Oro americano

    Le trattative allacciate, ed ora in via di riallacciamento dal Governo italiano col Tesoro americano per la sistemazione del nostro debito di guerra, hanno riaperto il cuore di molti nostri connazionali alla speranza di vedere affluire nel nostro Paese un fiume d'oro americano, che dovrà servire a rinvigorire il nostro apparato industriale.

    Il Sen. Einaudi sopra il Corriere della Sera e "Observer" sopra Il Secolo hanno trattato l'argomento dell'interesse che l'Italia potrebbe avere a vedersi giungere, in epoca più o meno prossima, un carico di oro americano, e sono giunti a conclusioni poco ottimistiche circa il benefico effetto di tale oro.

    Io mi riprometto di tornare a trattare il predetto argomento, vedendolo sotto un punto di vista diverso da quello secondo i quali lo hanno esaminato i due illustri sopranominati scrittori.

    a) L'industria nazionale si trova in grado di poter sfruttare economicamente, cioè utilmente, l'apporto aureo americano?

    Il maggiore impiego di capitale in un'industria non si ripromette altro scopo che quello di un sempre crescente incremento della produzione, da ottenersi o mediante l'ampliamento dei mezzi produttivi attualmente adoperati o mediante la sostituzione di quanti mezzi con altri più perfezionati, utilizzanti gli ultimi risultati dell'incessante progresso scientifico.

    L'aumento della produzione richiede come necessaria base la possibilità dei mercati di consumo di assorbire la maggiore quantità di prodotti ottenuti. Il problema che dunque bisogna esaminare è quello della possibilità di tale maggiore assorbimento.

    Il mercato nazionale, secondo il mio modesto parere, non può rispondere degnamente alla maggiore offerta di prodotti che l'industria nazionale avanzerebbe in seguito all'aumento della produzione.

    Il crescente rialzo dei prezzi, fattosi sentire da vari mesi, non ha fatto altro che ridurre in una misura sempre maggiore la potenza d'acquisto dei salari degli operai e degli stipendi dei ceti medi, che costituiscono la parte più importante tra le classi consumatrici, e che, per necessaria conseguenza, si vedono costretti a devolvere i loro guadagni unicamente, o nella quasi totalità, ai consumi più necessari.





    Né è da pensare, almeno in un primo momento, ad una riduzione di prezzi che potrà permettere alle classi consumatrici italiane di assorbire tutta o gran parte della maggior produzione, perché quest'incremento della quantità di prodotti non si potrà avere che mercé un inasprimento dei costi di produzione. Per produrre di più è necessario consumare maggior quantità di materiali ed impiegare maggiore mano d'opera. Materiali e mano d'opera che dovrebbero essere richiesti sul mercato e produrre inevitabilmente quell'effetto che ogni aumento di richiesta produce, cioè l'aumento del saggio dei salari e dei prezzi delle materie impiegate nell'industria. Aumento di prezzi che non potrebbe non causare quell'inasprimento dei costi di produzione cui ho innanzi accennato, inasprimento che a sua volta costringerebbe gli industriali a rialzare i prezzi dei prodotti e chiudersi così in un circolo vizioso che perpetuerebbe l'impossibilità che il mercato interno ha di assorbire una maggiore produzione industriale.

    Esclusa quindi tale possibilità, alla nostra industria ringagliardita dal nuovo capitale non resterebbe altra via, per collocare la quota extra di produzione, che quella dei mercati esteri. Intanto, se si pensa al fatto che tutti gli Stati, o perché afflitti da crisi produttive interne (vedi Inghilterra), o perché intendono ritorcere la quasi totale esclusione che l'Italia oppone ai prodotti di loro maggiore produzione (vedi Germania), o perché, come gli Stati d'Oriente, dopo essersi rimessi dalle crisi politiche pensano ad irrobustire nel loro ambito le proprie industrie, quale più quale meno oppongono alle nostre, esportazioni industriali delle insormontabili barriere doganali, si renderà evidente il bisogno di non nutrire molto ottimismo per la possibilità di assorbimento della nostra maggior produzione da parte dei mercati esteri.

    Quindi, per conseguenza, l'industria nazionale anziché ricevere beneficio dall'afflusso di capitale straniero, potrebbe ricevere un danno la cui stima è azzardato tentare, danno derivante da una crisi di sovraproduzione che porterebbe con sé la disoccupazione e tutti i sommovimenti sociali ad essa conseguenti. A meno che il Governo italiano non volesse, per fini di espansione imperialista, provocare un dumping industriale le cui spese verrebbero ad addossarsi sui già abbastanza esausti contribuenti italiani.

GIULIO MARTURANO.