LITTLE ITALY

Londra, agosto.

    Saffron Hill è il più squallido quartiere di Londra. Per non sbagliare i toni, esagerando il contrasto in un confronto con la felice Chelsea; ho visitato prima Bethnal Green, Whitechapel, Stepney Green. Ma qui diresti che la miseria del disoccupato inglese sia nascosta con cura più meticolosa, quasi ipocrita. Nelle stesse case in cui una sola camera accoglie cinque persone, non manca talvolta un segno di ornamento e di modesta eleganza. In realtà si tratta di una miseria meno dura. Vedi molti bimbi nelle strade, troppi in confronto con le case piccole, e danno al quartiere un aspetto paesano e semplice, con un'allegria di giorno di festa: è probabile che essi non debbano lottare ogni giorno tra fame e stenti. Invece i profughi di Saffron Hill sono inesorabilmente reietti e condannati. La loro sventura non conosce tregue, non muta per mutar di cose in Italia o altrove, non s'attenua per effetto di crisi ministeriali o di rivoluzioni.

    Continuano la lunga tradizione di miseria della vita italiana. Sono profughi antichi. Già nei tempi in cui i confini di Londra erano i confini della City, l'igiene crudele e lo spirito d'ordine inesorabile degli inglesi, li ha confinati qui, fuori delle mura, come in un ghetto di ebrei. Per un'ironia questo quartiere si trova oggi nel centro di Londra.

    Seguendo il ritmo dell'ampliamento della città nel secolo scorso avrebbero potuto agevolmente lasciarsi assimilare, confondersi, sottrarsi a un isolamento che talvolta è una berlina. Forse la pigrizia, forse un più profondo istinto di fedeltà ha reagito. Non sono dei rinnegati. Qui hanno costruito la loro little Italy, hanno voluto essere se stessi, non con una dignità che non potevano conoscere; con la rassegnazione, forza dei deboli. In questa umiltà li riconosciamo italiani.

    Nulla ha loro dato la patria se non la dura capacità di soffrire: nessun diritto su loro potrebbe vantare. Ma essi ne portano tutti i segni nelle carni straziate, nei volti sperduti; non nascondono i loro cenci.





    Stretti dalla disperazione hanno lasciato Napoli, l'Apennino calabrese, la desolata campagna agrigentina, né, vendute le povere suppellettili e accontentato il persecutore usuraio, avevano tanto che bastasse ad intraprendere il lungo e tentatore viaggio di America. Partirono così, senza professione né arte, senza sicurezza di trovare lavoro o vita migliore, paghi di sottrarsi a una desolazione che non poteva durare. Sono quello che erano; gli umili non fanno fortuna, e la little Italy di Londra sembra un quartiere di Napoli.

    Qui accanto a un popolo civile hanno difeso la loro sporcizia con la fedeltà tenace che portavano nel ricordo del loro villaggio.

    Non sanno mascherarsi; fanno i mestieri più umili; non hanno l'animo del furbo. E se pur talvolta devono campare di astuzia, gli espedienti trovati per salvarsi poche pence di pane e di vino commuovono per la loro umiltà come commuove la sveltezza del venditore di gelati che sa presentarli con napoletana agilità in fogge mascherate, sì che la parte superiore ridondante illuda nascondendo l'interno vuoto del bicchiere leggiadro. Questi ripieghi della miseria disarmano qualunque moralista puritano.

    I bambini cenciosi e denutriti parlano tutti un barbaro inglese: neanche i loro padri hanno avute scuole in patria dove imparassero a parlare italiano. Dall'Italia uno dei bottegai fa arrivare qualche copia del Mattino illustrato che tiene in vetrina accanto a due romanzi di Carolina Invernizio, e ai Reali di Francia: tutto il patrimonio della cultura dell'emigrante. Per evitare il quadro di maniera non si può parlare dell'organetto, inevitabile arte, talvolta unica professione del nostro profugo. In questi argomenti che siamo soliti trattare con ironia o con rossore, non si può non cadere nel patetico a mille chilometri dalla frontiera.





    A un altro angolo della strada c'è un povero artigiano di terre cotte e di marmi. Egli sente altamente la sua dignità. Ha la sua insegna: Marble and monument high class sculpture. Non ho trovato nulla di più italiano di questa bottega con la sua insegna che nelle tenui risorse di un inglese internazionale vorrebbe far pensare alle qualità di un albergo di primo ordine. Non è strano che un artiere italiano a Londra, senza clienti e senza il cielo di Napoli si senta qualcosa come un grande artista!

    E italiana è ancora questa chiesa di San Pietro dove incontro un contadino di Benevento, timido e solo, che prega. Tristezza di un uomo solo che prega nella sua chiesa come se ripensasse quella del suo villaggio. Fuori in un crocchio odo due sonanti bestemmie in dialetto: questo è un romagnolo, ma quanto sono cattoliche anche queste bestemmie, inusitate a Londra, di un buon mangiapreti che domenica seguirà la processione. Anche per lui questa chiesa è la sua Chiesa.

    Mi stacco da questa miseria, con la pena di non sapermi fermare anch'io almeno per un'ora a una tavola di questa bettola su cui sta scritto con ingenuo vanto: commercio di importazione, e segue un elenco di vini italiani che riconciliano questi diseredati alla patria lontana.

    Usciti dal quartiere ecco strade che ostentano civiltà inglese: gli uomini passano ma non sanno vivere sulla strada, privilegio dell'italiano del Sud. Qui le insegne alle porte hanno un'impassibilità internazionale.

    Ma una ne scorgo, equivoca, strana: George Penvary Engineer. Male si nasconde questo Giorgio Pennavaria, che tra sé e i suoi compagni di emigrazione ha cercato di mettere le sue risorse di uomo furbo, i suoi inganni italiani di italiano dalle molte vite! Costui non è più ingegnere del mio candido scultore di Saffron Hill. Ma egli conosce in più le leggi e pratica gli inganni di un cinico paglietta. Costui ha cercato di fare il falso ingegnere in Puglie - visto che il titolo non è custodito dalle leggi - e poiché i compaesani non l'hanno bevuta, poiché i compaesani lo conoscono, ritenta a Londra, s'ingegna di gabbare qui gli inglesi con la sua falsa insegna. Non è un "fesso" questo italiano, non si adatta a far la parte di reietto, ha perduto l'abitudine di vivere sulla strada e presa quella di lavarsi la faccia: vuol farla a gentiluomo anzi a gentleman. Se gli riuscirà di imparare l'inglese non parlerà più il suo dialetto. Vorrà tener alto il suo decoro, il decoro della sua professione di falsario.

    Non sono entrato nella casa pulita di questo mercatante dabbene; nella sua insegna invitevole m'è parso scorgere una tradizione secolare di cortigiani e di adulatori, di gente che patteggia, che fa mercato di tutto, che sa vivere d'accordo con tutti. L'ultimo straccione analfabeta di Saffron Hill gli potrebbe insegnare la dignità.

p. g.