TRE PARTITI

    Ha scritto Guido Mazzali, esaminando, su queste colonne, un tema che sembra tornato di attualità - quello della unità socialista - : "stati d'animo più che maturazione di coscienze. Mormorazioni più che fatti concreti. La politica può essere anche sentimento, non potrà mai essere la proiezione di un vago, indefinito, inesprimibile sentimentalismo". Sono perfettamente d'accordo con lo scrittore massimalista.

    Io fui uno dei pochi che, qualche tempo dopo la scissione di Roma del 1922, pensarono al problema della rifusione (ed in tal senso presi anche accordi con Giacomo Matteotti); fui uno dei primi che, dopo l'assassinio del Matteotti, ne scrissero. Sembrerebbe, adunque, logico che oggi fossi dello stesso avviso. Invece non è così, e ne spiego le ragioni. Le quali, per ciò che riguarda il fusionismo, erano duplici: di fatto, cioè, e di sentimento. Di fatto, in quanto si notava, nella pratica, non esistere alcuna differenza tra l'azione del Partito unitario e quella del Partito massimalista - stesso metodo, stessa tattica - ; di sentimento, in quanto si sentiva che una unione dei percossi in un unico partito avrebbe ravvivato nelle masse la vecchia fede e avrebbe sfatato la credenza che la divisione fosse dovuta a ragioni puramente personali. Le masse, si pensava allora, non capiscono le ragioni teoriche della nostra scissione, le cause della quale, d'altra parte, più non esistono, ché di collaborazionismo non è il caso di parlare e di rivoluzionarismo efficente, in atto, non se ne vede la possibilità. Di più, si notava che i massimalisti, aderendo all'Aventino, avevano implicitamente ammesso che in determinati casi la tattica collaborazionista o intesista, che in fondo è lo stesso, fosse una necessità alla quale essi stessi si adattavano. Oggi può valere questo ragionamento? Francamente non mi pare. Se alcuni mesi addietro si poteva ritenere che il problema della fusione fosse un problema di volontà, oggi bisogna riconoscere che esso è qualche cosa di più: è un aspetto della crisi che travaglia i tre partiti proletari, crisi sulla quale ha scritto Guido Mazzali e sulla quale, col consenso di Rivoluzione Liberale, vorrei esprimere una opinione che non è soltanto personale.





    Mi guarderò bene dal risalire alle origini del Partito socialista e alla natura e allo sviluppo delle varie tendenze che lo hanno accompagnato in trent'anni di vita. E neppure contesterò al Mazzali talune delle sue affermazioni su quello che, secondo lui, è un vizio d'origine del socialismo italiano: la mancanza di una esperienza socialista (forse voleva dire la mancanza di sviluppo delle condizioni economiche atte a suscitare un naturale movimento socialista) giacché sarebbe facile contrapporgli il carattere democratico del Partito socialista nei due paesi classici del movimento economico industriale, l'Inghilterra e la Germania, e raffrontarlo al carattere rivoluzionario del bolscevismo in un paese che non ha conosciuto un'esperienza socialista se non per imposizione, la Russia. Se la polemica ha da essere facondo dibattito di opinioni, mi sembra impicciolirla o avvilirla limitandola alle contestazioni di ogni affermazione, senza contare che non sempre dalle particolari negazioni si sala all'affermazione d'indole generale, né, viceversa, dalla affermazioni particolari si sale alla negazione d'indole generale.





    Indubbiamente il socialismo italiano è in crisi; ma, si può aggiungere, per qualcuno esso è sempre stato in crisi. Basta scorrere i giornali e le riviste italiane che nell'ultimo trentennio si sono occupate di socialismo e si troverà la conferma della crisi permanente in cui, a detta di taluni, si è dibattuto il Partito socialista. Non importa, poi, che le crisi si riducessero a più o meno accademici dibattiti sul metodo e sulla tattica, e che finissero col lasciare il Partito più forte che mai. Ma oggi sarebbe da stolti negare che una crisi travaglia il socialismo italiano. Crisi che, se vogliamo essere precisi, risale all'immediato dopoguerra, se alla parola crisi si dà il preciso significato di stato di impotenza. E, appunto, la vera crisi socialista si è manifestata appieno nel 1919-1920, quando il Partito socialista fu chiamato ad assumere in pieno la responsabilità di un atto decisivo nella situazione caotica e senza parvenza di sbocco in cui si dibatteva l'Italia, allora uscita da una guerra che l'aveva prostrata. Fu appunto nella lotta tra la concezione collaborazionista che assumeva per programma il "rifare l'Italia" di Filippo Turati e la concezione rivoluzionaria a metodo bolscevico di Nicola Bombacci che si palesò la crisi del Partito socialista; fu in quella lotta che si ebbe il fenomeno curioso, per gli studiosi di psicologia sociale, di una maggioranza detentrice del potere la quale non solo non osò - ma ne incolpò la minoranza - fare quella rivoluzione da essa predicata ad ogni piè sospinto; fu in quella lotta, quando il Partito - organo eminentemente politico - volle imporre al sindacato la direzione di un movimento essenzialmente politico che esso abdicò di fatto ad ogni suo potere e dimostrò, oltre la propria impotenza, la impossibilità di un metodo che, da allora, il proletariato abbandonò. Qui nacque la crisi che si sviluppò più oltre con le scissioni dei sinistri e dei destri e che condusse il socialismo italiano attraverso Livorno, Milano e Roma alla formazione dei tre Partiti comunista, massimalista e unitario.





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    Il Congresso di Livorno aveva segnato il distacco netto, preciso tra due concezioni, la comunista e la socialista, e, se pure l'esito della votazione era stato tale da dare la maggioranza assoluta ai massimalisti sostenitori della mozione di Firenze, in sostanza il socialismo italiano si polarizzava verso il comunismo e verso il - chiamiamolo così per quanto impropriamente - riformismo. Il massimalismo vinceva congressualmente perché non metteva i socialisti nella condizione di decidersi per la destra o per la sinistra. Il massimalismo vinceva il comunismo perché l'esperimento del metodo rivoluzionario si era risolto in piena disfatta, vinceva sul riformiamo perché non si poteva né si doveva troppo presto dar ragione ai profeti del 1919. Ma se il massimalismo conservò le redini del potere del Partito, lo spirito della mozione di Reggio Emilia un po' alla volta, contrariamente alla stessa volontà dei dirigenti il movimento massimalista, prese tutto il Partito. Contro questa tendenza tentarono di reagire i capi del Partito al Congresso di Milano, ma invano: l'atteggiamento del Gruppo parlamentare andava verso il collaborazionismo mentre la Direzione del Partito procedeva di indecisione in tolleranza. Così il massimalismo perdeva di giorno in giorno terreno, non soltanto tra le masse ma tra gli stessi iscritti, a mano a mano che il fascismo incalzava, appunto perché esso si dimostrava sempre più quello che Filippo Turati lo aveva battezzato: nullismo. Ad ogni situazione nuova che si presentava come possibile, esso non sapeva opporre una adeguata soluzione, non sapeva neanche indicare una soluzione. Mentre i comunisti nella rivoluzione e nella dittatura proletaria indicavano i mezzi di abbattimento non solo del fascismo, ma di tutta l'impalcatura borghese; e il riformismo indicava una soluzione transeunte nel collaborazionismo per evitare il fascismo che premeva - l'uno, cioè, aveva una concezione veramente massimalista della lotta, l'altro una concezione minimalista - il massimalismo ufficiale si baloccava nelle affermazioni generiche di rivoluzione e di dittatura proletaria senza neppur tentare un accordo coi comunisti per veder di tradurle in atto, e nello stesso tempo negava le possibilità collaborazioniste che però lasciava tentare dal Gruppo parlamentare accontentandosi che questo procedesse con tutte le misure precauzionali e con tutte le cinture di castità. Da ciò tutta la inazione socialista, da ciò quella serie di errori che dirà la storia quanto contribuirono a creare la presente situazione.





    Il Congresso di Roma si trovò, appunto, a dover giudicare tale indecisione e tale inazione. Il fallimento dello sciopero generale dell'agosto se aveva aperto gli occhi a molti socialisti, non li aveva aperti ai capi dal massimalismo i quali sentivano che il Partito si orientava decisamente verso la destra. Bisognava quindi agire risolutamente contro di essa prima che essa diventasse maggioranza. E sì vide, così, quella stessa Direzione, la quale non aveva saputo intervenire tempestivamente, energicamente e decisamente a troncare ogni e qualsiasi tentativo collaborazionista dal Gruppo parlamentare, dichiarare che si poneva fuori del Partito chi si affermava sulla mozione dei destri, su quella mozione, cioè, che, in sostanza, domandava lo sviluppo di quei tentativi collaborazionisti cha la Direzione aveva fino allora tollerati, forma gesuitica che nascondeva una espulsione che non si osava pronunciare in pieno. Ma al massimalismo non si poteva domandare di uscire dalla indecisione che lo accompagna dalla nascita.

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    Sorgeva, così, il terzo Partito - l'unitario - con carattere possibilista. Troppo tardi per portare una qualsiasi conseguenza nella situazione del Paese, ché pochi giorni dopo il fascismo giungeva al potere; troppo tardi anche per una vera chiarificazione dei Partiti proletari, ché la nuova situazione non consentiva ormai più quella libertà di azione che sola avrebbe potuto portare alla eliminazione dal massimalismo e alla polarizzazione della masse a destra e a sinistra. Il fascismo salvò il massimalismo. Impedita, di fatto, tanto una azione rivoluzionaria da parte dei comunisti quanto una parlamentarista a carattere collaborazionista da parte degli unitari, fu facile al massimalismo dimostrare errati i metodi degli uni e degli altri e richiamarsi alla tradizione del socialismo italiano, tradizione che, a vero dire, fu intransigente, rivoluzionaria, riformista, integralista, secondo i tempi e secondo le circostanze. Il massimalismo faceva, cioè, la figura di quei nobili che di nobiltà conservano soltanto il blasone. E in un popolo ancor troppo sentimentale l'Avanti! continuò ad attrarre più che l'Unità e la Giustizia.

    Venne il delitto Matteotti, e il massimalismo mostrò una volta di più la propria inconsistenza dottrinaria. Tutta la sua intransigenza rivoluzionaria si manifestò nell'unione con Partiti, non solo di classe, quali l'unitario e quale, da qualche anno si vuol mostrare, il repubblicano, ma con Partiti costituzionali, quali il democratico, il demosociale e il popolare, questi due ultimi già alleati e collaboratori del fascismo al potere. E si badi che proprio per l'adesione all'Aventino dei Partiti costituzionali, veniva a priori scartata ogni possibilità di azione extralegale, extraparlamentare, extracostituzionale. Il massimalismo italiano riaffermava, sì, i suoi principi rivoluzionari e dittatoriali del proletariato sulla borghesia, ma intanto si adattava ad una situazione che poteva - nella migliore delle ipotesi - sboccare in una dittatura di generali invocata, allora, da molti se non da tutti gli oppositori.





    La politica aventiniana è stata un fallimento? Secondo i criteri con coi la si giudica. È certo però che essa non ha portato a quei risultati immediati che molti speravano. Onde il massimalismo che sentiva stringersi più pressaste il dilemma: autonomia o assorbimento, tentò l'autonomia. Non bisogna disconoscere che, sotto certi aspetti, il momento è stato scelto bene. Le masse deluse dall'attesa messianica di una soluzione di liberazione dal fascismo, che si presume ancora lontana. Esse che tutto aspettavano dai capi senza domandarsi se pur esse non dovevano dare qualche cosa, sono insoddisfatte della tattica seguita, e abituate, purtroppo, a vedere un po' troppo negli altri e troppo poco in se stesse la salvezza, accolgono con entusiasmo ogni nuova possibilità di uscita. Ecco perché il distacco dei massimalisti dall'Aventino ha potuto avere un primo momento di successo che li ha inorgogliti. Ma la stessa mossa nasconde dei pericoli. Staccandosi dall'unione dei Partiti di opposizione, per il fatto che non si era raggiunto, con i metodi fino allora adottati, lo scopo principale e desiderato, il massimalismo veniva implicitamente ad assumere un impegno: quello di fare qualche cosa di più di quello che non sia stato fatto, e si assumeva la responsabilità dell'impegno. Ora, questo impegno come intende mantenerlo? Non pretendo, certo, che il Partito indichi un suo programma di azione, ma ravviso il pericolo che questo impegno presenta per il Partito in caso di inadempimento, di fallimento. Qui, per me, è la vera crisi del massimalismo. Al quale, poi, non è concessa un'azione autonoma rivoluzionaria. Esso dovrà, cioè, prendere accordi col Partito repubblicano se vorrà fare un'azione rivoluzionaria, a carattere istituzionale ed in tal caso la rivoluzione perderebbe ogni carattere di lotta di classe, per la natura stessa dell'alleanza - o col Partito comunista - ed in tal caso l'azione, veramente di classe, non potrebbe non avere quegli sviluppi e quegli sbocchi che segnerebbero la vittoria del comunismo e la disfatta del massimalismo. Da ciò si vede come la invocata e voluta autonomia del Partito si rende impossibile per la necessità di andare con la sinistra una volta abbandonata la destra.





    Ma la mossa massimalista ha un altro scopo: determinare nel Partito unitario un distacco degli elementi di sinistra per la preoccupazione d'un deciso orientamento democratico della maggioranza. Tale orientamento sarebbe dimostrato dalla simpatia del Partito verso i ceti medi. Non è qui il luogo di esaminare questo problema sul quale ha testè pubblicato un interessante studio Rodolfo Mondolfo, ma si può benissimo affermare che il pericolo, da taluni unitari temuto e dai massimalisti additato, non esiste. In fondo, non è vero che le classi medie si orientino verso il partito unitario. Esse trovano, piuttosto, il loro sbocco nei vari Partiti democratici e nel Partito popolare. Aderiscono a quello unitario singoli elementi delle varie classi medie, come hanno sempre aderito al Partito socialista, in proporzione maggiore, se si vuole, ma ciò per una maggiore comprensione delle finalità socialiste e, sopratutto, delle funzioni e dell'avvenire della propria classe. Per cui, sì può dire che non il Partito unitario si accosta alle classi medie, attenuando il proprio carattere di partito di classe, ma si accostano ad esso quei componenti di queste che vengono formandosi una coscienza di classe. Indubbiamente tale accostamento porta a revisioni di metodi e di programmi, ma queste non sono dettate da ragioni di proselitismo, sibbene sono una conseguenza della naturale e logica revisione che tutti i Partiti socialisti vanno facendo ovunque dei propri programmi - è di questi giorni la revisione del programma della socialdemocrazia tedesca - dopo tanti anni di esperienza. Ma io credo che anche da questo lato la mossa massimalista rimarrà senza effetto. Potranno verificarsi singoli casi di diserzione nel Partito unitario, diserzioni dovute più che altro alla insofferenza della presente situazione italiana; ma il Partito rimarrà compatto nelle sue forze e nella sua linea. E il nuovo orientamento del Partito massimalista non avrà servito che ad aggravare la propria crisi.





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    Ed è proprio questo nuovo orientamento del massimalismo che rende, per lo meno, inattuale il problema della unità delle forze socialiste.

    I comunisti hanno già un proprio programma che differenzia, nei principi e nei metodi, da quelli socialisti. Non so se e quando potranno veder coronata dal successo una parte del loro programma; è certo però che essi avranno un largo seguito nelle masse, vuoi perché, un programma è sempre un programma, vuoi perché potranno sfruttare il malcontento di una parte di esse, la parte più misera e più irrequieta. Gli unitari hanno anch'essi il loro programma che, partendo dalle affermazioni di Genova del 1892, arriva alle possibilità collaborazioniste di Roma del 1922. i massimalisti hanno un programma che è più programmi: Genova del 1892 e Bologna del 1919 - non badando se Bologna ha smentito Genova - ma non hanno un metodo proprio, ondeggianti tra la dittatura comunista e il socialismo democratico. Di più mentre non si può concepire un movimento socialista che non sia internazionale, il massimalismo italiano non è né con Mosca, né con Zurigo, limitandosi a stare a Vienna (anche geograficamente più vicina a Zurigo).

    Il problema della unità socialista si ridurrebbe pertanto ad una fusione dei due Partiti, unitario e massimalista. È essa possibile? Vi fu un tempo in cui tale possibilità esisteva - quando cioè il Partito massimalista con tutta la sua azione pareva orientato verso quei metodi democratici che informano l'attività del Partito unitario - ma oggi, dopo i nuovi atteggiamenti massimalisti, tale possibilità è esclusa. L'uno è Partito democratico, l'altro nega tale metodo; l'uno non esclude, a priori, per l'avvenire, delle possibilità collaborazioniste e partecipazioniste, l'altro riafferma la sua intransigenza come metodo; l'uno non disdegna l'apporto di forze da parte dei ceti medi; l'altro si chiude nella formula letterale "la emancipazione dei lavoratori dev'essere opera dei lavoratori stessi"; l'uno vede nell'organo internazionale borghese - Società delle Nazioni - la possibilità di sviluppi ulteriori dell'internazionalismo; l'altro deride gli sforzi delle borghesie tendenti a trovare la formula della pace. Sono vie opposte, dunque, che i due Partiti si propongono di percorrere. In tali condizioni è ovvio che una fusione vorrebbe dire rinuncia dell'uno o dell'altro Partito a particolari punti essenziali del proprio programma.





    Ciò che io credo di poter escludere avvenga per entrambi.

    Lo so, il proletariato ha un'anima romantica e gli embrassements gli sono sempre piaciuti. Ma bisogna abituarlo diversamente, fargli comprendere che se i Partiti possono nascere per volontà di uomini e di gruppi, vivono e si sviluppano soltanto a seconda della consistenza dei loro programmi. In un diverso regime, oggi, il problema dell'unità sarebbe già risolto. Lo si è risolto in Germania, in Francia, recentemente in Svezia. In Italia non lo può essere, per ora. Il tempo compirà la sua opera maturando la crisi che da alcuni anni travaglia la vita politica italiana, quella dei Partiti socialisti in prima linea. Questo periodo potrà frattanto essere impiegato da tutti a rivedere i propri programmi in quelle parti che, al contatto della dura esperienza, si saranno mostrati insufficienti o inadatti. Occorrerà anche una revisione di quadri, come opina il Gobetti, ma questa sarà una conseguenza dell'opera di revisione, per quanto io non sappia vedere ancora nei Partiti socialisti italiani, salvo rare eccezioni, gli uomini nuovi. Credo che l'avvenire - anche in ciò son d'accordo col Gobetti - sarà più favorevole al Partito comunista che a quello massimalista, perché la necessaria revisione di quest'ultimo lo dovrà dividere in due parti: la comunista e la unitaria - o più propriamente socialista - secondo la formula di Claudio Treves. E quel giorno, con la polarizzazione delle masse verso il comunismo e verso il socialismo democratico, sarà risolta la crisi socialista.

SILVIO BARBO.