Risorgimento
PETRUCCELLI DELLA GATTINA
L'insorto.
Chi legga ne Le notti degli emigrati a Londra (Milano, Treves, 1872) il Marchese di Tregle, avrà la chiave della costante disposizione d'anima scettica del barone Ferdinando Petruccelli della Gattina.
È il racconto delle peripezie occorse ad un insorto calabrese del 1848 per sfuggire agli artigli della polizia borbonica.
In confronto dei due precedenti racconti riguardanti l'uno l'Ungheria del 1848 elettrizzata da Petöfi e guidata alla guerra insurrezionale da Kossuth, l'altro l'insurrezione polacca del 1863 contro la Russia, entrambi improntati a sentimenti drammatici ed eroici; quello riguardante l'insurrezione italiana del 1848, il ricordato Marchese di Tregle si distingue per il grottesco di cui è pervaso.
Tanto gli insorti che i soldati borbonici risultano degni di far parte dei corpi armati del general Colli, con tanta arguzia dal Leopardi immortalati nella sua Batracomiomachia; mentre la miseria morale della borghesia, dell'aristocrazia e della plebe è messa in evidenza nei vari personaggi del racconto, che appieno si gusta se si pensa che è in gran parte autobiografico.
L'artista.
Pure in gran parte autobiografico pensiamo che sia il romanzo Il sorbetto della regina (Milano, Politti, 1872): una manciniana pittura della Napoli dei tempi di Re Bomba e della Regina Carolina, in cui il seminarista e poi studente di medicina Ferdinando Petruccelli, ebbe a vivere.
Forse, se ricordiamo quel che della gioventù del proprio marito ha lasciato scritto la moglie Maude, la Lena amata dallo studente e poi medico di Corte Bruto, non è improbabile che sia tutt'una cosa coll'ignota Mariannina, oggetto dell'amore dell'allievo dei RR. PP. Gesuiti; quanto è probabile che sotto le spoglie del dottor Tibia sia nascosta la reale figura dello zio materno, l'ex-prete dottor Francisco, che voleva ad ogni costo avviarlo alla carriera ecclesiastica.
L'anticlericale.
Pur tuttavia, anche soltanto come descrizione ambientale, il Sorbetto e le Notti discretamente illuminano la complessa figura del Petruccelli, e spiegano la cocente necessità da lui provata di ribellarsi alle costrizioni impostegli dalla famiglia.
La violenta ribellione opposta ai famigliari per non farsi prete, dovrà lasciare una profonda traccia nel suo spirito, determinando il passionato ed esorbitante anticlericalismo della Storia segreta dei Conclavi e della Storia arcana del Pontificato di Leone XII, Gregorio XVI e Pio IX (Milano, Colombo, 1861); quanto la personale libertà improvvisamente ed impreparatamente acquistata con quest'atto di ribellione l'ha forse fatto cadere nella licenza dei bagordi e delle gozzoviglie del bel mondo, col quale, per le sue qualità di nobile, di giornalista, di scrittore e di uomo politico, era venuto a contatto.
Contrariamente a quel che forse per pietà opinava la moglie, noi pensiamo che in quegli anni, i quali vanno dall'abbandono della carriera ecclesiastica sino al ritorno in patria, in mezzo compresivi gli anni del forzato esilio, il Petruccelli abbia contratto la malattia che per tre volte l'ha portato sull'orlo dell'idiozia, scampando alla quale non gli è riuscito di scampare alla paralisi quasi totale, e poi alla morte.
Naturalmente, accanto alle donne pubbliche o semi-tali da lui incontrate nel bel mondo durante la giovinezza e la maturità, trovavansi gli uomini pubblici: cioè, quanto di meglio offriva la politica, l'arte, l'aristocrazia e il censo.
L'individualista.
È stata questa, in mezzo alla disgrazia, la sua fortuna; poiché per merito delle accennate relazioni le sue qualità artistiche si sono sviluppate ed acuite; guanto il suo orgoglio di nobile e d'intellettuale unito all'acquisito scetticismo già da noi notato, han trovato le favorevoli condizioni per affermarsi e diventare il nucleo centrale del suo eroico individualismo, che si ritenne fortunato allorché nel Carlyle trovò il suo enunciatore e la sua filosofia.
In questi motivi psicologici e biografici va cercato l'animus determinandi della sua attività artistica, e, in parte, di quella politica. Quella artistica raggiunse la più alta vetta di cui era suscettibile colle ricordate Notti degli emigrati a Londra; quella politica s'espresse col costante isolamento del Petruccelli in seno al Parlamento e nell'agone giornalistico, nei confronti dei quali mai altro non fu che "lo strano personaggio che ha scritto le Memorie di Giuda, com'ebbero i suoi contemporanei e il Croce, ad appellarlo. Il Petruccelli stesso, del resto, si compiaceva collocarsi fra gli "isolati" della Camera, non indegno terzo fra lo statista Mancini Pasquale Stanislao e lo storico-filosofo Giuseppe Ferrari.
La compiuta espressione, tuttavia, di questo individualismo eroico, trovasi nella sua attività giornalistica d'essayste e di medaglionista; condensata poi nella brochure: I moribondi di Palazzo Carignano (Milano, Perelli, 1862) e nei due volumi dei Fattori e malfattori della politica europea (Milano, Brigola, 1881), a forma di Pantheon sistemati, co' suoi Iddii maggiori e minori e co' suoi eroi.
Il pensatore.
Gli accenni fugaci ad idee trascendenti i valori individuali non sono, in questa prima epoca del suo pensiero, che dubbi e germi di futuri sviluppi.
Questi dubbi e questi germi furono a lui suggeriti da qualcuno de' suoi biografati, e dal bisogno di sistemare i lampi delle sue intuizioni in un organico sistema di idee.
Al diplomatico russo Gortchakoff va dato il merito d'avergli instillata questa superiore esigenza, colla sua politica panslavista, tendente a ristabilire, con mutato spirito e per quanto compete alla Russia, il primitivo ordinamento politico e geografico delle razze sulla superficie terrestre.
In virtù di tale pensiero il Petruccelli (che nel secondo racconto delle Notti, il Conte Giovanni Lowanowicz, aveva scritto pagine superbe contro l'assolutismo de' Romanoff e sull'odissea d'un insorto polacco esiliato e poi fuggiasco dalla Siberia) arriva a giustificare lo czarismo quale personificazione degli ideali della razza slava e quale mezzo il più acconcio perché l'unificazione di detta razza avvenga.
Il patriottismo della nazione polacca viene da lui dichiarato inconsistente e combattuto, assegnando alla patria di Towiansky e di Mickiewicz la missione che il Piemonte ha esercitato in Italia durante il nostro Risorgimento: che è quella d'essere stato la regione-lievito del nazionale riscatto, la regione privilegiata in grado d'esercitare col suo esempio un ammaestramento ed un incitamento in favore della libertà.
La virtù pedagogica dell' eroismo veniva pertanto trasportata dall'individuo alla regione; anzi, alla nazione. Era uno spostarsi dal Carlyle verso Mazzini; quanto era, in un patriotta esiliato, la seconda negazione della patria, considerata oramai, tanto nel caso dell'Italia che in quello della Polonia, in funzione di quella superiore realtà che è la razza.
Effettivamente, trovandosi a Parigi ed a Londra a contatto coi maggiori uomini della politica europea, il suo orizzonte mentale si era allargato, quanto l'uomo s'era sprovincializzato in virtù della vita mondana a cui il giornalista l'obbligava.
"In ogni caso noi siamo partigiani di Darwin...".
È un po' difficile dire se il suo professato darwinismo è posteriore od anteriore alla ricordata teoria delle razze. Noi pensiamo che sia posteriore; che sia anzi una sua derivazione. Certo l'acquisizione di tale teoria (che allora, viventi Chamberlain e Gobineau, era l'oggetto di lunghe appassionate discussioni) è nata in lui dal bisogno di organizzare il confuso mondo delle sue idee e di semplificare, con un sistema filosofico accessibile, i complessi problemi della nostra storia politica.
I suoi due volumi sulla Storia dell'Idea Italiana (Napoli, Pasquale, 1882) sono inspirati a tali esigenze, nonché a quella di dimostrare con prove scientifiche la fondatezza del patriottismo italiano. Il pensatore voleva giustificare l'insorto ed il romantico.
Il primo di detti volumi, che va dagli inizi preistorici al 1866, più che il secondo il quale va dal 1866 al 1880) ed è un voluto corollario del primo, vuol essere un'applicazione alla storia d'Italia delle tre leggi darwiniane dell'evoluzione selettiva, dell'ereditarietà e della lotta per la vita.
In aggiunta ed a fianco di queste è posta la legge di contraddizione stabilita nel vario dualismo fra le forze attive e quelle negative variamente impersonate in istituti ed uomini.
Ci sarebbe da chiedere in che cosa consista l'idea italiana, e come possa nascere, svolgersi ed affermarsi di fronte alla meccanica vicenda delle ricordate leggi darwiniane.
Il Petruccelli non sa altramente definirla che coll'identificarla coll'indigenato italico; vale a dire, col nucleo etnico mediterraneo appartenente alla razza indo-germanica che primo ha abitato le contrade italiane e persistentemente ha mantenuta la sua originaria fisionomia fisica e politica, nonostante le sovrapposizioni varie di popoli e di istituzioni. L'idea di cui il Petruccelli parlava era nient'altro che una esistenza, una naturale realtà regolata dalle stesse leggi che il Darwin aveva detto presiedere alla vita organica.
L'indigenato essendo, gli era giocoforza lottare per la sua esistenza contro i nemici che di lui avrebbero desiderato trionfare, ma che non vi sono riusciti in virtù della sua forte volontà di prevalere, nella lotta aiutato dalla legge dell'ereditarietà che anche delle sconfitte sapeva valersi, in suo favore utilizzando e trasformando le subite sovrapposizioni etniche e politiche, qualora non gli riuscisse di liberarsene e di debellarle.
Per il Petruccelli il nemico più odiato della razza indigena, dopo la romana aristocrazia conquistatrice ed imperialista della quale era il successore, era il Papato. Il quale, d'origine orientale cananeo-semitica, non poteva in verun modo confondersi coll'anima indigena, di cui era la vivente antitesi, formando il secondo polo della ricordata legge di contraddizione, che aveva chiamata in ausilio delle tre altre mentovate dal Darwin.
Posti i termini dell'antitesi nelle due anzidette realtà naturali e storiche, ne deriva che gli avvenimenti e le forze agenti dentro l'orbita della storia politica italiana sono in funzione o dell'uno o dell'altro, o della Chiesa cioè, o dell'indigenato.
Della prima è in funzione la razza franca alla quale il Petruccelli fa l'addebito di avere mediante l'opera dei re carlovingi, resa possibile l'egemonia temporalistica della Chiesa romana; del secondo è in funzione la Germania ghibellina e la razza di cui è la politica espressione, appunto per la comune origine indo-germanica, in grazia della quale il Petruccelli non si perita d'affermare che gli uomini de' barbarici eserciti invasori furono dai nostri lontani progenitori accolti quali dei fratelli, nelle nostre contrade venuti per riallacciare i primitivi legami della comune origine e del sangue!
Dalla scimmia a Maometto.
Quale conseguenza dell'applicazione di tale sistema alla storia, seguiva il denudare la storia medesima d'ogni carattere volontarista che fosse in grado di produrla, col naturalizzarla che faceva, e col renderla incarnazione del Fato.
Era del resto la logica del determinismo a cui non poteva sottrarsi.
Per il Petruccelli una conclusione di tal fatta rappresentò la terza ed ultima fase del suo scetticismo. Ad essa, che era l'espressione d'una penosa situazione fisica, corrispose un cambiamento di stato d'animo. Il quasi cieco e paralitico scrittore ed uomo politico che già aveva, in obbedienza ai suoi nuovi doveri di deputato, dovuto abbandonare la professione medica, dopo che il Governo borbonico gli aveva confiscato i beni, e che nonostante questo, anzi per tutto questo, doveva lavorare dieci e più ore al giorno per procurare a sé ed alla famiglia un magro pane; il vecchio e disgraziato infermo, dicevamo, che la benevola moglie doveva vestire e svestire come un bambino, aveva sufficienti motivi per disperare della vita e per vederla cogli occhi inquieti del pessimista.
Questo per quanto riguarda il movente psicologico del suo fatalismo. Il movente intellettuale era anche più profondo ed altrettanto serio. Colui che soffrendo aveva sperimentata l'immaturità politica del popolo italiano e la frivolezza de' suoi sentimenti, e della sua storia scrivendo aveva chiarita la gratuità del suo risorgimento a nazione unita, disperava oramai della capacità rivoluzionaria di tale popolo, pentito guardando il proprio passato di mazziniano e di garibaldino.
Ai piedi del Demiurgo.
Nel suo animo Cavour sostituì Mazzini. Il romantico disilluso che credeva impossibile un'insurrezione di popolo e che la sola fatta dal popolo italiano derideva, per importanza unitario-rivoluzionaria preferendo, ai moti del 1848 (coi quali "il gran patriarca della democrazia" aveva esaurita la sua missione di agitatore) i plebisciti del 1859, le annessioni e le discussioni parlamentari della Camera subalpina; il giornalista che non ignorava in qual misura alla diplomazia europea si dovesse l'unità italiana, amava credere più a Cavour ed a lord Palmerston che non al "pallido filosofo del Verbo di Dio incarnato nel Popolo"; giustamente pensando e ripetendo che: "l'Unità italiana è il portato dell'azione illuminata d'uno statista e diplomatico di razza, felicemente combinata cogli interessi della politica internazionale di cui s'era valso per dar corpo a quell'espressione geografica che era l'Italia prima del 1859".
Se lo scettico e lo storico erano in grado di apprezzare l'azione demiurgica del conte di Cavour ciò si doveva pure in gran parte ai pensamenti del darwiniano fatalista che la storia aveva meccanizzata e spogliata di ogni carattere volontarista.
Per il resto il demiurgo politico, il di cui campo d'azione trovava nella vita politica così cristallizzata dal novello fatalismo che gli dava la possibilità di manovrarla quale un mosaico od una scacchiera, era un'ulteriore incarnazione dell'Eroe caro al pamphletaire individualista dei primi tempi.
Qui giunto nulla aveva conservato di romantico: la sua storica oggettività era oramai una specie di cinismo che non ad altro credeva che alla potenza rivoluzionatrice della guerra, ed all'azione riformatrice della diplomazia.
Il profeta della Guerra Europea.
È opportuno ricordare che la guerra europea fu dal Petruccelli vaticinata in una forte pagina scritta a favore della Triplice Alleanza che allora allora conchiudeasi e contro gli irredentisti di quei tempi che tale alleanza non avrebbero voluta; a Bismarck preferendo Gambetta, dalla cui alleanza speravan d'ottenere la "redenzione" delle tridentine provincie rimaste dopo il 1866 all'Austria.
Le non nascoste simpatie per la Germania e per Bismarck, e l'odio nutrito per la Francia "nostra eterna nemica", vanno, noi pensiamo, innestate sul romantico-darwiniano tronco della teoria delle razze, nei riguardi delle quali, già lo abbiamo visto, il Petruccelli era convinto della nostra consanguineità coi tedeschi per la comune origine indo-germanica; quanto era convinto che i Franchi, essendo stati, traverso l'azione politica dei re carlovingi, e più recentemente, dei soldati di Oudinot e di Lamoriciére, i costanti amici di quello Stato nemico di origine cananeosemitica che è la Chiesa, siano per ciò stesso, i nostri naturali nemici.
Quest'opinione è senza dubbio eccessiva anche se non è da escludere che l'amico dell'anti-francese Pisacane e l'avversario del murattiano Saliceti (che nel '57 voleva regalare alla Francia le regioni meridionali, rendendo indilazionabile l'infelice spedizione di Sapri) non avesse, oltre i naturali risentimenti contro le proprie giovanili simpatie di insorto e di giacobino, le sue buone ragioni.
Tal gallica fobia non è del resto che un episodio, come lo è il suo anticlericalismo in funzione entrambi della sua darwiniana teoria delle razze, che rimane la sostanza viva del suo pensiero pessimista.
La visione epifanica.
Era in certo modo una visione epifanica dall'alto quella che al suo animo si presentava, e nella contemplazione di essa il Petruccelli, finalmente rappacificato colla storia e coll'Italia, sembrò quetarsi; assumendo la calma serena del fedele dalla Grazia estasiato e rapito.
Con tale visione negli occhi, già vecchio nel corpo e pure trasfigurato nell'anima, contento morì; segretamente aspirando di poter in un'ulteriore vita qualsiasi rinascere nella patria della sua donna e delle sue predilezioni: la felice Albione.
ARMANDO CAVALLI.
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