Lettere al DirettoreIdee sull'uomo di StatoCaro Gobetti, Ho ricevuto e letto con piacere il libro Religione e Politica di Vito Giuseppe Galati. Ho letto sovratutto attentamente il capitolo su Nitti e a proposito appunto di questo saggio sento di dover fare qualche osservazione. Premetto che V. G. Galati, come moltissimi altri popolari, era un antinittiano. I popolari meridionali in parte notevole sono tuttora poco teneri dell'on. Nitti, sia perché lo ritengono, e molto a torto, massone, sia per l'influsso ch'esercita su di loro l'antagonismo spesso manifestato da Luigi Sturzo contro il Nitti, antagonismo che ricorda molto da vicino quello dell'on. Labriola e ch'essendo in fondo privo di contenuto sostanziale, sa molto di provincia. Constato ora quasi con gioia (anche perché mi lusingo d'aver io stesso influito per la determinazione) il fatto che un giovine battagliero, di buona intelligenza e di buona cultura come il Galati, abbia valuto rivedere il proprio pensiero su un uomo politico come Nitti. Meglio tardi che mai? Io non mi soffermo sui vari rilievi che il Galati con molta chiarezza espone nel suo saggio. Non può, a ogni modo, sfuggire come il Galati più che all'opera vastissima dell'on. Nitti ha preferito informarsi al libro di Vincenzo Nitti - libro il quale anche a causa del momento in cui apparve, non poteva essere diverso da quello ch'è - e ha preferito altresì attingere agli articoli di critica, della specie forse non troppo serena, di Luigi Sturzo e finanche agli scritti (L'Italia in rissa) di Ciccotti-Scozzese. Fu questi, per es., a muover contro l'on. Nitti l'appunto - che il Galati ripete senza citare la fonte - di eccessiva loquacità. Onde - noto en passant - se l'on. Nitti dopo quell'appunto fosse diventato meno loquace, io vedrei in ciò una ragione possibile per spiegarmi come il Ciccotti pubblicista "brillante" sia vissuto l'espace d'un matin. L'osservazione più importante nel saggio che c'interessa, si ha, a mio parere, quando e là dove il Galati mette in rilievo la tendenza dell'on. Nitti a sopravalutare l'Homo oeconomicus. L'osservazione non è nuova. Per primo la fece il Mussolini alla Camera nel 1921 in un discorso che per un bel po' fu ritenuto una specie di serenata... Il Mussolini notò (ed era nel vero se si proponeva di mettere in evidenza una delle più spiccate caratteristiche dell'opera del Nitti) come l'on. Nitti guardi ogni questione sovratutto dal lato economico. Attraverso le parole del Galati, quel ch'è un merito, diventa un difetto e purtroppo un difetto grave e caotico... Afferma egli infatti: "È certo che il Nitti attribuisce all'homo oeconomicus - che è poi una entità astratta su per giù pari a quella dell'uomo medio del Quetelet - un'importanza esagerata e nociva. Ogni situazione nella sua indagine è ridotta in cifre. La capacità di un uomo è in ragione diretta della sua produttività. La Germania, ad esempio, vale più della Francia perché i suoi prodotti sono di consumo largo e vivo - carbone, ferro - mentre quelli della Francia sono di consumo forzato e corrotto: profumi e sottoprodotti... È una constatazione incontestabile (!!); ma non è un ragionamento completo". E dopo aver posta in modo così peregrino la questione, il Galati sente anche il bisogno di spiegare perché il ragionamento non è completo! Stia tranquillo l'amico Galati che l'on. Nitti conosce molto bene l'Europa e conosce ancor meglio tutta la ricchezza dalla Francia e dello spirito democratico francese è un grande ammiratore. L'episodio, diciamo così dell'acqua di Colonia... l'ho raccontato io stesso al Galati, il quale non lo riferisce esattamente. Quando più infieriva l'esosa persecuzione contro l'on. Nitti, persecuzione cui tutti sanno non erano estranei alcuni uomini politici francesi, una sera in Napoli, nel suo studio a palazzo Tabler, mentre si parlava in un cerchio di amici tutti molto devoti al Presidente, di non ricordo quale errore commesso dalla Francia, l'on. Nitti portando per un momento la conversazione dal serio al faceto e mostrando di non dare alcun peso alle sue parole, osservò che se l'esportazione inglese risultava in prevalenza di carbone, tessuti, ecc., e se l'esportazione tedesca si manteneva costante agli ottimi manufatti, quella francese spesso e troppo sapeva d'acqua di Colonia?... Come si vede, l'episodio nei suoi veri termini cambia non poco per la forma e il contenuto!... A ogni modo, rimane l'osservazione del Galati, tendente a mettere in cattiva luce la più spiccata caratteristica dell'attività politica e scientifica dell'on. Nitti. E senza dubbio, l'autore di Politica e Religione, nell'esprimere in proposito il suo pensiero, non rifugge né dall'iperbole né dal semplicismo. Ma, ad onor del vero, il Galati non é il solo a peccare nella fattispecie d'inesattezze e d'esagerazione. Influiscono molto nel determinarle, sia il fatto che l'on. Nitti è notoriamente cultore di scienza finanziaria, sia la circostanza dell'avveduta, sorprendente opera ch'egli, quale ministro del Tesoro, esplicò dopo Caporetto, sia fors'anche i numerosi studi - anche se ignorati da qualche filosofo - che l'onorevole Nitti dedicò alla questione meridionale, alla cui base - come dopo di lui abbiamo dimostrato in parecchi - è sovratutto un complesso di problemi economici. Pertanto, se si astrae dalle esagerazioni e si guardano le cose con serenità, non si può non convenire ch'è appunto questa tendenza del Nitti a preoccuparsi con persistenza e con praticità dei fattori economici, ciò che in lui affida e rivela l'uomo politico di primissimo ordine nel senso inglese della parola, il vero, l'autentico amministratore. Purtroppo, in Italia, per un complesso di ragioni (pauperismo, incoltura, frequente assenza di spirito civico, dominio di classi pavide perché non del tutto degne dalla loro posizione sociale, parassitismo burocratico e industriale, ingiustizia del sistema tributario, contingenze monarchiche, ecc.). vengono a prodursi (non sempre spontaneamente) situazioni tali che a superarle sembra (e a torto!) non possa e non debba esser chiamato se non l'uomo di polizia, il questore di larghe vedute e a poing. La lunga abitudine di queste bisogne assai tristi e il fatto stesso che in Italia il Presidente del Consiglio è quasi sempre anche Ministro dell'Interno, han fatto sì che la mentalità media del popolo è portata a identificare l'uomo politico con l'uomo di polizia. La verità si è che di uomini polititi, di amministratori cioè degni del nome, l'Italia finora non ne ha avuti che uno solo: Cavour. E quanti conoscono la storia, ben sanno come lo statista piemontese avesse anche lui l'assillo delle questioni economiche, come fosse un grande studioso di economia e come appunto perché egli volle adeguare l'economia nazionale al ritmo dei paesi più civili, cozzò spesso contro l'impopolarità che qualche volta divenne aggressiva fino al linciaggio! Politica in fondo altro non significa che amministrazione, e nel senso più comune della parola. Una attività cioè da cui emana una serie di provvedimenti apparentemente d'indole varia ma sostanziamente d'indole economica, vale a dire tutti diretti, vuoi in modo palese vuoi in modo recondito, al raggiungimento dello stesso scopo: il benessere e la ricchezza d'una categoria sempre più vasta di cittadini. Con le parole tasse e bilancio s'indicano per lo meno i tre quarti di ciò che è la politica d'uno Stato. Gli è per questo che se si mette la politica fuori della porta essa rientra dalla finestra. Gli è per questo ancora che le preoccupazioni d'indole finanziaria non sono mai troppe per un uomo di Governo. L'amministratore degno del nome certo si propone i fini più disparati e più difficili, ma che sono anche i più nobili. Ed egli governa. Suscita e guida cioè una lotta politica sana. Resiste alle basse tendenze delle classi rapaci e del popolo. Smussa le angolosità. Promuove il benessere, l'educazione, l'incivilimento (conseguenza della ricchezza collettiva), le conquiste graduali e sicure della Nazione. Agevola il sorgere d'un'élite politica salda e ben preparata. Ma sovratutto mira alle cifre, perché sa che il pauperismo aumenta se il disordine finanziario avviene, e ciò, in ispecie in un paese ove gli istituti liberali non sono molto saldi, significa anche perdita della libertà. Le classi ricche e potenti il cui patriottismo è a due facce sono sempre poco disposte a sopportare grandi pesi, ed esse sanno e possono ben resistere a ogni governo legale. D'altra parte, per riversare quei pesi sui non abbienti è certo più acconcio e più propizio un governo di polizia. Così si spiega come uomini di grande intelligenza e di sicura fede democratica, quali Nitti, Georges, Rathenau, Caillaux, ecc., dopo la guerra incitavano quasi angosciosamente alle economie: queste in realtà rappresentavano l'ultima trincea degl'istinti liberali. I compiti e gli scopi dell'uomo di polizia sono invece assai semplici; anzi uno è lo scopo e uno è il compito: promuovere nel campo politico il quietismo stagnante, difendere nel campo economico e in ogni caso le classi dominanti da qualunque movimento innovatore, da qualsiasi minaccia seria contro i loro interessi precostituiti; tanto più difenderle con ogni mezzo e senza scrupoli, quanto più quelle classi vanno perdendo in contenuto morale e ideale. Il Governo di polizia, siccome spesso concede una apparente paternalistica libertà, di volta in volta a osservatori di facile contentatura può apparire anche liberale. In fondo esso è reazionario e ritarda il ritmo del progresso civile e sociale. Rifugge dai grandi problemi economici, anche se la risoluzione dovesse decuplicare la ricchezza nazionale, affronta e risolve bene invece i piccoli problemi marginali e quasi quotidiani. Anzi che le élites politiche, promuove il sorgere di vaste clientele che divengono potenti e vastissime se ad esse in modo tacito o palese finiscono con l'aderire anche parte degli organismi operai. I compiti del vero amministratore tanto più riescono gravi e difficoltosi, quanto più retrogrado e incivile è il popolo che egli governa. La facilità del compito dell'uomo di polizia invece è in ragione diretta dell'ignoranza e dell'assenza di spirito civico della nazione. E ciò spiega come uomini molto mediocri e d'idee limitate, passino alla storia per politici eminenti. Quando una nazione, per sua triste e disgraziata disavventura è persistentemente retta da un governo di polizia (es.: la Russia e l'Austria), se a lungo andare la rivoluzione che è sempre alle porte scoppiando non riesca a liberarla, diventa un anacronismo e precipita, attraverso le improvvise megalomanie imperialistiche, gli odi e le lotte intestine, nell'abbrutimento e nella dissoluzione. In Italia l'uomo di polizia per eccellenza è stato Giolitti. A lui va contrapposto il Nitti. Se io penso alla diversa attività esplicata dai due uomini di Stato, anche se limito il mio campo di osservazione a un breve periodo quale quello che va dal 1919 al 1921, trovo esempi lampanti per chiarire le idee da me sopra esposte. Il Nitti, affrontando l'impopolarità, odi e maldicenze, inizia senz'altro l'opera tendenti a redimere lo Stato dalle clientele esose e soffocanti e tendente altresì a portare la lotta politica in un campo più sano, più onesto e più elevato. Uno dei principali mezzi cui ricorre, sono le elezioni politiche fatte (con grave scandalo degli avvocati meridionali!) in piena libertà e a sistema proporzionale. Giolitti tenta il ritorno al Collegio uninominale e non riuscendovi, procede alle elezioni more solito. Sfrutta in ispecie le beghe, l'ignoranza e l'apatia del popolo meridionale. Il primo affronta le basse tendenze del popolo per migliorarlo, per iniziarlo all'esperienza amministrativa e politica. Il secondo alimenta e sfrutta per fini di polizia, quanto di più tristo sia nell'animo nostro. Nitti, in un solo anno di governo (giugno 1919 - giugno 1920), nell'anno più turbolento, quando sembrava che la ragione si fosse smarrita, quando altresì pesavano sul bilancio dello Stato ancora grandissima parte delle spese di guerra e vigeva il prezzo politico del pane, resistendo alle più pazze e più strane pressioni che partivano da destra e da sinistra, dall'alto e dal basso, riuscì con sforzi titanici a ridurre il deficit del bilancio, dall'allarmante cifra di 22,775,7 milioni (1918-1919), a quella più tranquillante di 7,885,9 milioni (1919-1920); e non solo si evitò il tracollo del cambio, ma il valore delle lire (ciò che ora sembra un miracolo!) si mantenne alto, oscillando tra i sessanta e gli ottanta centesimi. Giolitti alimenta le bande armate (fenomeno appunto di polizia), ma nello stesso tempo, per gettar polvere negli occhi alle organizzazioni proletarie, si dà arie di demagogo: lascia perdere l'Albania, lascia occupare le fabbriche, inizia una politica finanziaria disastrosa (nominatività dei titoli, confisca dei profitti di guerra, ecc.). Importa poco a lui che il decifit torni a salire da sette miliardi (1919-1920) a diciotto miliardi (1920-1921). Ciò, anzi, agevola il suo giuoco aumentando l'allarme. Nitti resiste ad ogni smodata richiesta, sia che parta da banche sia che parta da industriali rapaci. Giolitti concede l'obbobriosa tariffa doganale del 1921. Che le Isole e il Mezzogiorno siano perciò sacrificati a lui poco importa. Quello che gli importa invece è l'appoggio degli industriali, che questi cioè aderiscano a una piuttosto che a un'altra politica... Quello che gl'importa, gli è che il disagio delle classi medie e le lamentele aumentino - Il resto verrà da sé... Nitti, in un momento in cui tutto sembrava sfuggire al controllo della Stato, e quando la forza pubblica era del tutto insufficiente (27.000 carabinieri, elevati poi dallo stesso Nitti a 70.000), salvò la libertà e impedì la rivoluzione bolscevica. Con Giolitti si crea il fascismo e... si appresta la marcia su Roma. Quando il giuoco sarà completo, la libertà sarà perduta; ma le vecchie caste avranno modo di riconsolidarsi e molto bene. Dal popolo tutto si potrà pretendere. Ed esso tutto pagherà... anche i debiti contratti con gli anglo-sassoni... Ogni salmo finisce in gloria! Gli stessi governi di polizia non perseguono quindi - per quanto in senso gramo e unilaterale - che scopi squisitamente economici. E per ora credo basti. Come vede, caro Gobetti, ho profittato dell'occasione fornitami dal saggio del Galati, anche per esprimere il mio pensiero su alcune idee e circostanze su cui forse - e in ispecie per il Mezzogiorno - non si insisterà mai abbastanza. GIUSEPPE CAPPA.
Questa lettera, per gli uomini e le questioni che mette in causa, sui quali un giudizio storico non è ancora fatto, ci sembra destinata a sollevare discussioni interminabili. Commentarla da parte nostra sarebbe dunque prematuro: alcuni rilievi su Sturzo e Giolitti, p. es., non sono completamento accettabili. Noi siamo stati i primi a mostrare gli errori e le colpe di Giolitti nel 1921: ma un giudizio storico su Giolitti deve pure tener conto della sua opera prima del 1910. Tuttavia la lettera dell'amico Cappa è utile in quanto contribuisce alla necessità di giudicare più serenamente la politica del dopo-guerra, sfatando le leggende e le diffamazioni di uomini che si sono venute iniquamente accreditando.
|