TRE PARTITICon questo articolo di G. Mazzali vogliamo aprire una discussione, non concluderla. Alcune affermazioni del nostro amico sono certamente discutibili: per es., la profezia sull'avvenire del massimalismo e l'affermazione che il partito comunista non ha seguito. Se si vuol stare ai fatti bisogna convenire che oggi il partito comunista è assai più forte del massimalista, che in troppe provincie si riduce a rappresentare situazioni personali. Il fatto stesso che il comunismo sia trattato come un movimento illegale polarizza verso il comunismo molti combattenti. Invece è vero che tutti e tre i partiti socialisti sono in crisi, che su tutti e tre incombe il pericolo del nullismo diciannovista e che specialmente tra massimalisti e unitari il bisogno di rinnovare i quadri è sempre più urgente. Ma il nostro pensiero su questo argomento come in complesso sull'avvenire del movimento politico del proletariato lo diremo a discussione conclusa. Ritorna in discussione il tema dell'unità socialista. Vecchio tema e vecchie variazioni. Già ne accennò l'Avanti! dopo la marcia su Roma in alcune note tematiche. Già ne approfondì il significato e ne fissò i termini concreti, politici, l'on. Treves in Critica Sociale. Ora la Sezione unitaria di Torino vota un ordine del giorno per la fusione pura e semplice di unitari e massimalisti. E c'è già chi parla di Comitati operai che sorgerebbero nei centri di provincia per attuare dal basso una unica organizzazione socialista. Stati d'animo più che maturazione di coscienze. Mormorazioni più che fatti concreti. La politica può essere anche sentimento, non potrà mai essere la proiezione di un vago, indefinito, inesprimibile sentimentalismo. Giustizia e Avanti! battagliano intanto con grande impegno. Ma esistono in Italia le condizioni obiettive dell'unità socialista? Noi crediamo che no. Storicamente, il problema non esiste. Un paese che non ha una sua esperienza socialista, non può presumere di avere saggiato sul terreno della realtà storica le varie scuole che si contendono la retta interpretazione della dottrina marxista né di essere in grado di giudicare a quale tendenza spetti il crisma della verità e il premio della fiducia alla Tertulliano. Il movimento socialista italiano più che una spontanea germinazione dell'ambiente italiano fu una importazione e una imposizione. Si cominciò a parlare di socialismo e a richiamarsi al filosofo di Treviri prima ancora che si saldassero quelle congiunture economico-politiche che sole permettono la formazione di un proletariato e di un partito socialista di classe. La storia dei fasci italiani e della insorgenza anticrispina dimostra la inconsistenza programmatica del primitivo socialismo italiano, la inattualità dei problemi che porse al suo sorgere, la impreparazione degli uomini chiamati a interpretare e condurre il movimento. Il socialismo politico che prefazionò (e non seguì) il movimento sindacale, o fu clientela di avvocati e circolo elettorale o non fu. La ideologia in cui si inquadrava era quella vittorughiana. Socialisti, anarchici, sindacalisti erano tante appendici del democraticismo cavallottiano. Era, insomma, il socialismo italiano fino alla guerra di Libia, un movimento sul proletariato e non del proletariato. In esso si accomodarono tutti quei giovani irrequieti che abbisognavano d'una qualunque sistemazione. Ad esso aderirono tutti quei professionisti che da un cristianesimo male digerito appresero la pietà per i poveri. Non fu risultato di sforzi, ma sintesi di combinazioni. Non fu coscienza, ma malessere spirituale. Fu positivista, non marxista, anticlericale perché antireligioso, partecipazionista e dunque anticlassista. Si pensi che al Congresso di Modena, dopo ben nove anni dalla formulazione dottrinaria di Genova, una mozione presentata da Turati e Treves e affermante "non potere e non dovere più oltre il gruppo parlamentare socialista sostenere sistematicamente coi propri voti l'attuale gabinetto", raccoglieva la metà dei voti dei congressisti. Il che dimostra - a contare poi i voti affermatisi su la destra di Bissolati - che la maggioranza del Partito non era composto di socialisti. Le eccezioni non contano. Semmai confermano la regola. La frazione rivoluzionaria, ad eccezione di Lazzari e qualcun altro, rimaneva inchiodata a una questione tattica e non metodologica: era forse fourierista, non rivoluzionaria. Pensate al Lerda, per esempio, che sognava e parlava quotidianamente di rivoluzione, mentre - come s'è poi visto al Congresso di Ancona - era un democratico imbibito di aceto proudhoniano. La stessa reazione blanquista iniziata e condotta da Mussolini al Congresso di Reggio Emilia, serví più ad oscurare che a chiarire il pensiero socialista, più a confondere che a precisare la fisionomia del Partito. Il blanquismo infatti - se inteso nella sua essenza e riportato alle sue origini - è una derivazione esasperata del liberalismo e una interpretazione metodologica affatto originale dei valori posti dalla rivoluzione americana prima, da quella francese poi. Un tentativo serio di enucleare un pensiero socialista italiano, fu fatto, con la Avanguardia, da Arturo Labriola ed Enrico Leone. Ma fu sterile di risultati forse perché in anticipo e perché comunque, per i modi e le forme del propria procedere, inattuale. Il periodo della metodica elaborazione socialista (quello della Critica Sociale fu di volgarizzazione, così come quello della rivista Socialismo di Enrico Ferri fu di trasposizione e di confusione) si inizia con l'Ordine Nuovo di Antonio Gramsci, il quale seppe far tesoro degli insegnamenti del Kautski della prima maniera, degli appunti di Antonio Labriola, delle critiche di Croce e della revisione di Sorel. Si ha un bel dire; ma è proprio colla fronda torinese che il marxismo in Italia è visto e studiato e applicato ai fenomeni sociali. Ma dall'Ordine Nuovo di prima della costituzione del Partito comunista ad oggi non si è fatto un passo innanzi. Le nostre idee, in materia di metodo e di tattica, sono rimaste al 1920. Su nessuna delle questioni fondamentali del divenire proletario si ebbero tesi degne di rilievo. Lo stesso contributo di esperienza e di dottrina che Lenin - con la sua organica e in certo senso geniale interpretazione della attuale fase imperialistica del capitalismo, con le sue formulazioni sul problema agrario, su la questione nazionale, su la tattica rivoluzionaria, ecc. - recò al marxismo quasi completandolo e aggiornandolo, non venne dai socialisti italiani verificato al lume degli ultimi accadimenti e quindi discusso minutamente per essere poi o accettato o negato. Così che gli avvenimenti precipitando, i socialisti furono costretti ad agire senza sapere come, senza averne i mezzi, senza averne predisposti gli animi. La scissione di Livorno (1921) avvenne quando non esisteva più alcuna possibilità rivoluzionaria. E quella di Roma (ottobre 1922) quando di collaborazione socialista nessuno voleva più sentire parlare. Seguì poi il fascismo, e la necessità di una tattica difensiva non permise l'approfondimento dei dubbi che sono nel marxismo stilato dai positivisti, né la costruzione di una forma mentis refrattaria ad ogni adescamento e repellente ad ogni ideologia democratica. Il fatto stesso - non smentibile - che non pochi capi socialisti non avessero, fino al gennaio di quest'anno, capito il fascismo al punto da considerarlo o un problema di polizia o una questione di gabinetto, dice tutta la inconsistenza strutturale e mentale del socialismo italiano, tuttora pregno di formule di scarsa vitalità e preda di errori. Ora, perché l'unità socialista fosse possibile e quindi doverosa, occorrerebbe che il processo di revisione e di chiarificazione fosse terminato, mentre è ancora in sviluppo, e che, questo che attraversiamo, fosse un momento di realizzazione e non di formazione. La permanenza dei tre partiti e delle polemiche di metodo e di tattica che ne conseguono, è invece indispensabile alla chiarificazione prima, alla fissazione poi del nucleo che dovrà incentrare e guidare le masse operaie. Gli unitari, non si sa bene ancora che cosa effettivamente siano. Non possono essere un partito riformista, se la guerra ha distrutto il margine di cui la civiltà capitalistica si valeva per concedere al proletariato in ascesa miglioramenti salariali e istituti sociali. Non possono essere - se non nelle intenzioni, un partito collaborazionista se, per l'oggi e forse anche per il domani, non c'è né ci sarà luogo a collaborazioni di sorta. Dovrebbero essere, dovrebbero avere il coraggio di essere... quello che sono: un partito di conservazione democratica, una specie di sinistra della classe capitalistica. Ma persistono nella insincerità dettata dalla ognora ritornante nostalgia socialista. Il Partito massimalista il quale vuole essere, e finirà per essere, la vera originale espressione politica della classe proletaria italiana, è ancora senza internazionale e popolato da sparuti gruppetti che lo vorrebbero trascinare a destra o a sinistra. Resiste e dura, è vero, pur senza grandi mezzi e senza grandi nomi. Ciò che testimonia che ha una funzione, un compito, una missione. E che vincerà: perché meglio risponde, pur così com'è, alle caratteristiche del nostro proletariato, perché in esso sono contenute tutte le attitudini socialisticamente novatrici, perché infine la dottrina che va delineando si illumina delle più dolorose esperienze. Restano i comunisti. Ma si vorrà forse dire che sono la ossificazione della logica e che in essi si esaurisce il pensiero socialista? Mai più. Siccome importata e affatto adattata alla realtà italiana, la loro organizzazione è destinata o a tramutarsi o a scomparire. La loro politica è tutta una contraddizione. Dovendo, ad un tempo, rispondere agli imperativi della dottrina e obbedire alle necessità statali della Russia, usano una strategia politica che sarà benissimo machiavellica o leniniana, ma non è certo conseguente e fertile. Le masse non la possono - fortunate, loro! - capire. Le parole d'ordine dei comunisti - rispondendo a una necessità interna di frazione e mai risultando la espressione sintetica di un modo realistico di concepire la vita sociale - non vengono accolte, nemmeno per dovere di disciplina, dagli stessi inscritti al partito. Stambureggiate sui giornali e urlate ai venti, lasciano sempre il tempo che trovano, mai incidendo una situazione, mai illuminando una mente, mai suscitando una volontà. Il contatto con le masse - come riconoscono i capi della sinistra napoletana - e il lanciamento intensivo delle parole d'ordine assicurato dall'Esecutivo centrale, sono delle frasi alle quali, più che una dissertazione, possono rispondere, e come rispondono!, i risultati. Adesso è di moda il leninismo e la bolscevizzazione come ultimo portato della scienza organizzativa comunista: ma Bordiga denuncia in questo preteso rafforzamento cristallizzazione e immobilizzazione. La Babele ha dunque i suoi tentacoli anche tra i comunisti, né, per ora almeno, è dato sapere quando e come il vento della disputa frazionista si tacerà. Questo pertanto è certo: che i comunisti, nel Paese, hanno pochissimo seguito, né potranno conquistarne molto di più in avvenire. Così che l'unico partito che possa vantaggiosamente raccogliere in prosieguo di tempo - e non le tradizioni gloriose aiutando, ché queste se mai pesano tanto al passivo quanto all'attivo - è quello massimalista, il quale, facendo propria, meglio vivendola, la concezione rivoluzionaria intransigente, può effettivamente addestrare le masse alla conquista del potere. Ma a patto di rimanere se stesso, di giungere a una sempre maggiore coscienza della propria necessità strumentale, di uscire dal tumulto delle chiacchiere per giungere a una più chiara consapevolezza e al dominio cosciente di sé e delle forze con cui manovrare, di darsi una più precisa e resistente concezione storica. A patto, insomma, di non fondersi e di non confondersi, né a destra né a sinistra. Una fusione, oggi, fermerebbe il corso della chiarificazione, né dimostrerebbe quale dei tre aggruppamenti politici abbia ragione di vivere e di vincere. Disorienterebbe anche gli orientati, ché siamo ancora in periodo di critica e di propaganda. Contrariamente a quanto può sembrare, il proletariato comincia solo adesso ad avere cognizione di marxismo e di socialismo, a rivedere il passato, a meditare su gli accadimenti, a intendere il senso della missione ad esso affidata. Il socialismo italiano, che sino a poco tempo fa si nutrì delle briciole di tutte le cadenti ideologie borghesi, solo adesso tenta di saldamente inserirsi nella concezione marxiana e di vigorosamente marciare in opposizione a tutte le costruzioni di pensiero che lo tennero prigioniero. Le polemiche si fanno sempre più aspre? Ma anche nell'arte dell'aggettivare prevalgono sempre i più forti, i più consci. Senza poi contare che una classe che si permette il lusso di manovrare contro partiti, è una classe in crisi di crescenza e non di sfasciamento. D'altra parte, se è vero che la tripartizione delle forze socialiste esiste solo in Italia, non è meno vero che l'Italia, oggi, - e purtroppo per noi! - va attuando metodi e forme di reggimento politico che negano la natura storica dello Stato liberale nel momento istesso che vorrebbero rivalutarne la struttura costituzionale. Io capisco che le borghesie di tutti gli Stati guardino con trepida attenzione all'esperienza italiana su le forme della cui stabilizzazione è azzardato anticipare conclusioni critiche. Ma anche capisco che terza e seconda Internazionale guardino ai partiti operai italiani con grande ansia e con profonda considerazione, seguendo attimo per attimo lo svolgersi delle rispettive attività di pensiero e di azione. Dal modo di essere, di comportarsi e di reagire del socialismo italiano, si avvantaggia tutto il movimento proletario internazionale. L'esperienza che il fascismo compie - e che è bene si compia - richiede nelle classi lavoratrici una più scaltrita sensibilità politica, un più affinato intuito storico e una acciajata coscienza umana. I vecchi schemi bastano a contenere la piena degli insegnamenti che scaturiscono dalla presente fase dell'evoluzione capitalistica? Le vecchie distinzioni sono sufficienti a catalogare ed esprimere le tendenze spirituali che si sprigionano dal tessuto dei nuovi rapporti sociali che la reazione imperante viene tessendo? Sono questi problemi di capitale importanza, che vanno posti come pregiudiziale in ogni scuola revisionistica del socialismo, e dalle cui risposte e soluzioni dipende, deve dipendere il nuovo atteggiarsi e schierarsi del socialismo e il nuovo attrezzarsi delle organizzazioni politiche che dall'urgenza socialista si dipartono. Noi rimaniamo attaccati al nucleo essenziale della prassi marxista. E appunto per questo riteniamo, fuori e contro ogni dogma, che la filosofia politica del proletariato debba nutrirsi e fortificarsi anche degli imprevisti contenuti nel movimento fascista e dei risultati del lacerante processo di disintegrazione e di successiva ricostituzione che affatica e tormenta la società. Il problema della unità socialista è quindi immaturo né può essere risolto che a posteriori, a conquista avvenuta, cioè, di nuove verità. Porlo oggi, e, quel che è peggio, proporsi di risolverlo senz'altro, è un tradire, sia pure per troppo amore, la causa che si intende servire. Oggi, solo in una preoccupazione si deve essere uniti: nell'assecondare in tutti i modi il faticoso travaglio del socialismo perché si evolva verso una concezione sempre più rigida, organica ed armonica del suo compito storico. Naturalmente, mai dimenticando la prassi che discende dall'esempio offerto da quel popolo - rubo a Cattaneo - innalzante su le ruine la sacra città: Una manu faciebat opus et altera tenebat gladium. Pensare e combattere. Costruire e difendersi. GUIDO MAZZALI.
|