Lettere dalla Puglia

TARANTO

    "Noi aspettiamo, secondo la sua promessa, dei nuovi cieli e una nuova terra, dove abiti la giustizia".

    Caro Gobetti,

    Qualche espressione di approvazione venutami alla lettera precedente mi lascia veramente indeciso, se continuare o no. Non vorrei che si aspettino da me affermazioni, dimostrazioni, indicazioni, o induzioni straordinarie. Mi pare invece che non solo tutto quello che ho detto o dirò è stato in un modo o nell'altro già detto da altri, ma che sarebbe male se non fosse così, vecchio e trito. E sebbene possa parere che io non rispecchi che opinioni di minoranza, le uniche del resto che, rappresentando interessi trascurati, meritano di esser conosciute, tuttavia sono spesso le affermazioni che sembrano più paradossali le più vicine al vero, e le mie lo sono certamente.

    Andiamo a vedere Taranto, "patria soave" - diceva con enfasi un archeologo di vaglia, col quale facevo la gita mesi fa. "Ti mostrerò al Museo le statuette tanagrine di tipo prassitelico, i vasi con sopra dipinte le figure dei drammi ellenici, la leggenda di Paride... Ci faremo condurre da Quagliati al punto della acropoli dove si scoprì già l'ara sacra a Venere armata, adorata dai Tarantini...". I ricordi oraziani si mescevano, nel mio compagno, a quelli della potenza di Roma, la musica di Aristosseno si fondeva con la politica di Agatocle e di Pirro, di Dionisio siracusano. Io pensavo alla potenza dei barbari Apuli, Salentini, Lucani e Sanniti, che contenne l'espansionismo ellenico, al singolare ambiente che permise poi lo sviluppo del pitagoreismo di Archita, e mi domandavo che mai andavo a fare a Taranto, qual parola vi avrei appreso.

In viaggio al paese della Seduzione.

    Dopo la sella di Gioia, a metà circa della Bari-Taranto, che si eleva a 360 m., dividendo la murgia di Alberobello da quella di Spinazzola-S. Eramo, il pianoro ondulato del Barese, tutto coperta di vegetazione arborea intensissima, cambia del tutto di aspetto. Se i colli vicini salgono a quote anche più alte, la ferrovia discende per una zona pianeggiante, più misera, quella delle grandi proprietà, della grandi culture granarie, così poco redditizie, fino al bosco lunghissimo di San Basilio, tutto ad elci e querce più o meno rade. A destra spicca su di un rilievo dolcissimo un piccolo cono, grigio-scuro ed azzurrino: la murgia di Marzagaglia, Monte Montursi, o già Monte Camplo, con la cima di Santa Trinità? Anche vorrei distinguere a sinistra Monte S. Elia e, dietro, il Monte Arimini, sulla Taranto-Martina, il gigante della provincia del Jonio, che si innalza a ben 529 m. Ma già c'incassiamo in una forte depressione verso Castellaneta, appena a 246 m., lungo una profonda gravina che costeggia a sinistra la ferrovia, prima parallela, poi irregolare e sempre più minacciosa: finché dopo un lungo giro ad arco si sbuca da una galleria sulla cerchia digradante del Tarentino tutto verde, con in fondo il mare azzurro, qualche punto bianco di vele e gli alti monti della Calabria.





    L'arditissimo ponte di ferro ci mostra ora la gravina vertiginosa in tutta la sua orrida scabrosità, con pareti a picco, rose e gialle di calcare, con speroni formidabili, che non hanno ancora corrosa le nostre piene paurose. Ma verso Palagianello anche le gravine si raggentiliscono; fra i grossi sassi spiccano le chiome rotonde degli ulivi; più giù ancora sono microscopiche e del tutto alberate, con ancora qua e là qualche masso, immobile. Veramente l'arco azzurrino del golfo pare anche oggi l'idillica cornice fittizia dell'antica città democratica e commerciale, ricca di mollezze, di delizie, di bei monumenti, più che di virtù militare. Ed anche da vicino il paesaggio prima più mosso, si acqueta e si distende in ripiani e piccole gibbosità intensamente alberate di ulivi, qua e là steppose e cespugliose. L'occhio cerca le cittadine di tufo: Castellaneta, Palagianello, poi Massafra a sinistra su di una murgia ancora brulla, e lontano a destra, appena sollevata sul piano, Palagiano con le sue case disperse. Ogni altra asprezza carsica di sassi ruinosi e nudi, è lontano, sparita; ogni cavità squallida di questi dintorni rupestri appianata nel sorriso dell'azzurro, come se queste terre non possano conoscere lagrime. Anche gli ulivi secolari pare escano ora da un bagno, giovenilmente; e dovunque susini bianchi e peri. Ecco la punta della Rondinella, ecco il mare quasi a portata di mano, azzurro viola, caldo e cupo, quasi quanto quello di Napoli, "l'innamorato mare" dei sognatori e degli stranieri; ma si ricorda ancora di qualche minaccia con i suoi lampi, con le sue striatura di verde, brusche e livide. Dall'altra parte, l'altra punta del golfo, S. Vito, oltre le isolette foranee ancora azzurrognole, e la dolcezza del giallo-oro del terreno cretaceo e tufacea, e un che di roseo e di latteo fra mare ed isole. Illusione di Arcadia: queste cittadine lungo la linea cominciano invece a conoscere la gioia moderna del lavoro e la febbre della ricchezza, sebbene non tutte pulite, mi assicura uno del luogo. Ci sono le cave del tufo, richieste da ogni parte; l'ulivo è curato a puntino; c'è sopratutto l'industria del pomodoro, e dovunque le piccole stazioni ne sono ingombre. Da Palagianello, che serve di sbocco anche a Palagiano, partono ogni giorno, tra giugno e agosto, decine di carri di pomodoro fresco, e il prezzo è di 200 lire al quintale; e la primizia primaverile si vende per più, molto più. E ci sono sul luogo anche fabbriche per la conservazione del pomodoro in scatola. Peccato che io non possa discendere! Cose note però: il principio di quella vita economica sicura, che ci permetterà, fra 50 anni, di avere finalmente una nostra vita civile: la nostra speranza. Ma qual'è la vita di questa Taranto di oggi?





Opinioni.

    Il Direttore del Museo, malgrado avesse promesso di aspettarci, è occupato in non so quale comitato femminile, né c'è ancora un catalogo del Museo, e cominciamo col ricoverarci, come succede, nella biblioteca, dove sono anche molti dei nostri amici tarantini, scrittori ed artisti. C'è un romanziere, il quale non può perdonare ad Amendola la viltà, dice, di non essere disceso in Parlamento il 3 gennaio a pronunziarvi la sua catilinaria, e quanto a lui, io, ci assicura, che non sono fasciata, non son così imbecille da farmi ammazzare per l'uno o per l'altro. Naturalmente il mio compagno ha scoperto fra le tombe preistoriche di Puglia che la nascita di Roma ha effondré quella del Capitale - è un fatto che si spiega, che l'archeologia italiana ha portato il maggior contributo al partito della giovinezza -, mentre gli operai del luogo, dice un altro, si ostinano a celebrare il primo maggio con pubblicazioni clandestine e ritornelli del genere di questo:

Primo maggio di riscossa!
Vieni tu, bandiera rossa!

    Un altro narra delle violenze della Disperata, la locale squadra di combattimento, in città e per i tranquilli borghi vicini, ed invoca i tempi chiamati aurei dal Machiavelli "dove ciascuno può tenere e difendere quella opinione che vuole".

    Prevale in questi ambienti, come in molti altri di Puglia, si vede subito, la mentalità democratica, con quella sua incomprensione dei postulati economici del proletariato. Anche qui, come poi l'on. Amendola al Congresso dell'Unione Nazionale, si parla delle malefatte del potere esecutivo, ma mi paiono ancora lontani dal veder chiaro che la marionetta è mossa dalle oligarchie parassitarie, il cui dominio rende effimere e solo di nome le democrazie. L'archeologo fascista, che fu massone fino a un mese fa e riveste molte cariche, senza contraddire a queste idee, se ne va a vedere gli avanzi del Tempio di Poseidone; noi lo compromettiamo: ha bisogno, com'è nell'uso italiano, di accumulare varii stipendi, e, com'egli dice, il mondo è pieno di porcherie. Io torno indietro a gironzolare nella Taranto vecchia. Il tempo, come qui, per incostanza di clima avviene spesso, si è bruscamente messo al buio, e dall'altezza del ponte girevole, l'ampia conca elittica del Mare Piccolo e l'apertura di quello Grande son serrate da una fumosità bigia ed indistinta; caligine e navi da guerra: e a me piace di trovarvi altro che il sorriso coagulato e i sospiri, le mollezze e i languori della letteratura di occasione.





La Città Morta.

    La città antica è dunque posta tuttora nell'isola originaria, lanciata a sbarrare i due mari, come una vecchia nave sdrucita, in pieno vento, e chi vuole recarsi alla nuova, giunto dalla stazione al ponte di pietra a Porta Napoli e passatolo, prende di solito a destra la magnifica via che si affaccia sul porto mercantile, a Mar Grande "dietro alle mura", donde l'occhio spazia sul molo, sui velieri, i piroscafi, sulle isole, nell'infinito di cielo e mare; o l'altra, anch'essa esterna, a sinistra, lungo il Mar Piccolo, "la marina" brulicante del piccolo commercio marinaresco, tutta bagnata e raggiante di acqua a piè del negrore delle case popolari. Il ponte di ferro è, dicevo, all'altro estremo, di passaggio sulla terra ferma, alla città nuova. Nello stesso senso della lunghezza l'isola è attraversata da Via Duomo, l'antica via, larga pochi metri, dai palazzi secenteschi, e dal budello della "Via di mezzo", tagliato in tutti i sensi da centinaia di altri budellini, non più larghi, proprio così, di un metro. Bisogna avere il coraggio di insinuarsi per questa rete inestricabile: nulla di simile è altrove, in Puglia, né in Italia. Dovunque, sino in alto in alto, balconi e balconcini che si danno la mano, premono l'un sull'altro, finestrette gomito a gomito, piedi contro teste, con pochi vasi di basilico e prezzemolo, porticine pigiate le une alle altre, che danno in scale buie e strette, in terreni umidicci e nauseosi, dove la gente si accalca. Cercate di penetrare in questo dedalo, imboccate una viuzza che vi preme con le pareti viscide, un vicolo che si restringe, s'intona, si arresta, un angiporto tenebroso che vi respinge: sentite che, prima di giungere, bisogna tornare. Qualche volta sbucate senza volerlo in un cortiletto, ma nemmeno di qui si avanza molto: un pilastro con una nicchia e dentro un santo, non si sa quale, vi sbarra la strada. Guardate di sfuggita in un andito, nella promiscuità spaventevole di letti e lettucci (qua i matrimoni son troppo precoci e tra parenti): donne su le porte, operai miserevoli sollevano gli occhi con qualcosa della vivacità meridionale tra il giallo malato e tra il bruno senza vita; sono sorpresi, soffrono di essere osservati, ripiegano subito gli occhi. È una miseria, si vede subito, cosciente di sé, e le donne e le case hanno di pulizia più che non consenta questa gabbia per vite di morti. In qualche piazzetta, dove non mancano suonatori di cennamelle e pulcinella sbrindellati e dove rosseggia qualche macchia di sole, si può frugare meglio; come un colpo di mazza sullo sterno ti giunge l'orrore: son visi di bambini e di donnette anemiche, tisiche, scrofolose, sifilitiche, tracomatiche, senza seno, senza fianchi, senza anima, con occhi loschi, storti, strabuzziti, cascanti, e con quella vergogna del guardare che non li abbandona mai. Non una vecchia in giro, che son tutte vecchie; a trent'anni son vecchie; a cinquanta son morte, e gli uomini sono al mare. Possibile che il buon Valente abbia scoperto qui "le nere pupille velate di voluttà", fra questo putridume verminoso? Particolare orribile, abbondano i nasi stirati, mostruosi, rosi, bucati, pustolosi, fioriti di giallo e di rosso; scomparsi addirittura. Del resto, chi avesse cuore di studiare demopsicologia, chi reggesse a vivere nei quartieri delle "zilate" o "surlene" o dei "panarieddi", potrebbe raccogliere volumi di leccornie popolaresche; bisognerebbe acquisire una qualche insensibilità per vivere tra lo sfasciame di questi cadaveri. E qui il Gigli colse quel miracolo di gentilezza che è la fiaba della donna colpevole, buttata a mare dal marito e salvata dalle sirene, e poi rimpianta da lui e che a lui - miracolo di amore - torna dal mare.





    Del resto non è possibile conoscere con sicurezza la mortalità di questa gente, di cui nessuno si occupa; non si compilano statistiche speciali per i poveri; è preferibile ignorarli; e quelle generali sono fatte a casaccio e tenute gelosamente occulte. Il sanitario comunale dei nostri paesi, perfettamente burocratizzato, ci tiene ad una sola cosa, a non aver noie dal medico provinciale e perciò a sminuire quanto è possibile il numero delle vittime delle periodiche epidemie devastatrici. Al più al più, quando il morbillo o qualche altro ben di Dio ha mandato in cielo qualche migliaio di angioletti, vien l'ordine di chiudere le scuole. Se da noi la povera gente ha abbandonato a va abbandonando le abitazioni entro terra a Matera, Ginosa, Massafra, Gravina, Grottaglie, sul Gargano, dovunque c'erano, e non son molti i paesi posti nei burroni profondi, pestiferi, dove stagnano con le immondezze cittadine le pozzanghere malarifiche, sono ancora troppe, dovunque, le abitazioni terrene sottoposte al livello stradale. Non conosco studi a riguardo, e credo non ve ne siano; ne ha compilato uno recentemente Giovanni Giovannetti, Direttore dell'Istituto Provinciale di Previdenza Sociale, per Foggia, che vorrebbe estese alla sua città le previdenze per Napoli del R. D. 25 ottobre 1924, e sarebbe giusto estenderle a tutto il Mezzogiorno. Costui ha descritto le abitazioni di Foggia ad un sol vano, piccole, con pavimenti e mura umidicce, con bocca di pozzo nero, senza ventilazione, nelle quali la famiglia convive con gli animali da lavoro e con quelli domestici. Ma ci sono oltre a ciò, in quel Capoluogo di provincia come altrove, le "grotte", spesa al disotto del piano stradale e la cui parete esterna, addossata al gozzo nero assorbente dei piani superiori, trasuda sostanze fecali. Dunque le grotte a Foggia sono ben 1054 e nel 1922 vi son morti 1421 bambini sino ai cinque anni, nel 1923, 1319. Quale sarà mai la mortalità effettiva delle nostre città che, essendo tutte antichissime, sono costituite, nel loro nucleo di vecchi quartieri? Quale della Taranto dei poveri:? È questa la città di Afrodite? Il sogno dei poeti e dei gaudenti, l'orgoglio della folla di ogni regione, spregiudicata, convenutavi per le necessità militari? Ma essa può rivolgere ancora ad Afrodite - od anche alla Morte - l'antica invocazione del concittadino:

"Misteriosa, accogli de l'affamato poeta
questa offerta; la porge Leonida, il randagio
".





    Più lunga vita hanno gli uomini che vivono sul mare, pescatori ed ostricultori a servizio dei pochi proprietari di barche o nella comunale Azienda Autonoma di Ostricultura e Matilicultura, che, se dà un grosso reddito al Comune, fornisce a ognuno di essi da 6 a 8 lire al giorno e un chilo di cozze. Per sé dunque non conoscono questi marinai, quando pur riescano a metter su un desinare, altro che l'annegagatti, un pesciacchiolo scipito e tutto spine, invendibile. Quando il tempo è cattivo, se non lavorano e non mangiano, in compenso bevono e giocano a carte, mentre le donne portano i pochi ori e la biancheria nuova al Banco di Napoli, gli stracci a qualche agenzia privata, dove si ottiene qualche lira, un terzo sempre del valore del pegno, e si paga il 18% al mese di interesse. Politicamente, masse ancora primitive, socialiste il 1° maggio, cattoliche il 10 maggio, a S. Cataldo, monarchiche il 20 settembre. Né stanno meglio i diecimila arsenalotti, di cui i nove decimi sono pagati a 400 0 500 lire al mese, sebbene nei cantieri, a contatto di operai meno analfabeti, si formino a più decise aspirazioni comunistiche e sognino di fare di Taranto la Kronatadt rossa del Mezzogiorno. Tentativi di organizzazione dei pescatori in varie cooperative furono fatti al '18 e il '19, senza alcun frutto, da parte di elementi buoni e cattivi, come avviene da noi e dovunque; tra questi ultimi un tale Cicala, candidato politico nel 1912 a Manduria, che dopo si è messo a far l'attore. A proposito anzi, facendo egli due anni fa in uno dei teatri cittadini la parte di Giuda e fingendo di impiccarsi, la gente gridò: "Quedda è a morte ch'ha fa' tu? ".

    Perché anche oggi una tal quale attività poetica si continua presso queste plebi di origine greca, da cui dovevano uscire Paisiello e Costa, e non solo è vivo l'amore, nel popolino, per pagliacci, per le maschere e le musiche, per i tre teatri locali, per le rappresentazioni satiriche o religiose, più che non sia altrove in Puglia, ma la città ha conservato l'antico spirito corbellatore del piccolo Comune chiuso, che si spassava con la maschera Ioele, una specie di buffo scemo, intorno al '60, e dopo trovava al poeta dialettale delle piccole risse politiche, degli innamorati ridicoli e delle donnette dispettose in Emilio Consiglio. Oggi i tentativi di arte dei tarantini sono altrove, fuori delle plebi, più spesso anche fuori della loro patria, ma le scempiaggini popolaresche di Ettore Saviano assurgono agli onori della stampa, ma barbieri, falegnami, tipografi, facchini, e studenti delle tecniche, nella settimana santa, per i misteri di Cristo, salgono in vesti tricolori al palcoscenico, ad urlare, come narra un mio amico:

In verità, in verità vi diche
ch'uno di voi digià mi ha tradisciuto.





    Veramente in queste manifestazioni poetiche io ho sentito preferire il settenario da Cristo, metro infinitamente più allegro, né trascuravano di intramezzare lo spettacolo con le mollezze di uno skotish. Non dice delle rappresentazioni comiche, degli scherzi e commedie, semiclandestine, su Mussolini ed altri eroi della scena moderna, poco reverendi. Non è tarentina, ma anche qui si è diffusa quell'arguta caricatura che trovò sin dal principio un barbuto mercante turco di tappeti, che viceversa è nato ad Acquaviva delle Fonti ed abbiam visto qua e là per le nostre cittadine, insaccato in una camicia nera, a preparare le sue squadre di azione così:

    A chi l'Italia? A noi! - A chi il danaro? A noi! - A chi il lavoro? Eja, eja, quante ne vuè sapè!

    Del resto il popolo ogni volta che può si diverte anche in chiesa, e i così detti perdoni servono per memorande ubbriacature, come gl'incappucciati del venerdì santo, che girano con qualunque tempo a piedi nudi, si rimpinzano lo stomaco di friselle con pepe, a ben conciliare il vino. Tanto la nostra povera gente è lontana dal prendere sul serio anche la propria miseria!

L'altra Città.

    La città moderna, è chiaro, è tutt'altra cosa e del tutto diseparata: vasto e grandioso scacchiere, al di là del ponte di ferro, come ho detto, provvista di tutto il confort moderno, luce, fognature, acqua, strade asfaltate, tram, ecc., ecc.; dove sono gli uomini moderni, le classi colte, i maggiorenti, i comandi della terra e del mare, gli uomini di governo, tutte le belle cose del luogo e più venute di fuori intorno allo smisurato enfiarsi della città militare: non diverse da quelli di altri centri del Nord e del Sud. E qui più facilmente si continua il culto di Venere, l'antica protettrice, se pure non più armata, e qui forse si può pescare l'ellenismo degli sfaccendati e certo quei tali occhi voluttuari di sopra, ed amministratori pubblici non disdegnano la pratica del mercato di quelle voluttà, col quale si pagano, all'occorrenza, i soffietti della stampa. Un magnifico giardino pubblico sul mare, il Peripato, già villa Beaumont, posto a ridosso della stazione di torpediniere fumanti di sotto, ricco a primavera di giaggioli violacei e di pruni selvatici "i giadi", cioè l'albero cui si impiccò Giuda, dai fittissimi fioretti rosso-viola, è ancor oggi nobile sede degli svaghi della aristocrazia, per la quale si perpetua lo spirito secentesco delle Deliciae Tarentinae del D'Aquino: in questo paradiso era la villa settecentesca del Capecelatro, a specchio su mare, "con altorilievi sulle pareti figuranti Bacco fanciullo, Amorini alati, Venere uscente dall'Jonio in un merletto di spume, e la più leggiadra delle nostre etere, Efesina". Ed il candido arcivescovo riassumeva le aspirazioni accomodantistiche del cattolicismo nella famosa targa:

Si Adam
Rursus peccasset hic
Deus forsitan ignosceret.





    È questo dunque, come si vede, quanto la città ha dato dopo il pitagoreismo di Archita, che fu pure uno dei pochi tentativi del Mezzogiorno di svincolare l'anima dalle preoccupazioni materiali e dagli abbandoni sensuali, cioè dal sostrato della nostra storia.

    Dopo ciò, mi pare inutile dire che c'è anche qui sviluppo industriale e bancario, tentativi agricoli, prosciugamento di paludi e di zone malariche anche per opera di privati, piantagioni estesissime, masserie modello, allevamenti, fabbriche ed industrie varie, esportazioni coronate da grandi commerci con l'Oriente e col nord d'Europa, due soli istituti medi, una cattedra di agricoltura, un consorzio agrario, ecc., ecc., insomma uomini di ardimento e di pazienza, come in ognuna delle nostre città, anche le più piccole, e di seria cultura; e mi sia lecito ricordare lo storico Francesco Nitti. Ma sono sempre eccezioni, ma il ritmo generale della vita, come dovunque quaggiù, vi è lento ancora e pieno di esitazione: troppi milioni depositati presso la Banca Sconto e Pegni, e insomma la città marinaresca, patriotticamente ricca dalla solida rettorica sull'espansione dell'Italia sul mare, senza alcun inizio di attività di mare, vive sui cantieri Tosi, sull'arsenale, sulla flotta, sul deposito ferroviario, sulla Metallurgia Pugliese, sull'industria della pesca, sul piccolo commercio, cioè prevalentemente sul Governo, sui sussidi, larvati o no, del Governo, e non ha e non pensa ad avere una vita autonoma. Troppi problemi ancora da risolvere, primissimo quello del Mar Piccolo, la cui industria ostricola è ridotta a quantità trascurabili, e le influenze politiche in essa son sempre deleterie, e l'amministrazione dimostra una incompetenza e trascuratezza badiali, per non dir peggio; troppe strade da costruire per allacciare i 27 Comuni della nuova Provincia al Capoluogo, e quasi tutto da creare per dare al porto commerciale una ragione di essere non solo nei rifornimenti della flotta e dei depositi, ma in un retroterra ricco e ben attrezzato per l'esportazione. All'abbandono ci ha colpa l'egoismo di Lecce, l'antico capoluogo, assicurano i tarentini, ma un uomo insospettabile come l'on. Vallone affermava che Taranto pesava sul bilancio della Provincia più che non rendesse. Ora un prete del luogo scrive che la città deve darsi ancora edifici scolastici, dopo scuola, scuola d'arte e mestieri, ricovero per fanciulli abbandonati, ospizio per deficienti e mentecatti, un ricovero di mendicità che meriti questo nome, che non si limiti a sussidiare i mendichi della burocrazia. Ma problemi di plebi non esistono per costoro, e la salute e l'igiene sono un lusso e un privilegio. E se il Governo, puta caso, desse alla città dei milioni per risanare i quartieri vecchi, non mancherebbe di costruirsi una qualche galleria, come fece Napoli nell'identica occasione, un qualche passeggio o teatro. Ora il capoluogo della nuova Provincia ha un rompicapo grave da risolvere anzitutto, quello di dare uno stemma alla nuova Provincia, il più possibilmente arcaico ed ellenico, che risalga per lo meno a Falanto et ultra! È vero che non mancano granchi in questi due mari!





Conclusione.

    Per concludere: la borghesia demomassonica di qui ha tutte le caratteristiche tare di quella dell'Italia Settentrionale, come le svela l'amico Monti: proprio di mezzo ad essa, ritiratisi presto dalla scena gl'ingenui iniziatori, combattenti per lo più, cui il patriottismo era uno sfogatoio alla esasperazione bellica, sono usciti gli esponenti attuali del fascismo locale, passati di punto in bianco dal radicalismo al fascismo, come uno a Carnevale si veste da cinese, per null'altro che per assicurare più larghi proventi alla loro attività professionale, o per soddisfare ad un'ambizione antica, sfrenata, ridevole nella sua sproporzione col valore degli uomini. Fenomeno di trasformismo comune in Italia, dove l'unica cosa che esiste è la propria persona, e a servizio di questa la famiglia, la città e possibilmente lo Stato.

    Negli oppositori, sporadiche ribellioni, gesti audaci, e poi smarrimento e poi non c'è più nulla da fare, e accosciamento e abbiccamento, e insomma nulla di organizzato; ma vigliacchetteria più spregevole negli altri, nei fortunati riusciti a darla a bere al fascismo, sostenitori ora di esso tanto più arrabbiati in pubblico quanto più malcontenti nel loro intimo e pronti, a quattr'occhi, a borbottare, per crearsi un alibi pel domani, ma incapaci di parlare, per paura. Ho trovato un eminente uomo del Foro tarentino, spirito brillante e multanime, di varia formazione, che ha in certo modo rappresentato, almeno culturalmente, l'ascensione cittadina degli ultimi quarant'anni dalle ristrettezze del borgo medievale alle grandi loquenti aspirazioni della seconda fortezza di mare. anch'egli, del resto, evocatore una volta di mollezze ebaliche e di sentimentalità di castellane. Non sapeva darsi pace, non poteva capacitarsi che le cose andassero così, che dovessero andare così. Mi ha squadernato tutto Machiavelli, le note pagine sui tumulti popolari, fonte di libertà, sul malo esempio dato da chi conquista il potere contro la legge anche a fin di bene, sull'onore e potenza dei capi di Stati liberi, sui danni dell'inosservanza delle leggi, sul senso dell'eguaglianza cittadina, sulla saggezza dei popoli superiore a quella dei principi; è passato poi al Cuoco, alla libertà considerata come bene e fonte di ogni bene, allo spirito di parte nei Governi, che è massimo male, al terrorismo, al contagio delle idee e al modo di opporvisi. Ma ho capito che il suo autore è Bovio, con quella mentalità anteriore al 1890, cioè alle più recenti e più vive esperienze, l'austero filosofo, "padre incorrotto di corrotti figli", mi pare a volte a veder lui, il mio intervistato, ritto, col braccio proteso in magnifico atteggiamento oratorio, mi è parso che Nicola Mignogna ripetesse le note fierissime parole sulla libertà dinanzi ai giudici borbonici. Quale libertà? Quella che allora poteva bastare, per gli sparuti ceti dirigenti? Nessuna preoccupazione marxistica? Gli ho parlato delle condizioni della città vecchia; non pareva comprendere; mi ha detto, sempre con quel largo gesto oratorio, sicuro di sé: Sono ben pochi rispetto a tutta Taranto! La città ha oggi più di centomila abitanti, mentre nel '75 ne aveva solo venticinquemila. Ed ha un grandioso avvenire dinanzi a sé! Ed ha sorriso.

    Insomma anche lui avrebbe veduto il fascismo sì, perché fascismo è uguale a patriottismo, me così e così, cioè proprio a servizio, per intenderci. Gli ho chiesto se è vero che intanto prepara una monografia sul culto di Venere nell'antica Taras. Ha sorriso.

    Come vedi, tutto ciò, se può essere triste, per il nostro umore, è trito e vieto. Assolutamente non c'è proprio nulla di nuovo da dire o da scoprire in questi paesi. Il rivolgimento avverrà per altra strada, con altri uomini, per l'azione di altre forze, per l'impulso di altre vicende.

    Ti scriverò subito di ciò che ho visto nell'agro tarentino.

Tuo
TOMMASO FIORE.