, sconsiglia dai tentativi frettolosi e dalle superficialità sdegnose.

    Ma siamo in una via senza uscita. L'orgoglio ungherese pensa ai castelli di Transilvania perduti, pensa agli alti Tatra, a Presburgo, la chiara città affacciantesi sul Danubio; ma perché il rumeno appena liberato da una doppia oppressione, perché il ceco pieno della fierezza di chi è appella sorto a libertà, devono rinunciare anche al pur minimo paese dove c'è anche un solo fratello di nazione e di lingua? Troppo lungo è già stato - grida l'anima popolare - il servaggio della stirpe.

    Il problema di nazionalità si impone così alla vita di tutti gli Stati, né appare una via di risoluzione.





    Guardiamo i tedeschi. Diciasette milioni di tedeschi, almeno, vivono nell'Europa Centrale al di fuori dei confini germanici; e di essi quasi quattordici milioni in territori confinanti con la Germania e non meno di otto milioni in Stati (tutti, eccetta Austria e Svizzera) che negano loro, come tedeschi, le più elementari condizioni di vita: il problema delle minoranze tedesche si pone, anche se in inegual misura (e lo si tenta risolvere con la snazionalizzazione e la violenza nazionalistica), in Polonia, Cecoslovacchia, Jugoslavia, Ungheria, Romania, ecc., ecc.

    E questo è solo uno dei vari problemi di nazionalità. Se la Polonia espelle i tedeschi optanti (e non optanti) in forma giuridica, ma brutale, tutta l'Europa balcanica è stata percorsa da un uguale feroce movimento di popolazioni. Se i turchi hanno cacciato i greci dall'Anatolia, i greci cacciano i bulgari dalla Tracia.

    Le leggi agrarie, capovolgendo le situazioni, servono ai propositi nazionalistici dei governi, mentre la questione sociale (contadina) rimane senza soluzione.

    Come nell'Ungheria l'aristocrazia agraria ha suscitato sulle rovine della patria il terrore bianco che oggi, consolidato, tenta nascondere la violenza legale sotto l'aspetto della democrazia, così in Romania l'equivoco di una riforma agraria ha riconfermato il potere dei boiari, cui é ancora dovuto l'omaggio feudale.

    In Cecoslovacchia, il più solido ed il più organico e il più capace fra gli Stati successori, partiti che si dicono socialisti, rinfocolano, invece di appianarlo, il dissidio tra tedeschi e cecki, il più pericoloso per la consistenza sociale, mentre sotto l'apparenza di una difesa nazionale non è che il consolidarsi di una esigua classe dirigente a scapito della stessa propria nazione.

    In tutti i Balcani e negli Stati danubiani, salvo il nord tedesco e l'industriale Boemia, è una enorme questione meridionale che si propone, aggravata dalla divisione degli Stati e dai dissidi nazionali, residui del fallimento unitario e dell'insufficienza delle ideologie.

MARIO LAMBERTI.