La Ginevra italiana

    Che l'Italia abbia una piccola Ginevra, è cosa nota, dico all'estero. Quanto a noi è inteso che cotesta nostra Ginevra debba rimanere un segreto.

    Ma, due ore di ferrovia da Torino, tre minuti di strada per viali ombreggiati da platani e ippocastani, ed eccoci nel cuore di questa minuscola Ginevra, di questa graziosa e linda Torrepellice, e giunti davanti alla Fontana che è dono di un Re al popolo, martoriato per secoli a causa della sua Bibbia e del suo Cristo, ma fedele ai suoi Principi, ordinati da Dio a compiere l'unificazione italiana.

    Sul fronte della Fontana, si legge questa dedica: "Il Re Carlo Alberto - al popolo che l'accoglieva - con tanto affetto".

    In genere le lapidi portano incise le parole pronunziate da un popolo o da un rètore all'indirizzo di un Re. Su questa pietra sono incise le parole che un Re volle dettare per un popolo.

Giornali, librerie,
chiese e scuole.

    Questa cittadina di 5000 abitanti, richiede al più affrettato dei suoi visitatori parecchi giorni di sosta per narrargli tutta la storia secolare dei valdesi e per mostrargli nella pietra le stigmate del martirio, e, nel ritmo della giornata che trascorre, i segni della sua nuova vita.

    Cinquemila abitanti, dicevo. Ma con quattro giornali locali, uno scritto in francese e tre in italiano: L'Echo des Vallées, La Voce del Pellice, Il Pellice, L'Avvisatore Alpino. E con parecchie librerie, nitide e lucide, con un'accurata esposizione di libri negli scaffali e nelle vetrine che non può non sorprenderti, specie se ti ricordi di certe grosse e pigre cittadine della penisola, magari con sessantamila abitanti e con qualche libreria che è in fondo una rivendita di carta per gli scolari e per gli azzeccagarbugli.

    Qui, come a Milano, come a Torino, a Roma, puoi trovare gran parte delle novità del giorno: le nuove collezioni dei migliori editori italiani sono tutte a portata di mano. E c'è il reparto delle belle edizioni d'arte.

    Se ti ricordi per la trentesima volta dei cinquemila abitanti, dovrai venire alla rallegrante conclusione che qui la percentuale degli analfabeti dev'essere molto bassa, dico non fra i cittadini, ma fra le bellissime mucche che danno il burro fresco e saporito al vecchio Hôtel de L'Ours, dove hai pranzato iersera con gran soddisfazione della tua anima.





***

    Battendo il viale maggiore, passi in rassegna una serie di umili ma vivi monumenti. Ecco il Tempio Valdese, dal corpo stretto fra due agili torri. Se è giorno di domenica, una folla di valligiani si assiepa presso la porta ad archi rincassati. Se varchi la soglia, qualche tuo venerando pregiudizio sarà messo a dura prova.

    Questa imagine della Casa di Dio, affidata tutta alla mano rude e potente dell'architetto, come se le altre arti non fossero ancor nate, il cui disegno non si spezza se non per lasciar filtrare la luce da un tramezzo di tiepide vetrate, che riescono a ordinarsi e a configurarsi in simboli, fa subito presa sul tuo spirito, e ti spinge ai piedi dell'Eterno.

    Una sorpresa ti aspetta a due passi dal Tempio.

    È il candido palazzo su cui leggi Convitto Valdese. Questo edifizio che accoglie gli studenti di liceo che da ogni parte d'Italia vengono a studiare a Torrepellice, sotto la guida di professori valdesi, è un piccolo monumento. Strana idea... che mi fa pensare a certa poesia in prosa che va meglio di tanti bei mucchi di strofe con versi ritmici e con rime. Mi spiegherò meglio, dicendo senz'altro che questo edifizio scolastico è dedicato ai caduti. Varcata la soglia, sulle pareti laterali dell'ampio vestibolo si leggono incisi in oro i nomi dei cinquecento valdesi morti sul campo.

    Non v'è dubbio che una simile idea, diffusa e applicata in larga scala, apporterebbe un danno incalcolabile a questa Italia perpetuamente infestata di marmoree cavallette.

    Ad aver tempo, e a riflettere un po' sui cinquecento morti offerti alla Patria da un così piccolo popolo di montanari, di artigiani e di piccoli borghesi, si potrebbe trarre la malvagia conseguenza che questa religione fatta di Bibbia senza commenti e di chiese senza le belle leccature dei pittori e senza gli scherzi, spesso così grotteschi, dei liberi scultori, dovrà avere esercitato il suo bravo peso sulle ossa di tutti questi eretici, per spremerne tanto sacrifizio e tanto sangue.





Il Sinodo.

    Ma, a intendere pienamente tutta la capacità di rinnovamento spirituale che queste poche migliaia di alpigiani portano con sè, e la sostanza degli ideali religiosi che da secoli li fa denominare valdesi ed eretici più che cristiani, occorrerebbe vederli raccolti nelle loro annuali assisi ecclesiastiche designate col nome di Sinodo.

    Il Sinodo è la suprema magistratura religiosa dei Valdesi delle Alpi e dei Valdesi sparsi dovunque in Italia: a Torino, a Milano, a Roma, a Catania, a Messina, a Palermo e nelle Colonie della lontana Argentina.

    Tutti gli anni, ai primi di settembre, da ogni chiesa, da ogni gruppo di fedeli, si partono per la città storica due delegati, un ecclesiastico (pastore) e un laico. L'assemblea sinodale è composta in numero eguale di ecclesiastici e laici.

    Alla seduta inaugurale, verificati i mandati, nell'aula sinodale, si compone il corteo che s'avvia al Tempio maggiore. In testa il predicatore d'ufficio, nella caratteristica toga; seguono il Capo della Chiesa, il Collegio dei pastori e laici che rappresentano il governo della Chiesa; i delegati esteri venuti espressamente a rappresentare le Chiese amiche di Scozia, Svizzera, America, ecc.; il corpo del pastori, il corpo dei laici. Quindi il Sinodo comincia i suoi lavori che durano un'intera settimana.

    Esaurito l'esame della vita spirituale della Chiesa e delle sue finanze, l'assemblea si stacca agilmente dal passato e volge il suo sguardo all'avvenire. Liturgia, disciplina, costituzioni, regolamenti, tutto può essere sottoposto a revisione, a modificazione, secondo le esigenze della comune esperienza. E così la Chiesa si sottrae ai pericoli di certe fatali cristallizzazioni.

    S'intende che il Capo della Chiesa e il governo di essa (collegio di nove membri denominato Tavola) sono sottoposti al voto di conferma o di revoca del Sinodo.

    Questi cenni bastano per far comprendere che siamo in regime ultrademocratico e repubblicano.

    Ma, a vederla funzionare un'ora quest'assemblea, il pensiero si trova spontaneamente parole più esatte per formulare il suo giudizio.





    Dov'è il Capo della Chiesa?

    Chi è troppo forestiero dentro l'aula lo scambierà certamente con quella figura ieratica di vecchio assiso sulla sedia presidenziale. Invece non è così. Chi presiede il supremo corpo legislativo della Chiesa non è il Capo della Chiesa, la cui opera dev'essere appunto riveduta e discussa sia dai pastori che dai laici. In questi giorni di dibattito, la Tavola in effetti non ha più alcuna funzione, è come interdetta. Tutto è nelle mani del Sinodo e del Seggio eletto per dirigerlo.

    Il Capo della Chiesa e i membri del suo governo, se vogliono parlare, se vogliono illustrare le loro idee, se debbono difendere i loro progetti, non hanno da fare che una cosa semplicissima, quello che fa il simpatico commerciante, rappresentante laico della Chiesa di Messina, che si alza e chiede al presidente del Sinodo la parola. Il signor Moderatore non aggiunge alla richiesta, necesaria per tutti, che il gesto grave e squisito connaturato col suo altissimo ufficio e con la realtà viva della sua persona.

    È così che si può assistere a duelli oratorii singolarissimi, per esempio, tra un giovane pastore che rappresenta una tendenza rigoristicamente ecclesiastica nel risolvere il problema di accostarsi alla gioventù italiana, e un professore-giornalista che ha la sua cospicua posizione spirituale nel vasto consesso, e si fa leader di una tendenza moderatrice, e riesce a far convergere l'attenzione di tutti sulla precipua necessità di portare l'Evangelo ai giovani senza preoccupazioni ecclesiastiche.

    È così che si può assistere - e non è raro - anche a uno scambio di battute di eloquenza, rapide, concise, ricche di significato, tra un semplice laico e il Capo supremo della Chiesa.

    Quando si vede funzionare così questo Sinodo Valdese, e seguendolo fino all'ultima seduta, si giunge alla celebrazione della Comunione, alla quale prendono parte ordinatamente tutti i pastori e i laici che compongono l'assemblea sinodale, bevendo tutti allo stesso Calice, in un profondo silenzio, che stupisce se si pensa che la sola galleria raccoglie un migliaio di fedeli che assistono alla celebrazione; si sente che le parole repubblica e democrazia non bastano più ad esprimere lo spirito che qui regna, e il pensiero gioisce d'incarnarsi nella parola fraternità senza profanarla.





Una cartolina postale.

    A tanta fraternità s'accompagna una semplicità così bambina e primitiva che ti fa dubitare di questi tuoi stessi occhi che ti giurano che sei fra gente che veste l'accurato abito borghese con sparato bianco e cravatta nera.

    Ecco, per semplificare, un episodio:

    Il sig. Moderatore domanda la parola: - Signori, mi giunge in questo momento da Ginevra (dalla vera Ginevra) una cartolina con un annunzio che certamente v'interessa. Ve ne dò lettura... - E legge.

    Per intendere il laconico messaggio, occorre che io spieghi.

    A Ginevra, la riapertura della sessione della Società delle Nazioni si inaugura con un culto di rito protestante. Il Concistoro della Chiesa Nazionale Svizzera aveva già invitato il pastore valdese Giovanni Rostagno a predicare in quest'occasione di eccezionale importanza a un popolo raccolto intorno ai rappresentanti delle più potenti nazioni del mondo.

    Ebbene, la cartolina, scritta dal pastore Rostagno, annunzia che, grazie all'Onnipotente, nella cattedrale di Ginevra, la cerimonia religiosa si è svolta in maniera veramente solenne, che la sua predicazione ha trovato consensi ed entusiasmi, che pertanto il coraggioso discorso cristiano sarà pubblicato in quarantadue lingue...

    Quest'annunzio così importante, che tocca così intimamente il legittimo orgoglio di una Chiesa che si sente ancora addosso i flagelli delle persecuzioni - lo ripeto, per chi stentasse a crederlo - è recato in una semplice cartolina postale! come se Marconi non fosse altro che un pessimo Giulio Verne.

    Tornano in mente certi brani di cronaca che i nostri quotidiani ci recano infallibilmente in tutte le quattro o sei edizioni del giorno: "Comune di X. Elezioni del segretario politico. Furono spediti telegrammi di consolazione al Presidente del Consiglio, a S. M. il Re, al Papa, eccetera...".





Un artista valdese.

    Ma anche se affari urgenti vi chiamino, o anche se la borsa vi dica improvvisamente con argomenti categorici che la vostra villeggiatura è finita, è da bestia partirsene da Torrepellice senza aver prima infilato la strada che va a Villar, a Bobbio, e quindi al Sibaud, il luogo dove, dopo il tragico e glorioso rimpatrio dall'esilio, i valdesi giurarono fedeltà agli ufficiali e gli ufficiali giurarono fedeltà al popolo, invocando le pene della eterna dannazione su chi per minaccia di martirio o di morte abiurasse la fede o lasciasse la patria. Ed è da bestia tornarsene, senza aver battuto val d'Angrogna e senza aver visto coi propri occhi la Chieisa d'la Tana.

    Anche perché per via potrete incontrarvi con Paolo Paschetto, che è pittore, si sa, ma sopratutto valdese. Dispostissimo quindi a piantare magari il suo cavalletto e a iniziare i vostri occhi ai segreti della montagna.

    Infatti la casa di Paschetto e il suo studio sono a Roma. Ma la sua anima è qui. Qui è il suo ciabot, il suo casolare campestre, fatto pezzo a pezzo con le sue mani di artista, e anche di muratore, di falegname, di contadino.

    Ecco, Paolo si compiace di scoprire, dopo tre anni, che il ciabot fu costruito su un terreno tutto pietra e spine. Come se fosse scritto nella Bibbia che perfino gli alberelli che ora crescono intorno al ciabot dovevano essere piantati dalle sue mani.

    L'architettura del ciabot, il disegno delle facciate con le vetrate a rulli, con le ringhiere in legno tornito all'antica, sono una fatica tutta sua. I mobili delle stanze, fino ai gingilli, alla tradizionale scatola del pettine, per esempio, ai giocattoli dei bimbi, agli utensili di cucina, alle mensole, agli arazzi, alle stoffe, alle maniglie e ai lucchetti delle porte, sono frutto delle sue pazienti ricerche, del suo geloso amore per la sua terra.





    Mentre l'antica casa valdese, l'antica casa piemontese delle Alpi sta per tramontare, assaltata da ogni parte dai villini borghesi, con le dannate linee del liberty, invasata com'è di tutto ciò che sa d'infame e di forestiero, Paolo Paschetto la difende come un soldato. La casa in cui il soffio mortifero della vita di città non è ancora penetrato, è l'incarnazione dell'antica razza e dell'antica fede. Bisogna dunque difenderla coi denti e conservarla a prezzo della vita.

    Ce n'è voluto del buono per piegare il fabbro a battere le maniglie che non si facevano più da mezzo secolo. Ma il fabbro ha dovuto farle lo stesso. E a certi mobili ha dovuto mettere mano Paolo, non solo con la matita, ma col martello e la sega.

    Ecco, non manca un vecchio arcolaio, uno di quegli arcolai che ricordano i bei tempi in cui tutte le fanciulle vestivano l'abito paesano, e cingevano le belle cuffie bianche. E non importa che la moglie di Paolo sappia solo dipingere. Perché un arcolaio, in un vero ciabot, non può, non deve mancare.

La Chiesa della Tana.

    Ancora mezz'ora di cammino, sempre in salita, e siamo alla Chiesa della Tana.

    Vederla dal di fuori soltanto è uno spettacolo tremendo.

    Una catasta di lastre gigantesche che Dio stesso ha estratto dalla montagna. Blocchi enormi, scuri, taglienti, che strapiombano a sghembo gli uni sugli altri. Sembra che questa massa informe tutta accigliata, tutta stravolta e minacciosa, debba da un momento all'altro franare ai tuoi piedi. In fondo e in basso, tra le pieghe di queste pietre ciclopiche, c'è una piccola apertura. Spèzzati un poco in due, striscia carponi, entra e accendi il tuo mozzicone di candela. L'anima trema, il respiro manca. Lo spirito, risospinto da un turbine diaccio rifà in un attimo otto secoli di storia, di angoscia di martirii. E i macigni pencolano nel buio sulle tue ossa. Sei vivo. Ma non sai se di qua o di là dalla terra. Senti faccia a faccia la Morte e l'Eterno.





    Quando, assuefattoti all'incerta luce, puoi misurare l'ampiezza di questa Chiesa sorta senza che la mano dell'uomo porgesse una pietra, di questo sacro rifugio che Dio stesso volle costruire, e puoi palpare il sasso su cui per secoli fu posata la Bibbia, ti senti un groppo alla gola e un tumulto oceanico nel petto.

    Tu non vedrai mai più sulla terra cosa più tragica di questa volta alta e buia in cui, credi o non credi, vedi faccia a faccia Dio.

    Se indugi a pensare che qui, centinaia di eretici rimasero chiusi, attorno alla Bibbia; mentre i cristiani armati, fuori, riempivano la buca di rami verdi di castagni, tagliavano in furia ramaglia fresca e ve l'accatastavano a montagna e vi davano fuoco, perché l'eresia bruciasse con le ossa stesse degli eretici, corri certo il rischio di strapparti dal cuore il maledetto tarlo dell'orgoglio, di strozzare il tuo cristianesimo all'acqua di rose, e di farti eretico valdese.

    O almeno intendi tutta la forza di questo piccolo e rozzo popolo che accettò per il suo Cristo, la beatitudine suprema: della persecuzione, dell'esilio e della più barbara morte.

    E ti persuaderai benissimo come un valdese, che abbia pregato una sola volta nella Chiesa della Tana, non faccia gran caso dei pazzi venti della stagione, e trovi tempo per beffarsi di certi ingenui mea culpa, come questo affidato da Gioberti al Primato: "Anche i Valdesi furono talvolta crudelmente perseguitati; e giova a noi cattolici confessarlo pubblicamente, a ciò niuno ci accusi di connivenza con gli errori dei secoli scorsi: giova ricordarlo e ripeterlo a noi stessi, per animarci a riparare con tanto più amore verso di quelli i torti dei nostri avi".

    Torrepellice, settembre, 1924.

CALOGERO BONAVIA.