Nell'ombra di Roma

    Anche ora come nel tardo alessandrinismo ad ogni muovere di vento le folle urlano i loro osanna e decretano statue e onori.

    Ora è la volta di un botanico che ebbe la sua sede sul Palatino, tra i ruderi di Roma e che tra i ruderi seminò piante esotiche e tentò culture insolite alle aure latine. Brav'uomo, indubbiamente, rettore tra i primi e nella voce e nel gesto, come i rettori di midollo scientifico.

    All'apogeo della sua carriera di... scavatore si impancò storico di Roma e archeologo senza conoscere né greco, né latino, senza comprendere di Roma né la prosa terribile, né la poesia sublime. Quelli che lo attorniavano - amici o inferiori: due di costoro sono ora professori d'Università - raccontavano della sua ignoranza cose strabilianti, ma pregavano di non svelarle, ne andava del loro avvenire. Un giorno un giovane, nauseato delle sue illustrazioni archeologiche ridicole e false, lo attaccò nella Rivista di storia antica, dimostrandone l'impalcatura di gesso e di tela. Egli se n'ebbe a male e non parlò più a quel giovane - come usava, quando uno scavo mostrava i perenni tesori storici del sottosuolo del Foro - dell'oro degli Urali e dei tribunali di Traiano e tacque in pubblico anche per gli altri e per la scienza.

    Di tanto in tanto qualche incomprensibile articolo nella rivista della burocrazia italiana, qualche altisonante comunicato ai giornali compiacenti, qualche conferenza... e... la botanica.

    Il piccone intanto - per sua volontà talvolta, ché egli era invero uno scavatore perfetto, quanto un illustratore inetto; per volontà altrui non di rado, che ebbe spesso collaboratori valenti, ma cauti, che ne eludevano la gelosia e ne sostenevano la gloriola per amor del quieto vivere c del sicuro avvenire - il piccone intanto apriva i solchi eterni, ricchi di inesauribili tesori, nel Foro e nel Palatino ed egli ne parlava con voce profetica in imaginose forme, ma non li illustrava mai. Scriveva di botanica dinanzi al volgo ammirato e taceva di storia e di archeologia. Perciò ebbe fama di storico e di archeologo di Roma.





    Sentì la poesia di Roma? se non si è refrattari a qualsiasi senso poetico e si viva nel Foro o sul Palatino non si può essere insensibili al fascino della grande Sfinge. Ma che perciò?

    Mise alla luce commenti e monumenti di Roma? ma chi non li avrebbe messi nel terreno più ricco di tesori archeologici che il mondo conosca?

    Ebbene, ora, morto, lo proclamano Grande e gli danno sepoltura sul Palatino!

    Non a lui che fu, in fine, conscio della sua pochezza, perché non dette a Roma quel che ogni umanista le dà, tutto sé stesso, lasciando opere che aprano solchi indelebili o idee che formino epoca o scolari che proseguano l'opera iniziata; non a lui che forse sentì Roma, anche se non la comprese, che l'amò, comunque, che fu un funzionario che servì lo Stato con fedeltà e con amore: non a lui che non sognò certo per le sue modeste virtù il premio degli Eroi - ma ai rettori che hanno voluto la profanaggine delle ruine del Palatino, noi irridiamo.

    La storia di Roma, la sua vita, le sue istituzioni si scriveranno senza che il nome del botanico del Palatino si debba pronunziare. Potrà apparirvi tutt'al più come quello di un modesto scavatore che, non diversamente da tanti altri e non meglio di tanti altri, liberò la terra sacra dei nostri padri dal terriccio accumulatovi dalla nequizia dei secoli che obliarono Roma: non altro.

    Eppure la rettorica tronfia e insincera del nostro momento storico, la quale - senza distinzione di parti politiche, unita com'è nella vanità del suo vuoto - vive non nella luce di Roma, ma nell'ombra della grande Dominatrice, si crogiola nelle sue scempiaggini procurandogli la tomba del Palatino.





    Insincera rettorica, ché la maggior parte degli osannanti ben lo conobbe e non fe' un mistero della nullità storica di lui e irrise ai suoi errori e non accettò nessuno dei suoi sibillini responsi. Tutte le illustrazioni che gli storici o gli archeologi d'Italia e fuori fecero degli scavi del Foro e del Palatino lo provano, difatti, e lo testimoniano.

    Ma gl'insinceri ed i rèttori hanno bisogno di rettorica vuota e scempia. Profanano la memoria dell'uomo con un cuor che non ebbero e non avranno mai i massimi storici di Roma e lo strappano alla quiete del natio cimitero per farlo simbolo di futuri riti e di future rettoriche. Profanano la maestà di Roma turbando i suoi augusti silenzi e la gradiosità dei suoi ricordi millenari, degni solo della maestà della natura, con l'impurità di una tomba, onde fremono le ossa dei veramente grandi che cercarono, non ebbero il riposo, là dove la Storia non dorme.

    Sul Palatino, tra i fiori esotici al botanico sia lieve la terra che li produsse e sian nell'al di là larghi gli dei benevoli degli onori e della pace di cui l'al di quà gli fu largo.

    La Via Sacra si snoda tra archi di trionfo per il Foro che sa le tempeste e sale al Campidoglio. Lasciamo il Palatino agli ozi dei vivi ed al culto dei morti..., lasciamo che i morti seppelliscano i morti loro!

GIOVANNI COSTA.