I fiancheggiatori del Cinquecento

    "Gli intelletti elevati trascendono il grado umano, e si accostano alle nature celesti", ma "senza dubbio ha migliore tempo nel mondo, più lunga vita, e, è in uno certo modo più felice chi è d'ingegno più positivo" (GUICCIARDINI: "Ricordi politici e civili", 337). E questo è esser savio e saper vivere.

    Senza dubbio il nostro savio ama la gloria, e desidera di fare "cose grandi ed eccelse", ma, ingegno positivo, com'egli è, a patto che non sia con suo danno o incomodità. Gli cascano di bocca parole d'oro. Parla volentieri di patria, di libertà, di onore, di gloria, di umanità; ma vediamolo a' fatti. Ama la patria e se perisce glie ne duole non per lei, perché così ha a essere, ma per sé, "nato in tempi di tanta infelicità" (ivi, 189). È zelante del ben pubblico, ma "non s'ingolfa tanto nello Stato" (ivi, 379), da mettere in quello tutta la sua fortuna. Vuole la libertà, ma quando si sia perduta, non è bene fare mutazioni, perché spesso mutano "i visi delle persone non le cose" (ivi, 276), e come non puoi mutare tu solo, "ti riesce altro da quello che avevi in mente e non puoi fare fondamento sul popolo" (ivi, 121) così instabile, e quando ti vada male, ti tocca la vita spregiata del fuoruscito. Se tu fossi "di qualità a essere capo di Stato" (ivi, 379), passi; ma, così non essendo, è miglior consiglio portarsi in modo che quelli che governano non ti abbiano in sospetto, e neppure ti pongano tra i malcontenti. Quelli che altrimenti fanno, sono "uomini leggieri" (ivi, 177). Nel mondo sono i savi e i pazzi. E pazzi chiama quei fiorentini, che "vollero contro ogni ragione opporsi", quando i "savi di Firenze arebbono ceduto alla tempesta" (ivi, 136). A nessuno dispiace più che a lui "l'ambizione, l'avarizia e la mollizie de' preti" e il dominio temporale ecclesiastico; ama Martino Lutero "per vedere ridurre questa caterva di scellerati al termini debiti, cioè a restare o senza vizi, o senza autorità" (ivi, 28, 346); ma "per il suo particolare" è necessitato amare la grandezza de' pontefici, e operare a sostegno dei preti e del dominio temporale. Vuole emendata la religione in molte parti; ma quanto a lui, "non combatte con la religione; né con le forze che pare che dependono da Dio; perché questo obbietto ha troppa forza nella mente delli sciocchi" (ivi, 253). Così il nostro savio si nutre di amori platonici e di desideri impotenti. E la sua impotenza è in questo, che a lui manca la forza di sacrificare "il suo particolare" a quello ch'egli ama e vuole; perché quelle cose che dice di amare e di desiderare, la verità, la giustizia, la virtù, la libertà, la patria, l'Italia liberata da' barbari, e il mondo liberato da' preti, non sono in lui sentimenti vivi e operosi, ma opinioni e idee astratte, e quello solo che sente, quello solo che lo move, il suo particolare. La lotta era accesa in Germania per la riforma religiosa e si stendeva nelle nazioni vicine, e non mancavano i "pazzi" tra noi che per quella combattevano e morivano; in Italia si combattevano le ultime battaglie della libertà e dell'indipendenza nazionale; il paese si dibatteva tra svizzeri, spagnuoli, tedeschi e francesi; e il nostro savio non pare abbia animo d'uomo, e non dà segno quasi di accorgersene e non se ne commuove, e libra, e pesa, e misura quello che gli noccia o gli giovi. La vita è per lui un calcolo aritmetico.





    L'Italia perí perché i pazzi furono pochissimi e i più erano i savi. Città, principi, popoli, rispondevano all'esemplare stupendamente delineato in questi Ricordi.

    Un individuo simile al nostro savio può forse vivere; una società non può. Perché a tenere insieme uniti gli uomini è necessità che essi abbiano la forza di sacrificare, quando occorra, anche le sostanze, anche la vita; e dove manchi questa virtù, o sia ridotta in pochi, la società è disfatta, ancorché paia viva. Questa forza mancò agl'italiani, simili in gran parte a quel romano ricchissimo, che non volle spendere cento ducati per la comune difesa, e nel sacco di Roma perdette l'onore delle figliuole e gran parte della sua fortuna. Questa forza mancò, perché le idee che mossero i loro maggiori erano esauste, succeduta la stanchezza e l'indifferenza, e in tanta cultura e prosperità la tempra, la "stoffa de l'uomo" era logora, mancata quella fede e caldezza di cuore che "conduce le cose grandi" (ivi, I) che può comandare ai monti, come dice l'Evangelo, o, se vi piace meglio, può rendere facili e dolci i più duri sacrifici. Che cosa rimaneva? La saviezza del Guicciardini. Mancata era la forza; supplì l'intrigo, l'astuzia, la simulazione, la doppiezza. E pensando ciascuno al suo particolare, nella tempesta comune naufragarono tutti.

    Come erano rimpiccioliti gli italiani e in quanta fiacchezza morale eran caduti, quanti erano i disegni, i desideri tra tanta tempesta, può far fede la descrizione che fa il Guicciardini dell'animo de' suoi concittadini:

    "La consuetudine nostra", fa dire a loro lo storico, "non comportava che s'implicassi nella guerra tra questi principi grandi,... attendessi a schermirsi e ricomperarsi da chi vinceva secondo le occasioni e le necessità. Non era ufficio nostro volere dare legge a Italia, volersi fare maestri e censori di chi aveva a uscirne; non mescolarsi nelle quistioni de' maggiori re de' cristiani: abbiamo bisogno noi d'intrattenerci con ognuno, di fare che i mercatanti nostri, che sono la vita nostra, possino andare sicuri per tutto: di non fare mai offesa a alcuno principe grande, se non constretti e in modo che la scusa accompagni l'ingiuria, né si vegga prima l'offesa che la necessità. Non abbiamo bisogno di spendere i nostri denari per nutrire le guerre di altri, ma serbargli per difenderci dalle vittorie; non per travagliare e mettere in pericolo la vita e la città, ma per riposandoci e salvarci" ("Ricordi autobiografici", in "Opere inedite", vol. X, p. 211).

    Questo linguaggio di servitori e di mercanti mostra qual'era allora la saviezza de' popoli italiani, e che cosa è l'uomo savio del Guicciardini. Non c'è spettacolo più miserevole di tanta impotenza e fiacchezza in tanta saviezza.

FRANCESCO DE SANCTIS.