CATTANEO

    La cultura italiana dopo il '70 fu cieca e inesorabile, contro gli avversari del mito unitario. Condannò all'oblio Ferrari, lasciò nell'oscurità l'Oriani, critico del Risorgimento tutt'altro che acerbo, e, non che anti-unitario, quasi padre del nazionalismo. Si accontentò del cavourismo che sembrava restasse negli impotenti eredi dello statista piemontese, e vi aggiunse un po' di giobertismo anfibio e un po' di mazzinianismo, che di Mazzini conservava soltanto la retorica.

    È naturale che i vincitori siano aspri e feroci quando la loro apparente vittoria dà di fatto ragione agli avversari. Il Risorgimento italiano segnò il trionfo dei partiti moderati e questi dovevano tollerare a stento che si ricordassero anche i soli nomi degli uomini che durante 50 anni avevano rappresentato la critica interna del processo storico. La nuova classe dirigente, che succedeva alla raffinata e abilissima burocrazia piemontese rappresentava i ceti medi e la piccola borghesia intellettualoide del Sud, incapace di sentire e di esprimere da sé un vero e proprio governo di tecnici. Storicamente ed economicamente immatura era l'antitesi delle avanguardie della produzione lombarde e piemontesi in nome delle quali aveva parlato Cattaneo.

    Né seppero proseguire il Cattaneo i partiti d'opposizione, infermi di una stessa malattia, retori e magniloquenti: basti dire che di lui, dopo il suo discepolo garibaldino Alberto Mario, il solo che scrisse di proposito fu Enrico Zanoni, moderatissimo uomo, che pose ogni sua sapienza nel difenderlo dal nome di regionalista e di liberista, cercando di provare esser queste momentanee intemperanze! Il Salvemini invece ha ripreso la parte viva del pensiero storico e politico del Cattaneo e si può dire che a lui si sia ispirato nell'opera sua di direttore dell'Unità.





    Poiché il Cattaneo avversò non l'unità ma l'illusione di risolvere con il mito dell'unità tutti i problemi che invece si potevano intendere soltanto nella loro specifica realtà autonoma, regionale, caratteristica. Il suo regionalismo era anzitutto un problema di stile politico e di modestia e non si può intendere se non lo si mette in relazione con la sua filosofia, con la sua speculazione che al di sopra di ogni critica e di ogni disconoscimento, resta originalissima.

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    Si è voluto limitare e demolire il pensiero di Carlo Cattaneo con un riferimento bibliografico di fonti: Romagnosi. Si è derisa la sua dottrina indicandone i seguaci nei positivisti.

    Tuttavia, non volendo assumere atteggiamenti di vendicatore in ritardo, basterebbe indicare una successione di date per confondere i frettolosi esegeti. Sono del 1836 e del 1844 le considerazioni antirosminiane di Cattaneo; risale al 1839 il suo saggio sul Vico, dove l'idea della psicologia delle menti associate è integralmente espressa, anche se sarà poi ripresa e rielaborata nel '52, nel '57 e negli anni seguenti. Invece il Cours de philosophie positive del Comte, cominciato nel 1830, veniva solo terminato nel 1842; la Politique positive è del 1851-54: se Cattaneo si deve studiare come positivista, il suo pensiero non viene dietro a Comte, ma lo precede; il suo posto non è quello di un divulgatore, ma di un antesignano; il suo posto è nella storia europea a ben maggior diritto che non si possa pensare di Rosmini, il quale tuttavia si affatica intorno ai problemi risolti da Kant e dalla filosofia romantica tedesca. I suoi conti con Romagnosi non sono stati fatti ancora; ma forse si dovrebbero fare piuttosto con Locke e con Vico e con Bacone: Romagnosi sarebbe appena, nella enciclopedica opera di divulgazione, un intermediario.





    La sua psicologia delle menti associate fu da alcuno, che ne aveva guardato appena il titolo, definita una confusione di psicologia individuale e di psicologia sociale, comodo semplicismo per non distinguere il vichiano spirito del Cattaneo da Comte. Si accusò il suo realismo di ripetere posizioni sensistiche; il suo storicismo di voler dedurre l'uomo dalle manifestazioni più attenuate della spiritualità. Questa volta l'accusatore era il Gentile: si direbbe ch'egli si proponesse di negare l'evidenza.

    Chi cerchi in Cattaneo una gnoseologia precisa e sistematica terminerà la sua ricerca senza averla ritrovata: ma l'insuccesso nonché far prova contro il Cattaneo, attesta in questo caso la poca finezza dell'indagatore, che ha confuso il problema di Rosmini col problema del nostro. Chi cercasse in Hegel il criticista troverebbe il suo scorno nell'invito di buttarsi a nuoto invece di indugiarsi in contemplazioni iniziali. Cattaneo non ha una gnoseologia introduttiva perché ha la sua filosofia della storia; al criticismo rosminiano deve opporre una posizione costruttiva anche a costo di presentarla in forme quasi ingenue; ma sono evitate le ingenuità della vigile esperienza. Se si pensa al Gioberti, contemporaneo del Cattaneo, e assorto in ipocriti teologismi e in inesauribili premesse d'azione, non si può non guardare con franca simpatia al nostro che, dopo essersi assimilato il criticismo coll'esperienza scientifica, risolse il problema dell'azione operando, e quello della storia facendosi storico, così come Hegel coll'atto stesso di filosofare dichiarava di risolvere il problema della filosofia.





    Se la storia è imprevedibile non la si può metafisicamente dedurre dal vero primo: in essa sola deve trovarsi il criterio della certezza, anzi la certezza stessa. Nello studio dell'uomo interiore e dell'istoria dell'intelletto si appaga il realismo di Cattaneo. Se anche talvolta pare invocare il dominio del "senso comune" o il "testimonio potente dei sensi", egli ha pur sempre definita "filosofia scienza del pensiero", ma, contro la arbitraria esegesi del Gentile, crede che il pensiero sia da studiarsi nelle menti mature e forti e però nelle storie, nelle lingue, nelle religioni, nelle arti, nelle scienze in cui le forti e mature menti si mostrano e non "nelli informi cenni d'intelligenza, che appena spuntano nei feti e nei bamboli".

    A dir le cose con pratica chiarezza, poi che il problema pareva sopratutto di persone e di psicologia, "intendiamo che il filosofo non possa accingersi al suo ministerio se non con ampia preparazione di molto vario sapere".

    Si sente il bisogno alla vigilia della rivoluzione di liquidare gli ultimi resti di cartesianesimo: Cattaneo è all'avanguardia della moderna filosofia dell'attività, ansioso ormai di fondare la nuova visione unitaria del mondo. L'identità di storia e di filosofia è poco più che una convinzione di esperienza; ma la filosofia si riduce concretamente per lui ad una visione metodologica. La speculazione di Cattaneo ricerca piuttosto impreviste esperienze che illusioni di leggi: è spoglia di tecnicismi filosofici, preannuncia orizzonti nuovi.





    Ciò che gli viene rimproverato pare a noi la sua genialità vera. Del resto, se la filosofia è storia, perché la filosofia? È la domanda con cui gli immanentisti hanno liquidato la trascendenza: se il mondo è Dio, perché Dio? Perché il sistema una volta che crediamo solo più al problema? Se la filosofia s'identifica con la storia, non c'è più filosofia fuor dello svolgimento e della risoluzione dei problemi dell'esperienza attuale. Solo questa osservazione dà ragione delle varietà dei sistemi filosofici attraverso i tempi; ed escludendo la dommaticità metafisica, riduce il sistema al suo valore d'esperienza. Sostenere questa posizione senza ricadere nello scetticismo o in una nuova metafisica della identità: ecco, a parer nostro, il problema che la nuova speculazione si deve affacciare. Il merito di Cattaneo non consiste nell'aver risolto il problema, ma nel non averne compromessa la soluzione con la ripresa del vecchio sonno dogmatico. Per questo la sua personalità cela elementi imprevisti, pur nella classica compostezza, e dove altri vorrebbe scorgere una esperienza raccolta e individuale, si scorgono elementi di cosmicità e di solenne conclusione. Di Locke accettò la polemica contro l'innatismo (altro che fermarsi ad una posizione dogmatica?), e più scaltro di Vico, pur avendo la stessa fiducia di lui nello spirito, non pretese di chiudere l'esperienza, seppe lasciare aperto il dramma tra la natura ed il passato e lo spirito che li indaga. L'istintiva prudenza dello storico lo rendeva guardingo verso le più candide illusioni giusnaturalistiche: alle tenere semplicità del Romagnosi opponeva la superiore consolazione del suo riflesso realismo. O inesauribile ingenuità di chi volle ricordare per il Cattaneo le comtiane categorie sociologiche! Certi errori di psicologia sono più compromettenti delle angustie concettuali. Chi confonderebbe la austerità del Cattaneo con il goffo ottimismo di Comte? E la vigile storicità del milanese, agile dialettica diplomatica, col pesante umanitarismo parigino?





    La fisonomia speculativa del nostro è tutta un'intenzione: né dal sensismo né dal razionalismo si può dedurre la storia; per la drammaticità della storia egli rinuncia agli schemi più semplici come ai più complicati. Non dovete dimenticare che l'ambiente storico di Cattaneo si colloca in pieno tramonto del razionalismo, mentre si è esaurita la polemica ideale tra classici e romantici; non per un caso egli resta estraneo al neo-guelfismo, ultimo tentativo di una esasperazione romantica. Anche chi voglia riconoscere validi i quadri storici di B. Spaventa, non può non avvertire in Cattaneo uno sforzo nuovo di liberazione: l'originalità speculativa italiana, dopo tutte le brevi parentesi di misticismo s'è sempre affermata in un riconoscimento dei più gelosi valori della personalità. Dove l'ampiezza delle sue aspirazioni potrebbe sembrare enciclopedica, la solidità classica del suo gusto fa ch'egli riduca il sapere in una realtà di potenza. Fa prova della sua finezza l'atteggiamento di antiromantico libero da ogni peccato di sensismo; del suo rigorismo morale l'opposizione più inesorabile verso i demagogismi unitari e le illusioni patriottiche. Se la forza dinamica del suo pensiero è stata nei primi cinquant'anni del secolo scorso meno esuberante di quella del Mazzini, il suo spirito è meno viziato e meno vaporoso, la sua figura è per gli italiani non letteraloidi più ricca d'insegnamenti, la sua politica può essere ancor oggi un programma.





    Guardò al passato conscio del tramonto compiutosi; senza atteggiarsi a profeta, senza l'enfasi dell'apostolo capì che il fondare una nazione non era impresa di letterati entusiasti, cercò nelle tradizioni un linguaggio di serietà, un ammaestramento di cautela. Gli italiani erano usi a parlare della libertà come di cosa da dimostrazioni: Cattaneo offrì l'esempio di un pensiero che si identificava tutto con la libertà e l'autonomia, e ne raccoglieva organicamente le esigenze senza farne risquillare ad ogni istante con ingenua retorica la parola. Eppure per certi spiriti non giova che il tamburo. La libertà di Cattaneo si esprimeva come realismo in etica, come produzione e iniziativa in economia, come creatività liberale in politica, come valorizzazione della esperienza in filosofia, come culto classico dei valori formali e della tradizione liberatrice in arte. Antiromantico, non rinunciò, come non aveva rinunciato Leopardi, ai motivi originali di coltura che i romantici recavano con sé.

    Per queste caratteristiche di misura, che sono il segreto della sua vitalità, gli toccaron in sorte i compiti più ardui e più ingrati, che a lui poi servirono di disciplina e di temperamento. Solo un filosofo poteva pensare, quando egli lo pensò, il Politecnico. Ma neanche i filosofi poterono intendere quella sua indipendente disinvoltura e dignità, che con tanta freschezza liberava il cammino da ogni ingombro di schemi.

    E lo condannarono alla solitudine e alla impopolarità e diedero, a lui, uomo positivo e realista, un ufficio di Cassandra, predicante al deserto.

p. g.