CAMPANELLA

    Campanella è, per definizione, un polemista, un combattente.

    Tutta la sua opera è una continua polemica; ma anche la sua vita è una polemica ininterrotta. Tutta la sua esistenza è una giostra, un certame: non c'è posto, nella sua giornata; per un abbandono, per uno spasso. Sente sempre il bisogno di battersi, di intervenire, di prender posizione: quando non si tratta di sé, si batte in difesa di Galileo, in difesa di Telesio, in difesa del Re di Spagna, in difesa di Dominedio. Quando non ha altri avversari, polemizza con se stesso, col Campanella di un libro precedente. Non ha mai requie, non è mai placato: come avesse ricevuto insulti storici. Ha cominciato da giovane, ha finito col finir della vita. I suoi grandi Avversari sono gli Aristotelici, i Machiavellisti, gli Atei. In carcere e a piè libero, egli non fa che preparare nuovi libri che saranno nuove macchine da guerra. È questione di temperamento: egli lo sa bene; egli sa che "è nato per combattere", "per debellare", per reagire: e i suoi nemici sono addirittura grossi sostantivi, categorie: "tirannide, sofismi, ipocrisia" (1). E da autentico combattente, da uomo che ha superato il supplizio della "veglia" vincendo il sonno, egli non concepisce e non compatisce i dormienti, i sedentari, gli abulici: vorrebbe veder marciare, con lui, i Principi d'Italia, il Re di Spagna, il Papa, poiché "totus mundus est antichristianus", e si dichiara pronto a partire, pronto ad "andare in Germania, lasciando per ostaggi quattro parenti in prigione, onde convertire alla fede almeno due di principi protestanti, e screditar Calvino affatto in quei paesi, e tornar con gli ambasciatori loro al Papa fra 15 mesi" (2). E non ammette che vi sia gente che possa indugiarsi in ozi letterari, dietro vaghe nature morte mitologiche: anche la poesia è un'anima, ed egli stesso se ne giova. Una sua tragedia "Maria Stuarda" è una lancia spezzata in favore di Spagna. La prigionia gli è insopportabile non tanto perché lo tormenti, quanto perché lo paralizza, perché lo inchioda fra quattro pareti, lui che vorrebbe espugnare il mondo.

    Non senza commozione si leggono le lettere scritte in carcere al Papa, al Cardinal Farnese, agli amici; lettere febbrili, nervose, laceranti, ove chiede d'essere ascoltato, sotto pena d'aver tagliata una mano se mente, sotto pena della vita se le sue promesse non saranno mantenute, sotto pena d'esser subito bruciato" ove risulti falso quanto assicura. È un insonne a vita. Vecchio, non ha perduto l'ardore. A Parigi, dove potrebbe finire in pace i suoi giorni godendosi la pensione reale, ha ancora bisogno di colluttarsi, di disputare, e naturalmente riesce sempre e a tutti ingombrante.





    Se trova gente che non divide le sue idee, ha bisogno di afferrarla per il petto, di polemizzare. Già la forma stessa dei suoi scritti ha sempre la forma polemica del dialogo: v'è sempre, un interlocutore che argomenta e un altro, cioè egli stesso, che rintuzza e incalza e inchioda; e dove non v'ha l'infingimento diabolico, v'ha nettamente, la sua diretta apostrofe.

    Ha un'anima da milite volontario: si pensa ai primi martiri. E guardate: egli è tanto preso dalla sua polemica che, in un centinaio di volumi che ha scritto, non gli troviamo una pagina d'abbandono, ove con sensi riposati possa indugiare su se stesso, sul valore umano di sé, Campanella, essere vivo e affettivo. Non una dichiarazione d'amore, non una risata, non un'impressione familiare, non un'immagine del suo paese. I rapporti elementari e freschi sembrano eliminati dal suo spirito. Vorremmo ch'egli ci parlasse della terra natia, ed egli si proclama "cittadino di questo mondo"; vorremmo ch'egli ci parlasse degli anni giovanili, ed egli avverte cupamente "seimila anni in tutto il mondo io vissi"; vorremmo ch'egli ci parlasse dei suoi genitori ed amici, ed egli si professa nato "dal Senno" e amico di "Sofia" (3); vorremmo che egli ci descrivesse i suoi ozi, ed egli dichiara che ozi a lui non ne sono permessi. È inutile: la sua missione è scuotere i dormienti: "io son la campanella"; è illuminare gli ottenebrati: "stavano tutti al buio; io accesi un lume"; è studiare, imparare e insegnare. Impara da tutti: ("io imparo dalle formiche, dalle mosche, e da tutte le minutezze naturali sempre qualche cosa"), osserva tutto e tutti sicché i suoi libri son zeppi di esperimenti personali ("a me spesso è occorso far queste prove", "come per esperienza io pur vidi", "come sperimentai" (4), ecc.), ed è disposto ad ascoltare tutti: ("non son tanto grosso che credo a me solo e che non lasci filosofar meglio"). È instancabile. Nei sotterranei del carcere, il suo cervello, tutt'altro che placarsi, si accende: le idee, i propositi gli fanno piena, gli urgono la mente e la mano; mai come quando è sprovvisto di libri, i ricordi, i pensieri scritti o detti innanzi gli fan ressa sulla carta. È l'uomo dai grandi compiti, il Missionario-tipo: è corso in Calabria per conoscer Telesio, a Roma per conferire col Papa, a Parigi per raccomandarsi al Re di Francia: si dislocherebbe all'estremo della terra pur di farsi ascoltare e credere.





    Ora, se si riflette che contemporanea alla disperazione e alla tragedia del Campanella è la svenevolezza e la pastorelleria del Marino (i due son coetanei: nato, il primo, nel 1568; nel '69, l'altro), potrà rilevarsi il valore della posizione dello Stilese. Laddove il Marino (meridionale come lui) non vede che ninfe, boschetti canori, giuochi di dadi e care piume, Campanella vede solo "guerre, ignoranze, tirannie ed inganni, mortalità, omicidii, abborti e guai" (5). "Vedi quanto il mondo è guasto!" esclama il Campanella, e in verità vien fatto di dubitare che sia il medesimo il tempo e il mondo ove i due poeti consumano così opposte esperienze. È vero: anche il cavalier Marino grida contro Lutero; ma vale appunto la pena di porre a fronte l'insurrezione dello Stilese col sonnettuccio tornito e falsamente rumoroso del Cavaliere. Come val la pena di confrontare i sonetti dell'uno e dell'altro, dedicati a Telesio, e i sonetti dell'uno e dell'altro dedicati a Venezia; e insomma il frigido accademismo su commissione del primo con lo sfogo, sconsolato e prorompente del secondo.

    La diversità è nella razza. Basta osservare Campanella poeta per scorgere subito i segni che lo denunziano del medesimo ceppo di Petrarca e Leopardi. Quell'insistere, fino all'angoscia e alla monotonia, su un perenne pensiero dominante, attorno a cui si svolge tutta un'esperienza lirica, sicché una sola poesia basta a dare la chiave di un canzoniere, è comune a tutti e tre i poeti distanti. Ciascuno di essi è legato a un suo motivo lirico, ma a quello solo, fissamente, disperatamente. Tutti e tre son cupi, solitari, travagliati; vagolanti attorno a problemi senza uscita: i loro versi si chiamano nel tempo. Tutti e tre intellettuali, tutti e tre fuori dai consorzi, tutti, di fronte alla vita misteriosa, staccati e aderenti, illusi e delusi, innocenti ed esperti.

    Alle soglie del XVII secolo, Campanella assomiglia a quel profeta Geremia che il Buonarroti collocò nel centro di una società epulone a testimonianza dei mali prossimi, dell'eresia, delle lotte sanguinose, del distacco di milioni di fedeli da Dio, dell'Avversario in agguato.

R. DI MATTEI.