LA POLITICA VISTA DAL SUD

C'est la faute à Jean Jacques.

    Tutti noi siamo perfettamente d'accordo... la colpa è di Gian Giacomo. È lui, il cattivo genio che ci ha portato a questo stato, è lui che ha corrotto le coscenze, deviata la gioventù, bolscevizzato il mondo. Contro di lui bisogna quindi reagire. Morte, perciò, all'atomismo democratico. Distruggiamo l'individuo, anzi sopprimiamo addirittura la parola dal dizionario. Lo Stato è tutto, principio, fine della vita: padre degli individui, e, come Saturno, divoratore dei suoi figli. Sopprimiamo la libertà, se vogliamo essere felici. Affidiamoci allo Stato, non domandiamo come sia nato, che cosa voglia, che cosa faccia. Non abbiamo il diritto di fare queste domande indiscrete, anzi non abbiamo alcun diritto di natura. Tutti i diritti ci provengono dallo Stato come tante specie di affezioni costituzionali. Perciò in Italia siamo tutti etici. Specialmente noi del Mezzogiorno, che abbiamo la suprema ventura di avere per compaesano il ministro Rocco, teorico di fama europea, scopritore di dottrine universali, antiliberale di marca. Abbasso il liberalismo ed i suoi epigoni, e viva il grande Rocco, gloria del sud che lo ha abbattuto. Ma quale liberalismo?

Il liberalismo di comodo.

    Un liberalismo di comodo, risponde Giovanni Gentile; una specie di pupazzo impagliato per tirarvi contro delle pallottole di mota, uno spaventapasseri ideologico, di cui nemmeno i pettirossi hanno più paura. Povero Gian Giacomo, umiliato superato e distrutto da tanto tempo!





    "C'è un liberalismo - scriveva Gentile nel gennaio 1923 (La nuova Politica Liberale, pag. 9) - che fa comodo ai suoi avversari (al Ministro Rocco!) e che si sente infatti invocare spesso da tutti, quantunque i più ripugnano ad aderirvi per proprio conto. Ed è il liberalismo materialista del Secolo XVIII, nato in Inghilterra nel precedente, ma diventato nel Settecento il credo della Rivoluzione... Ma c'è un altro liberalismo, nato nel secolo XIX, nella piena maturità dello stesso pensiero della rivoluzione, attraverso quella critica del materialismo che in tutti i paesi d'Europa in vario modo condusse alla riaffermazione dei valori spirituali", e questo liberalismo è quello che ci proviene dai pensiero vichiano ed attraverso l'opera del Cuoco e dello Spaventa ha permeato il pensiero della Destra storica. Questo, secondo Gentile, è il liberalismo ideologicamente sano, la dottrina dello Stato etico, ed ha una storia affermata che non si può distruggere: questo, aggiungiamo noi, è il liberalismo idealista che gli uomini della Destra hanno tentato tradurre in categorie storiche.

    Che cosa c'entra dunque Gian Giacomo ed il liberalismo materialista? Potremmo anzi dire: chi lo conosce?

    Ma Gentile suggerisce: è un liberalismo di comodo, il fantoccio del bersaglio nel giuoco delle tre palle per un soldo, e Rocco non ha temuto di impadronirsi con un tratto di genio (questo si che è genio) del pensiero dell'idealismo liberale per mettergli la camicia nera.

    Il fascismo ha finalmente una dottrina, nuova, fiammante di zecca, partorita come Minerva dal cervello di Giove, e, per giunta una dottrina meridionale.

    Così il pensiero più tragicamente serio che sia nato in queste aride ed ultrafilofasciste terre, si è trasformato in un passaporto filosofico per giustificare la rivoluzionaria azione dei microbi della cancrena, travestiti da commissari regi nei piccoli comuni di campagna.





... le corna al Podestà.

    Ed è perciò che con perfetta applicazione dialettica si è invocato il Podestà.

    E così logico il trapasso che Bertrando Spaventa stesso, se tornasse in vita, sarebbe costretto a riconoscere che tra lo Stato e l'individuo, e tra l'Autorità e la Libertà non vi è altra sintesi storica possibile che il Podestà. Anzi il Podestà è sintesi delle sintesi, principio primo ed unico della vita statale.

    Voi non potete immaginare, cari amici del nord, come ci sollazzano queste trovate. E badate non sollazzano soltanto i nostri cervelli di sofisti bizantini e di curiali giuridizionalisti, dispersi tra i monti a ricercare nelle aride crete o tra le ristoppie cantate dalle cicale, quanto medio evo ancora viva in quest'atmosfera di fuoco, e quanto evo moderno ci porti quotidianamente la carta stampata, ma sollazzano più ancora i nostri contadini, cervelli semplici, chiari, dialettici - questi sì che sono dialettici - affamati di terra e di libertà.

    Io già li sento dire: il Podestà, ah sì, e a me che me ne importa? Ora lo chiamano Sindaco, domani lo chiameranno Podestà, ma saranno sempre le sciammereche a comandare.

    Le sciammereche, cari amici del nord, sono i borghesi rurali, avari, sudici, assenteisti, analfabeti volgari, cinici, che ad ogni cambiamento di governo si offrono come tutori dell'ordine.

    Nessun governo può fare senza di loro, nessun governo ha mai pensato di distruggerli. Solo lo storia, l'economia politica, e la vaporiera, camminando ogni giorno verso un avvenire migliore, ne scalfiscono il dominio, tolgono una pietra all'edificio. E a mano a mano che questo processo si sviluppa, il lavoratore sobrio e resistente, devoto e pio, generoso e silenzioso, alza la testa verso il cielo e si sente uomo.

    Altro che l'atomismo individualistico!...

    Non vi sono che i torbidi cervelli dei piccoli borghesi trasformisti che possono sognare di arrestare questa marcia. Una grande marcia, amici del nord, sognata dai precursori, segnata da Vico, da Cuoco e da Spaventa, dietro di cui segue a grandi giornate lo Stato etico: una marcia che si svolge nei cuori e nei cervelli degli umili e li avvicina per vie ignote ai grandi ideali nazionali, verso la coscienza di se stessi, e dell'appartenenza alla società ed allo Stato.





    Contro questa marcia - noi lo vaticiniamo fin da ora - sarà inutile la difesa del Podestà.

    Il giorno fissato dal destino salteranno via tutti i Podestà..., oppure secondo la consuetudine, aderiranno ai tempi nuovi.

    Risparmiatevi, perciò, questa fatica sciocca e lasciatevi consigliare da chi ne sa più di voi.

    Non permettete al Mattino di prendere in giro il "Podestà", proprio quando sognate, a mezzo suo, di costruirvi un'autorità.

    "In quanto al ricordo che del Podestà rimane nella letteratura popolare ed in quella scritta, dice il Mattino, esso è miserabile. È indubbio che il Podestà ha accentrato su di sé l'odio delle popolazioni: cosa che non accade né ai nostri Prefetti, né ai nostri magistrati. Il solo istituto del quattordicesimo e quindicesimo secolo del quale il folklore popolare conservi ancora traccia è il Podestà, nel noto proverbio: "Ecco fatto il becco all'oca e le corna al Podestà". Questo dimostra che nell'opinioni delle popolazioni dell'epoca, il Podestà era cornuto. Bisogna far grande attenzione a queste manifestazioni della sensibilità popolare. Un magistrato in fama di essere cornuto soffre indubbiamente di grave lesione nella sua autorità. Se poi il popolo gli attribuisce questa qualità indipendentemente dalla condotta di sua moglie, e indipendentemente dal fatto che egli sia coniugato - come sembra sia stato il caso col Podestà - bisogna concludere che le corna vengono attribuite non all'uomo, ma alla carica; e questo è un sintomo gravissimo di impopolarità.

    "Ora il proverbio citato sembra indicare che, nell'opinione delle popolazioni dell'epoca, le corna venivano al Podestà così naturalmente come il becco nasce all'oca. I francesi moderni, hanno un pregiudizio analogo contro il Capostazione. "Il est cocu, le Chef de gare", canta la loro canzone. Ma il loro equo razionalismo aggiunge subito: "s'il est cocu, c'est que sa femme l'a voulu". Nel caso del Podestà, nessuna spiegazione di questo genere: e dobbiamo concludere che esso è stato cornuto per ragione del suo ufficio".

    Lasciate perciò che sia cornuto il Sindaco ogni qualvolta abbia una moglie ingrata, ma non permettete che la nuova carica possa essere diminuita da un attributo così pericoloso nel sud.

    Perché, vedete, amici del nord, i meridionali attribuiscono tanta importanza alla fedeltà delle donne coniugate, da negare ogni autorità anzi da mettere nel più terribile dei ridicoli i mariti disgraziati.

    Il Podestà perciò è un nome inadattabile dati i precedenti.

    Bisogna trovarne un altro.





Vogliamo il capo-urbano.

    Questo nome è presto trovato: il capo-urbano. Nessun appellativo è infatti più italiano e più borbonico di questo.

    "Gli urbani o guardie urbane, - narra il De Cesare - erano una milizia locale, composta generalmente di operai e di bottegai e contadini, i quali non vestivano divisa e solo portavano, in servizio, una coccarda rossa al cappello o alla coppola. C'era nei comuni un posto di guardia, dove ogni sera gli urbani convenivano alla spicciolata per turno, armati di schioppi di loro proprietà. Avevano il privilegio di ottenere gratuitamente il porto d'armi ma non il permesso di cacciare. Nei piccoli paesi il Capourbano era l'uomo più temuto dopo il giudice regio, perché vigilava, riferiva, denunziava e dava informazioni al giudice, all'aiutante ed al sottointendente".

    Ve li figurate voi questi capourbani nell'esercizio delle loro funzioni, controllare, riferire, soprattutto denunziare?

    So benissimo che erano ritenuti e chiamati spioni e ferocemente odiati, ma appunto perciò erano utili ad impedire che la licenza trionfasse e che l'atomismo democratico corrompesse la Sacra autorità di S. M. Ferdinando II, che Dio salvi.

    Chi può valutare gli oscuri servigi resi da questi minuscoli ras per la salvezza del trono? Chi non ricorda con quanto accanimento perseguitarono gli attendibili? Essi fecero fino all'ultimo giorno il loro dovere, con una tenacia ed una fedeltà degna della causa che sostenevano e se non riuscirono ad impedire il dilagare dell'eresia liberale, non fu colpa loro.

    Oggi hanno diritto a questa grande riabilitazione storica, e le plebi meridionali, ancora borboniche nel sangue, li accoglieranno come i Discepoli accolsero il Maestro dopo la resurrezione.

    Resurrexerunt i sacri militi dell'Autorità - canterà la leggenda - e tornarono con la rossa coccarda ed il giglio dell'innocenza a difendere le docili popolazioni del sud dalle insidie della disgregazione liberale.





    La loro mercé il trasformismo fu sconfitto. Non vi furono più elezioni, quindi non vi furono più trasformisti. Questo argomento è indubbiamente principe per sostenere la necessità della riforma. Anche i meridionalisti più convinti possono aderirvi, se vogliono liberare il Mezzogiorno dalla triste genia dei saltimbanchi politici. O governativi a vita, o attendibili a vita. Tertium non datur. Casertano non dovrà più lavorar di gomiti per brandire la divisa. Se l'è procurata, nessuno gliela insidierà. Purché il Siro sia contento dei suoi servigi nessuno potrà, con colpi mancini, togliergli il bastone di comando.

Il Podestà dei Podestà.

    E giacché lo abbiamo nominato, permettete, amici del nord, che io vi reciti l'elogio di questo uomo, che ben può definirsi, con l'Emerson, l'Uomo Rappresentativo del Mezzogiorno.

    Egli nacque in una zona selvaggia, in cui solo i bufali ed i mazzoni, armati a cavallo, riempiono il paesaggio. Paese sterminato e deserto, sacro alla Dea Febbre, ove la vita è una lotta quotidiana con gli elementi; ove l'uomo si trova solo di fronte alla natura aspra e selvaggia, e non sente ancora il bisogno di crearsi lo Stato etico, dato che ivi impera un'altra sovrana della patologia: la malaria.

    Ed è perciò che in quella zona, tra i canneti e gli acquitrini, nella landa sterminata e nei casolari di paglia, tra i butteri felici di galoppare al vento sulla nuda groppa delle cavalle indomite, la vita soddisfa ai suoi bisogni con mezzi eccezionali: altre forme di associazione regnano che non siano quelle riconosciute dal Codice Civile o dal Codice di Commercio, e la libertà naturalistica cede solo alle esigenze di una giustizia autoctona che non fallisce mai, come quella ufficiale.





    Casertano è il capo indiscusso di questa regione, e, se i tempi non fossero così malvagi, egli sarebbe lieto di prodigarsi nella pianura sconfinata come un patriarca, duce e legislatore di questo popolo semplice. Ma vi sono le esigenze dell'Unità. Roma vuole imprimere la sua orma anche nelle pozzanghere dei Mazzoni, vuole distendere le sue aquile imperiali su ogni rupe, su ogni terra, su ogni fosso. Bisogna perciò mediare l'idea imperiale con tutte le idee locali, operare tante sintesi regionali quante ne occorrono per impedire che la burocrazia si riveli quale è, vuota di pensiero e ricca di formule e di presunzione, arrivare infine alla grande sintesi nazionale. E per far ciò occorrono dei mediatori.

    Ben si sa: i mediatori affrontano gli ostacoli, avvicinano i consensi, cancellano le differenze. Differiscono secondo la materia che trattano, ma sono sempre preziosi. Alcuni operano nelle fiere e sono i più malfamati, ma a torto: altri operano nel commercio ordinario, nelle vendite immobiliari, negli affari legali in margine alla Sacra Maestà della Giustizia: altri infine operano nella politica e portano per mille vie al centro della Nazione i consensi della periferia.

    Per queste necessità nazionali i buoni Mazzoni hanno dovuto cercarsi una classe dirigente, cioè una classe di mediatori. Questi mediano nelle fiere e negli affari commerciali in genere: mediano tra la giustizia autoctona e quella ufficiale, tra l'anarchia prestatale delle popolazioni ed il feudalismo statale del centro.

    È naturale che dove la distanza tra i termini da mediare è maggiore, ivi occorre più diplomazia. I nostri uomini politici sono infatti dei grandi diplomatici.

    Ora in questo ambiente e per queste necessità ideali Casertano cominciò la sua carriera di ambasciatore dei Mazzoni preso il governo italiano.





    Naturalmente l'inizio fu impetuoso, come per tutti i grandi leaders meridionali. Era l'epoca del radicalismo: un'epoca intellettualmente buffa, come tutte le concezioni politiche della piccola borghesia meridionale: l'epoca cioè dell'individualismo industriale applicato alla transumanza delle pecore ed alla fabbricazione delle ricotte. Ma Casertano non si spaventò ed in nome di questi ideali dissertò nelle aule polverose del Tribunale di S. Maria Capua Venere e delle Preture dipendenti.

    Il suo avversario Gioacchino Della Pietra forse, ne ride ancora, egli che già aveva fatta tutta la sua carriera di diplomatico Mazzonaro, e si assideva sicuro sul suo trono di ras.

    In effetto Casertano allora credeva sul serio ai grandi ideali della Loggia e si meravigliava non poco che i butteri ed i fittavoli nel Nolano, presso di cui in secondo tempo cercò asilo non presentissero la sua futura grandezza.

    Trascinò così, per lungo tempo la sua conoscenza della legge comunale e provinciale, l'unico libro che abbia studiato a fondo, dinanzi alla Giunta Provinciale Amministrativa di Terra di Lavoro, finché l'ora venne.

    Lo mandò al Parlamento Nola, la piccola cittadina campana, madre della dialettica bruniana, ed ancora oggi mentore dell'oratoria polemica di Guido Podrecca, anche egli, come il grande Casertano, morto fascista. Nola veramente in quell'epoca aveva - come ha tuttora - assai fede nel culto di S. Paolino, inventore delle campane, e la cavalleria varie volte dovette intervenire per salvare Podrecca e Casertano dai furori eroici dei curati del contado, aizzanti a suon di fischi e pietrate, l'irritazione sanfedista dei villici, ma la tenacia del nostro uomo finì per trionfare e l'ambasciatore dei Mazzoni fu mandato in Parlamento. Io non so quante mediazioni furono necessarie per questa vittoria: quante sintesi occorsero. So soltanto che da quell'epoca la storia di Casertano si identificò con quella nazionale. Egli era un predestinato in nome del triangolo e del compasso, pronto però a mediare con la croce e con la mezzaluna, ed il suo destino si avverò. In qual modo non occorre dire, perché è noto.





    Lentamente il nostro uomo divenne veramente rappresentativo, finché il fascismo, con quell'intuito di intransigenza che giustamente Farinacci celebra, lo elevò a mediatore di tutto il Mezzogiorno, quasi quasi a viceré dei reali domini al di qua del Foro.

    È naturale, perciò, che con l'istituzione del Podestà o del capourbano - il che fa lo stesso, trattandosi soltanto di una questione di nomi - si pensi anche a sistemare la posizione di Casertano, a mantenergli cioè la qualità di Ambasciatore del Mezzogiorno presso il regime.

    Si potrebbe, perciò, creare la carica di Podestà dei podestà, conferendole i poteri e le attribuzioni di sorvegliare i nuovi funzionari governativi.

    Solo allora l'atomismo democratico sarà veramente distrutto nella glorificazione di colui che col suo sacrificio seppe redimere il Mezzogiorno.

GUIDO DOSSO.