Discussioni Sindacali

L'ambiente della contesa carbonifera inglese

    1. - I corrispondenti dei grandi giornali non ci parlano più delle lotte, chiuse con vittorie o perdite, nel campo carbonifero ed in quello marinaio in Inghilterra: tacciono anche i commentatori politici, in cerca di conclusioni favorevoli alla loro parte od al proprio gusto ed attitudine mentale. Ecco quindi il momento adatto a discorrerne, cercando di conservare la maggior serenità, e ristretto l'esame al puro quesito economico per non scivolarne fuori. - Problema grosso, un vero labirinto lo si giudicava già nel marzo a Londra: riesce difficilissimo pesare tutti gli elementi, e non indulgere all'attrattiva di un'eloquente catilinaria contro la fiacchezza del governo conservatore o l'illiberalismo dei sindacati operai, che hanno unito impensatamente un acuto e dottissimo storico ed economista piemontese, Giuseppe Prato, al gallese ex presidente del Consiglio dei ministri nella Gran Bretagna, il signor Lloyd George. Per evitare Scilla, c'è il rischio di subire Cariddi, prorompendo in una severa ed ingiusta condanna del sindacato dei proprietari di miniere.

    Lo storico di razza non dimentica mai di inquadrare il fenomeno nell'ambiente, di inserirlo nella serie che lo precede: per ciò l'amico Prato si collega a tutta una esperienza di decenni che riassume con abilità insuperata, ricavandola da conoscenze vastissime, nell'incessante ricerca - da parte delle leghe operaie - del vantaggio massimo ottenibile per la classe lavoratrice, senza arresto o turbamento qualsiasi davanti alle contraddizioni più aperte. Sarebbero dinamici insomma, come si dice ora: approfittarono della libertà finché loro tornò comodo, la rinnegano adesso per sfruttare le più strane leggi di eccezione. E tiranniche: non rinunciano nemmeno alla caccia armata al crumiro, espropriando del diritto di vita i disgraziati riluttanti a sopportare il giogo, pur di serrare entro maglie ferree un corporativismo medioevalistico che impone allo Stato una doppia serie di oneri. Primo: con l'imposizione del minimo di salario costringono gli imprenditori a licenziare gli operai meno validi, passandoli a carico dell'erario che distribuisce elemosine ai disoccupati. Secondo: quando poi per un complesso di cause, non ultima il più alto costo del lavoro indigeno, l'industria carbonifera si trova minacciata dai due corni del dilemma - ridurre i salari oppure chiudere -, i tromboni spianati dei masnadieri sindacalisti mutano il problema in politico e costringono il governo a cedere al ricatto, versando un sussidio che si calcola sui due miliardi di lire all'anno. Non basta; nella previsione che l'industria non ritorni tanto presto ad essere attiva, impongono al governo di far estendere anche alla statizzazione il campo di studio affidato ad un comitato apposito, inutile dopo quello del 1921: e lo fanno trasformare in una rappresentanza paritetica d'interessi, affinché riesca loro più facile il ricatto del parlamento.





    La visione qui riassunta del colto storico ed economista, sorprende il lettore con la coreografia nel succedersi degli avvenimenti: come mai in un paese di gente seria, dove c'è un governo di conservatori equilibrati e lontanissimi dall'indulgere in favore delle classi operaie, presieduto da un autentico industriale, ha potuto esser messo in scena un miserevole spettacolo di questo genere? Come mai i capi di queste leghe di lavoratori così strapotenti avevano invece, nel loro recente convegno del 2 giugno scorso, rimandato ad altra epoca le agitazioni per gli aumenti di salario, apprezzando le difficoltà in cui si dibattono gli imprenditori durante questi anni di povertà di capitali, di moderazione avara nei consumi delle masse? Come mai davano tanto peso al desiderio di pace diffuso in tutto lo Stato, al bisogno di adattarsi alle condizioni imposte dalla concorrenza mondiale? Non è di ieri l'accettazione pura e semplice - senza tergiversare o chiedere tempo - della riduzione di una lira sterlina nel salario mensile dei marinai, la precisa misura cioè chiesta dagli armatori? Se queste leghe operaie fossero così potenti e truculente ed irragionevoli, perché - a pochi giorni di distanza dal trionfo dei minatori - il sindacato marittimo cedeva su tutta la linea, senza resistenza avvertibile?


    2. - Si tratta di un labirinto, ed occorre pazienza e rinuncia alle poche pennellate magistrali, per dilungarsi a tratteggiare con meticolosità i chiaro-scuri, non privi d'importanza: un po' meno di improvviso e maggior sforzo di miniatura. Certo l'industria carbonifera inglese soffre, ma non suggerisce nulla, non mette in sospetto il fatto che non patiscono meno quelle germaniche, americane, francesi, belghe, in tutti i grandi paesi produttori insomma? Il combustibile nero si adopera meno di prima, ecco il malanno: sia per la crisi latente in molti mercati, sia per la trasformazione di non poche navi adattate all'uso del petrolio (ve ne erano per 1,25 milioni di tonnellate di stazza nel 1914; ora sono 17 milioni), e per la novità di diffondere sempre più gli olii pesanti o la corrente elettrica. Anche là dove il carbone mantiene tuttora il suo primato, si applicano sistemi che rendono maggiore il numero delle calorie utilizzabili pur restringendo la quantità arsa. Intanto il prezzo continua a diminuire, col contrarsi della domanda: se la quantità ceduta si mantiene abbastanza ferma all'interno dell'Inghilterra, l'esportazione continua a scendere: perdette il 18 % tra il 1923 ed il 1924, e minaccia di abbassarsi ancora di un altro 4 %. Il guaio colpisce sopratutto i centri esportatori, dove il lavoro diventa irregolare, con ricorso crescente allo "short time". Dopo le fortune passeggiere di due anni or sono, quando l'occupazione della Ruhr aveva offerto una bazza per i bacini in rapporto con l'estero, nello scorso anno i profitti discendono in tutti i distretti di trimestre in trimestre, per non lasciarne quasi più nei due primi del 1925.





    Né i lavoratori si trovano bene: l'accordo del 1924 sui salari ebbe incidenze dannose al bilancio finanziario per le ditte, senza salvare i minatori da un peggioramento sensibile rispetto all'anno prima, con irregolarità di impiego e riduzione del personale occupato. Tutti si lamentano insomma, e la forza eccezionale degli operai addetti a questa industria deriva dal fatto incontestato che moltissimi di loro guadagnano poco più di due sterline per settimana: salario basso in senso assoluto, non bastevole a consentire un tenore di vita come nel 1913; inferiore in senso relativo al livello delle altre categorie adibite a lavori meno sporchi e dannosi alla salute, dove occorre un grado più tenue di abilità, con pericolo minore e meno periodico ricorso allo "short time". Dopo le punte eccelse del 1922, in questi ultimi anni - tenendo conto delle ore di lavoro e della riduzione di turno nei rami dove si effettuano - i salari inglesi oscillano tra i 37 ed i 69 scellini per settimana: dove occorre minore abilità e specializzazione il livello scende al minimo, e lo segnano i cotonieri, con un distacco assai tenue sul ramo del carbone, mentre il massimo tocca a ferrovieri e meccanici. Questi minatori non chiedevano insomma nel luglio scorso se non di pareggiare le loro condizioni a quelle degli altri gruppi: non era questione di guadagni stravaganti, ma di portare il salario giornaliero a dieci scellini per gli operai adulti con lavoro esterno, ad undici per quanti scendono nei pozzi, e dodici per i cottimisti. Pochissimo più di quanto si calcolava fosse il minimo per la sussistenza. I tempi sono duri per l'industria, obiettano i proprietari: bisogna abbassarli al contrario ad un livello che acconsenta alle imprese di vivere in modo efficace e di provvedere agli sviluppi futuri. Proponevano perciò che - detratto dall'incasso lordo le spese tecniche di produzione, eccettuati salari e profitti - il resto si dividesse in due parti secondo il rapporto rispettivo dell'87 e del 13 %. Conseguenza per i minatori: la decurtazione del 13 % a danno dei più fortunati e del 48 % sui salari base di quanti ne sarebbero usciti peggio.

    Labirinto. Avevano ragione tutti e due i contendenti, e l'opinione pubblica lo sentì, anche perché tutti i fatti erano palesi, senza mistero alcuno che li avvolgesse: dal 1921 vige in materia pubblicità assoluta. L'elemento umano, così esplicito e semplice ed eloquente, divideva le simpatie degli osservatori fra le due parti, senza lasciar motivo per una condanna né degli uni né degli altri: non si vedevano i tromboni dietro le spalle dei minatori né le rivoltelle a portata di mano dei proprietari. La battaglia era bella e le vie di uscita potevano essere diverse, le soluzioni complesse.





    La troncò prima che si svolgesse, e ne rimase in tutti un senso di sconforto ed un disappunto amaro, una tregua: e certo fu pessimo il modo di comprarla con un sussidio statale, che potrebbe anzi riuscire ben più alto della soma indicata dal Prato. Nove mesi di continuazione dello "statu quo", sia per i minatori che salvano i loro salari odierni, come per i proprietari i quali vi guadagnano un profitto di cui erano privi da forse nove mesi, potrebbe imporre all'erario una spesa tra i 900 ed i 4300 milioni di lire. Ricatto eseguito dal sindacato operaio? E non forse anche da quello dei proprietari di miniere? Argomentando dal "is fecit cui prodest", si potrebbe richiamare una frase cara ad Alfredo Marshall "Quale delle due lame di una forbice serve a tagliare, la superiore o l'inferiore?". La risposta non è né affermativa né negativa: attribuisce l'effetto a tutte due.

    Espediente il Comitato di studio: certo, ma dettato dalla mentalità degli uomini che amano la cautela, l'"aspetta e guarda". Intanto non si pregiudica nulla, e qualunque proposta di soluzione potrà essere, esaminata dai membri, tra i quali non è proprio rappresentata nemmeno una delle due parti in contesa. Secondo l'uso inglese non è paritetica, ma comprende un finanziere e studioso di problemi statistici, già ministro e poi alto commissario in Palestina, Sir Herbert Samuel; un economista, acuto indagatore dei fatti e direttore della Scuola d'economia politica di Londra, Sir William Beveridge; un generale che entra nei Consigli di amministrazione di parecchie società bancarie e ferroviarie:, Sir Herbert Lawrence; un grande industriale cotoniere, il signor Kenneth Lee.

    Non c'è un minatore, operaio o capitalista, appunto per assicurare la massima equanimità di giudizio: e se ne attende un rapporto ben diverso da quello del 1921, noto sotto il nome del giudice Sankey: sotto l'impulso della psicologia del dopo guerra, quella Commissione aveva raccolto una massa di informazioni e di proposte contraddittorie. Dimentichiamolo, fu il commento pronunciato allora e richiamato in questa occasione.


    3. - Vi è però campo di studio, oppure ci si trova di fronte al puro e semplice dilemma, dalle corna ugualmente pungenti e velenose? Tra la diminuzione dei salari oppure l'abbandono delle miniere, non si aprirebbe per caso una terza soluzione? Con i salari correnti - bassi, ricordiamolo - in nove distretti sopra tredici gli imprenditori erano in perdita fino al luglio, in due coprivano appena le spese: i due rimanenti facevano eccezione. Per la fortuna di impianti più moderni, osservano i tecnici, di strati buoni ed alti, per l'abilità sapiente nell'approfittare delle compere in grande e ridurre così i costi unitari. Che proprio non si possano applicare in più largo campo questi sistemi innovatori, né ricorrere all'acquisto collettivo dei materiali, ed unificare la gestione di alcune miniere, raggruppando i vagoni per ottenere le tariffe più moderate disposte per i treni completi, adottando in generale gli impianti meccanici raccoglitori o le macchine scavatrici, trasferendo gradatamente i minatori dai campi scadenti a quelli più ricchi?





    L'esempio del Nord America incoraggia su questa via: se gli Stati Uniti sono lontani, i distretti inglesi dove non si perdeva affatto stanno lì a dimostrazione eloquente.

    Si tratta di un'industria rischiosa, come sempre quelle minerarie: i proprietari dei pozzi potrebbero obbiettare che è troppo forte il pericolo di seppellire invano del danaro. Certo il dubbio è forte per le miniere marginali, buone un tempo ma quasi esauste ora: ne rimangono tuttavia moltissime promettenti. Tirarsi indietro dal progresso tecnico, indugiare nei sistemi tradizionali con la scusa della concorrenza petrolifera od elettrica, ha l'aria di un pretesto: il consumo di petrolio cresce, ma la velocità del suo moto supera già l'incremento della produzione, e sfruttare le forze idrauliche impone spese che ben presto ne troncano il vantaggio: in parecchi usi il vapore non è sostituibile. Nei decenni scorsi ritornava di tratto in tratto il timore di una prossima carestia di carbone: dovremo proprio tremare ora di fronte alla paura opposta?

    La crisi è mondiale, sicché tutto fa ritenere non debba prolungarsi indefinitamente: dura già da un anno, e porta alla chiusura successiva di molte miniere in tutti i paesi. Un'occhiata alle statistiche della produzione media mensile nei paesi più forti produttori dimostra che il 1924 aveva visto quasi il ritorno alle condizioni anteriori alla guerra, con un distacco in meno del 5 %: ma nel primo semestre di quest'anno si scende dappertutto di mese in mese, e pur tenendo conto del diverso numero di giornate lavorative, la tendenza resta del tutto sintomatica. La concorrenza per la vendita si accentua, ed il prezzo mondiale si riduce ormai a poco più del livello del 1913: siccome viene espresso in moneta aurea, e l'oro ha perduto un terzo della sua capacità d'acquisto, la causa del malessere riesce evidente. Ne prova piacere il consumatore di carbone, ma non è improbabile che la gioia duri poco, troncata da accordi internazionali tra i produttori, allo scopo di eliminare la sovraproduzione.





    Intanto c'è da rifare, da predisporre parecchie riforme. L'avvertimento lo ha dato, non per le miniere soltanto, un conoscitore esperto: il presidente del Consiglio, signor Baldwin, non si peritò di farne il motivo dominante in parecchi discorsi. Questo rappresentante tipico del capitalismo - cui sorride ancora il ricordo dell'imprenditore medio, quando la fabbrica si trasmetteva di padre in figlio, ed i membri della famiglia partecipavano alla proprietà ed al comando, conoscevano di persona i loro operai, li amavano e ne erano amati - questo manifatturiere erede di una lunga tradizione, ha proclamato a più riprese nei primi mesi dell'anno il suo convincimento netto che si può aumentare almeno di un decimo l'efficienza di molte fabbriche. Un attrezzamento modernizzato, una direzione più accorta, lo sforzo concorde di tutti, il desiderio sia degli operai, come dei possessori, di discutere e di comprendersi reciprocamente: ecco la via per imprimere nella produzione uno slancio suscettibile di effetti utilissimi durante la crisi di alti costi in cui ci si dibatte. Alcuni non lavorano fino al massimo dell'energia, insisteva quest'uomo abituato a perseverante attività, anche se gli osservatori esterni sorridono perché non rinuncia in nessuna occasione alla sua vacanza di fine settimana o di stagione, conscio della necessità anche del riposo.

    Vengano avanti i proprietari con la decisione di un riordinamento tecnico moderno, aggiunge, come se ne proseguisse il discorso, un acuto scrittore dell'Economist, il magnifico settimanale diretto dal signor Layton: e potranno chiedere di rimando un pari sacrificio agli operai, non nei salari già troppo bassi ma nella durata delle ore di lavoro. La legge le fissò in sette: portarle ad otto rappresenterebbe una rinuncia ben apprezzabile, trattandosi di fatica rude, in ambiente malagevole ed insalubre (1). Ma provocherebbe un ribasso sensibile nel costo di produzione; mantenendo a buon mercato questa materia prima indispensabile in quasi tutte le industrie, ecco un motivo di ribasso nei manufatti, con stimolo agli acquisti ed alla ripresa.

    Questo terzo corno del dilemma avrebbero potuto afferrarlo direttamente i due sindacati in lotta: il cercatore delle note più alte e limpide nel canto avrebbe desiderato sentirle echeggiare per creazione diretta. Ma anche Walter racconta ai Maestri Cantori d'aver trovato un maestro nell'usignuolo. Tocca alla Commissione Samuel indicare la via, facendo sì che la pena imposta ai contribuenti non sia stata pagata invano.

VINCENZO PORRI.

Lo studio di GIUSEPPE PRATO: Liberali orizzonti sindacalisti, venne pubblicato nella "Gazzetta del Popolo" il 20 agosto 1925. Le notizie ed i dati esposti sul mercato carbonifero sono ricavate dall'"Economist", Londra, 1925; The Coal Trade in 1924, 24 genn., pag. 128; Mining Maze, 11 apr., pag. 696; Profits and Losses in Coal Trade, 27 giugn., pag. 1279. Sul livello dei salari, vedi: The course of Wages, 7 marzo, pag. 436. Sulla necessità di riorganizzare gli impianti: Mr. Baldwin Gesture, 14 marzo, pag. 485; The State of the Nation, 6 giugno, pag. 1119; The Trouble of industry, 27 giugno, pag. 1279. Della situazione del mercato carbonifero germanico parlano: J. BRECHT e GOEPEL: Zur Krise des Kolenbergbaues; "Wirtschafisdienst", Berlin, 31 luglio 1925, p. 1158.