TRIESTETradizioniNon è possibile parlare di Trieste senza che si affollino alla mente i ricordi di quello che è stato il suo fascino sulle generazioni italiane dell'anteguerra. Indubbiamente tutti i partiti, ad onta dei differenti postulati programmatici, hanno subito l'influenza delle passioni che rampollavano da questo nome. I triplicisti ed i socialisti compresi. Su questi ultimi - oltrechè sui radicali e sui repubblicani più intimamente avvinti alla città adriatica attraverso il sangue di Guglielmo Oberdan - agí la necessità confusa di crearsene un'arma politica contro i Governi del tempo asserviti alla politica triplicista. Su gli altri, fautori della Triplice, il nome di Trieste non poteva non fungere da freno inibitore a più complete dedizioni alla politica egemonica degli imperialisti germanici. Ora Trieste, assurta in altri tempi a mito nazionale il cui influsso si fece sentire sulla politica di quasi tutti i partiti politici italiani - di tutti, dovrei dire, se si pensa a quella che è stata per un momento la indecisione dello stesso P. S. I. prima di affermarsi avverso alla guerra, ed alla lacerazione interna che seguì questo suo atteggiamento - rievoca, nella memoria di quanti convengono fra le sue mura, questo suo singolare passato. Le sue ampie contrade selciate ed i suoi moderni palazzi bianchicci pare vogliano nasconderne l'età, a simiglianza di certe signore che rendono invisibili le rughe incipienti con uso abbondante di bistro e di rossetto. Eppure Trieste ha un passato che può essere rammentato dai suoi cittadini. Infatti esso si ricollega intimamente con quello della Roma imperiale e su su, nel Medio Evo, si riallaccia strettamente con la tradizione dei Comuni italiani. "Ordiniamo e vogliamo che suonandosi campana a stormo ogni persona, dai quindici ai sessanta anni, debba correre in piazza e mettersi agli ordini del podestà". Così suona una deliberazione del Maggior Consiglio della città, in Trieste del XIV secolo, come ricorda lo storico cittadino Giuseppe Caprin nel suo Il Trecento a Trieste (1897). Non è questa, della difesa del Comune affidata a tutta la cittadinanza, negli stretti limiti delle mura cittadine, la caratteristica preminente del Comune italiano? Anche Trieste, dunque, visse quel periodo da pari a pari con le consorelle della penisola. Qualche differenza si riscontra, tuttavia, fra l'una e le altre. Il Comune triestino era retto da un regime tenacemente oligarchico. Non Ordinamenti di Giustizia né tumulti di Ciompi. Esclusa in linea assoluta qualsiasi designazione popolare. Corrisponde, invece, alla atmosfera del tempo la lotta aspra e tenace contro Venezia. Naturalmente non esiste la possibilità di stabilire un parallelo con gli epici duelli fra Venezia e Genova o fra Genova e Pisa. Di ben altra natura, e più profonda, deve essere la lotta fra le due città adriatiche se ancor oggi, a redenzione compiuta, essa continua nascosta fra le pieghe di una molto superficiale acquiescenza al destino immediato. Ma come si prepara Trieste a sostenere lunga tenzone? A differenza di quanto avviene altrove, essa non si affida alle armi. Il rischio sarebbe troppo grande per una città dove quello che più conta è il guadagno immediato. Mai uno scatto di fierezza: quando si tratta di liberarsi dal giogo dei vescovi di Aquileia essa riscatta la propria indipendenza con l'oro. Se si tratta di difendersi, nel 1369, essa compie la prima dedizione all'Austria. Nel 1382 il calcolo affaristico ed utilitario sopraffà ogni residuo sentimento di dignità. "L'esperienza insegnava che non era sufficiente l'accettazione della signoria d'Austria per averne difesa: occorreva il suo dominio: Trieste terra sua, gli interessi suoi. E allora vero aiuto d'armi e soldati: anche incremento commerciale. Perché solo la Casa d'Austria poteva obbligare gli abitanti dell'interno a far capo con le loro merci a Trieste" (SLATAPER: Scr. polit., Roma, 1925). La Casa d'Austria s'impegna per sé e per i suoi successori, di lasciare integra la forma di reggimento comunale della città, di non cederla, né di venderla ad alcuno e di abbinarla in perpetuo alla corona ducale dell'Austria inferiore. E tien fede alla promessa fino al periodo teresiano. La dedizione non salva però Trieste dalle umiliazioni della strapotente Venezia. Il mercimonio tarderà molti secoli a dar frutti. I sovrani d'Austria sono, allora, impotenti a sopportare il peso del compito assuntosi. Venezia domina l'Adriatico ed usa ed abusa della sua potenza. Essa taglieggia i navigli della ancor giovane rivale e ne distrugge le saline. Non serve a quest'ultima aver ottenuto che i duchi d'Austria sbarrino le vie che guidano ai porti veneti ed impongano alle regioni immediatamente confinanti con Trieste (il suo hinterland) di giovarsi del suo porto. Venezia distrugge con la forza cotesti sbarramenti. Di più: la potenza di attrazione dei suoi mercati, ormai mondiali, induce le genti a servirsi delle sue succursali istriane - Capodistria specialmente, sbocco pur essa al retroterra slavo della Carsia e della Carniola - a danno esclusivo di Trieste. E la triste vicenda di quest'ultima dura a lungo: come una dolorosa passione di risollevate speranze e di rinnovate disperazioni. Dura fino a quando Venezia, di fronte al progredire della conquista turca ed allo spostarsi della grandi vie commerciali dall'Oriente all'America, dal Mediterraneo agli Oceani, perde ogni primato, mentre l'Austria trasformatasi a poco a poco in impero per la raggiunta supremazia sulle contrade vicine al piccolo ducato, diventa centro animatore di giovani energie che anelano ricongiungersi al mare attraverso l'unica finestra aperta: Trieste. Queste forze commerciali ed economiche del retroterra, organizzate potentemente nel nuovo Impero, premono necessariamente contro Venezia ed a favore della rivale: Carlo VI ne profitta e proclama libero il commercio sull'Adriatico: la liberté du commerce est une condition vigoureuse de salut per la città di S. Giusto (1711). Siamo già all'epoca moderna. Ma di tutto quello che è stato prima, nel passato, ben poche e miserande vestigia son rimaste. Di Roma imperiale un solo avanzo, in rovina: l'Arco di Riccardo, del quale non è possibile stabilire esattamente il significato; del suo Medio Evo, ad eccezione di S. Giusto e del Castello, pochi ruderi soltanto. Tutta moderna, invece, la città: e si potrebbe affermare che quel suo passato, se è sopravvissuto nella coscienza di qualche suo cultore di cose patrie, è stato cancellato agli occhi della più vasta parte, gli incolti, dall'opera spietata e corrodente del tempo. Così è. Trieste odierna, con il suo magnifico porto specchiantesi nel grigio-azzurro del suo mare, trionfalmente, sembra nata non prima del 1717, quando Carlo VI ne proclamò il porto franco insieme a quello di Fiume. È l'atto di battesimo della città. Da allora la vecchia città è abbandonata: divisa dal resto come da un recinto morale anche più forte di una barriera materiale, essa decade completamente e diventa con rapidità la sentina dei vizi e delle miserie della plebe, sede di lupanari e di locali da trivio, ricetto di etère e di marinai avvinazzati, di rigattieri del Ghetto e di vagabondi senza casa e senza pane. Fuori sorge la vera città, quella nuova, col suo largo respiro su le rive del mare, lungo le quali si allineano superbamente i suoi palazzi e dalle quali si dipartono rettilinei numerosi verso nuovi gangli cittadini e verso nuovi sobborghi. È questa la città che ammirano i visitatori. I quali non sanno di quell'altra, di quella vera, della città madre abbiosciatasi per decrepitezza su se stessa e che solo da pochi decenni ha ricevuto dal piccone demolitore una piccola iniezione di ossigeno... ed una scuola. Il globe-trotter, il turista, il commerciante, il viaggiatore che vedono la moderna città con occhi stupiti, sognano probabilmente di un miracolo americano. E l'entusiasmo li può afferrare senza resistenza. Nell'anfiteatro del suo golfo si sospingono infatti, dolcemente e sinuosamente, le colline che digradano a mare con lentezza: e lungo la riva stanno appollaiati opifici maestosi con armoniose risonanze e vivaci tintinnii di ferri, di macchine, d'ordegni meccanici insieme a palazzi snelli e gioviali involti in una patina biancastra di polvere strappata a selve fontane dalla bora violenta ed impetuosa... Giù giù, fino a Miramare, oasi di verzure fresche e riposanti in mezzo alla desolata e scabra petraia del Carso. Miramare: sogno marmoreo di un pallido eroe che sembra avvolto in un nembo di purezze mitiche. Questa caratteristica di modernità di Trieste, che io ho cercato di rendere con poche e non sufficienti pennellate, sembra rispondere magnificamente al carattere dei suoi abitanti. Gente rude ed adusata più alle fatiche ed al rapido guadagno che alla speculazione ed al sogno: capitani dell'industria e lupi di mare, operai qualificati e pescatori dalla nascita. La lotta di classe si presenta qui, come notava Pio Gardenghi, più definita nei suoi elementi essenziali che non altrove. Trieste presenta infatti un'industria giovane e rigogliosa affermatasi potentemente all'interno ed all'estero: un proletariato attivo, che offre maestranze capaci e specializzate; e, in mezzo, poca gente, senza tradizioni vive, senza menestrelli da ricordare a da subire, trascinata, volta a volta, dalla corrente, e costretta ad aggiogarsi al carro del vincitore per documentarne il trionfo... Combattuta aspramente, per la sua invidiabile posizione geografica nel mare e verso terra, dalle orde dei barbari che le si avvicendavano d'intorno nelle innumeri calate in suolo italiano, essa sostenne infiniti urti, partecipò a numerose e aspre tenzoni, subì diversi gioghi. Tutte queste alterne e fortunose vicende che sembravano minacciarne tanto maggiormente la struttura culturale e tradizionale in quanto, essendo lo sbocco naturale di un vastissimo retroterra, intorno ad essa si appuntavano le invidie e gli appetiti dei popoli che giostravano alle sue mura, non le impedì di conservarsi, nei secoli, italiana. Ciò è dipeso anche dalla sua conformazione topografica. Collocata a ridosso di una unica collina, e ricinta di muraglie ben difese, le sue poche decine di migliaia di abitanti potevano reagire vivacemente ad ogni tentativo di inquinamento e di snaturalizzazione. Nel Medioevo l'organizzazione economica della società era necessariamente limitata: e se anche i traffici delle grandi città marinare avevano raggiunto indiscutibile importanza, pure la struttura organica del sistema di produzione, tipicamente preborghese (artigianato, corporazioni chiuse di mestiere, sistema feudale), non aveva ancora trasformato la città né in cosmopolita, né, tanto meno, in industriale con moltiplicate relazioni con l'estero. Inoltre, in quei periodo, a Trieste più che altrove, si nota una strana forza di assimilazione dell'ambiente. Il regime oligarchico pare imponga a tutti la sua volontà. Chiunque viene nella città, inviato cesareo od emigrante oltremontano, ne subisce il dominio e ne accetta i costumi e la parlata ladino-friulana, che soltanto alla fine del XVIII secolo, per un processo glottologico mai ben chiarito (come nota A. Vivante nell'Irredentismo Adriatico, Firenze, 1912), è sostituita dall'odierno veneto. Questa forza particolare di triestinificazione dell'ambiente, si mantiene fin sugli ultimi scorci del secolo passato. Ed è per questo che il problema della possibilità di snaturalizzazione della città si presenta con qualche gravità soltanto nella prima metà del XIX secolo. In quel periodo, infatti, ha inizio quel vasto fenomeno demografico, economico e sociale che va sotto il nome di urbanesimo. L'invenzione delle macchine insieme alla caduta del sistema feudale e dell'artigianato, convoglia le forze attive della società verso il capitalismo. Si tratta della più grande rivoluzione pacifica che conosca l'umanità. I grandi centri urbani diventano gangli propulsori ed animatori di rinnovate energie sociali. La divisione del lavoro, applicata su vasta scala in seguito alla conseguente razionale modificazione dei rapporti di produzione, facilita il formarsi di vasti agglomerati urbani. Da allora si verifica l'esodo dalle campagne in misura sempre più impressionante. Il mondo assiste meravigliato a questa improvvisa sua trasformazione. Non è questo il luogo di riprendere l'annosa discussione sui vantaggi e sui danni di questo fenomeno. Qui giova considerare invece come codesto fenomeno migratorio dalle campagne alle città, razionalmente giustificato dal nuovo assestamento del sistema produttivo, non poteva non riscontrarsi anche nella città adriatica. Non si può infatti intendere e comprendere quel periodo di tempo che corre dagli anni in cui ebbe inizio il Risorgimento italiano fino alla guerra europea, se non si tiene conto del fatto che l'aumento decisivo della popolazione è stato, nella sua maggior parte, un fenomeno d'urbanesimo. Il contado sentiva l'attrazione delle città. Ubbriacato dalla visione superba delle nuove possibilità di vita che gli venivano offerte, il contadino scendeva al mare dal Carso aprico e dall'Istria deserta. In cerca di fortuna. Verso la città che, probabilmente, era l'argomento dei discorsi nel villaggio lontano, dove si favoleggiava di ricchezze da conquistare senza fatica e di sogni da tradurre in realtà senza pena e senza sofferenza. Codesti contadini che abbandonavano il casolare paterno, quel casolare che nelle mura anguste aveva racchiuse le vicende tranquille e riposate di molte generazioni, e scendevano, un dopo l'altro, dall'altipiano, erano altra gente che non quella di Trieste. Era gente che parlava una lingua diversa, che aveva tradizioni diverse, che, insomma, apparteneva ad un'altra stirpe. Tutti i dintorni di Trieste, infatti, erano popolati nella maggior parte da slavi. Si potrebbe dire, anzi, senza tema di avventurare ipotesi contrastanti con la realtà, che costanti e sicure tradizioni italiano-venete si sono conservate quasi esclusivamente nelle città. Forse ciò deriva dalla maggiore possibilità che hanno i centri urbani di resistere alle influenze del contado. Comunque resta il fatto che questi centri, conservavano una tradizione che non corrispondeva a quelle delle campagne. È vero che, per un certo tempo, mentre imperava il suffragio ristretto, anche le campagne inviarono alle numerose Diete provinciali rappresentanti italiani. Ma ciò diventa lapalissiano ove si consideri che i grandi proprietari di terre, residenti per lo più nelle città, appartenevano ad una borghesia e ad una nobiltà che conservava tradizioni culturali italiane, pur assoggettandosi a tutti i compromessi con la Corte Imperiale di Vienna. Man mano che ai allargò il suffragio si vennero dimostrando profonde le discordanze fra città e territorio, così che fu necessario giustificare tale fatto attribuendone la colpa al Governo di Vienna. Ad ogni modo ai contadini slavi che immigravano in Trieste non era riservato il miglior destino. Mentre da Vienna si importavano burocratici tedeschi per gli uffici statali ed i commerci erano monopolizzati dall'elemento italiano insieme a molti levantini ed a parecchi tedeschi, agli slavi venivano riserbati i posti di maggior fatica e di minor rendimento. Essi erano ridotti a diventare Staatsdiener o servi di Stato, come si diceva. Il bracciantato al porto, alle ferrovie, nelle aziende pubbliche e private, costituiva quasi sempre naturalmente l'onere senza onore dei nuovi venuti. Se si pensa infatti alla forza assimilatrice della cultura italiana si vede come difficilmente gli slavi del territorio potessero sovrapporsi all'elemento indigeno e dominarlo. Del resto nemmeno le scuole tedesche create dal Governo ad uso dei propri impiegati non avevano potuto sopraffare la cultura e la tradizione paesana. Da queste scuole, i relativamente molti italiani che le frequentavano uscivano immuni come se in essi esistessero antitossine a josa per preservarli da ogni contagio. Per gli altri cittadini il Comune aveva apprestate e perfezionate scuole proprie mercé l'opera tenace e volonterosa di Domenico Rossetti e di Felice Venezian. Poco avevano da temere, quindi, gli italiani dai nuovi venuti, poiché questi potevano essere assorbiti. Ma giovò al Governo austriaco giuocare la carta del nazionalismo slavo: era vecchia arte del decrepito Impero che ne aveva dati sufficienti saggi all'epoca della sua dominazione in Lombardia e nella Venezia. Il RisorgimentoL'epoca del Risorgimento, con le congiure e le insurrezioni aveva sfiorato la città senza suscitar molti entusiasmi. Un periodico, intorno al '40, più letterario che politico, la Favilla, che ebbe collaboratori, fra gli altri, il Dall'Ongaro ed il Gazzoletti, fu breve meteora in un cielo pigro per troppa calma. Pochi giovani, durante le guerre per l'Indipendenza, oltrepassarono il confine e combatterono per l'unità nazionale. È certo che a Trieste, nel '48, di unità con l'Italia pochi parlavano. Neppure il Dall'Ongaro che scriveva insolenze contro essa da Venezia, in Fatti e parole, e Daniele Manin che nelle meravigliose giornate della sua repubblica accennava a Trieste, senza nominarla, come "alla rada dove si preparavano i nostri lutti". Diversa l'Istria. Sebbene due terzi della popolazione fosse slava, pure è certo che la minoranza italiana era pronta all'insurrezione per l'unità. Sarebbe bastato un cenno: ma la città di S. Giusto non è ancora capace di slanci passionali. Forse non lo sarà mai. Per ora, parlo del '48, essa vive dei suoi traffici, beata nella sua ristretta autonomia nazionale. Città mistilingue, incrocio ed ingorgo di più razze, sbocco naturale di retroterra non italiano, essa teme per il proprio avvenire e conserva tenacemente fede alla propria situazione contemporanea che le permette di vivere e di arricchirsi. In Istria, invece, l'agitazione, se non ha ancora raggiunto un pieno sviluppo, trova però modi arditi di estrinsecazione. La Dieta è chiamata a scegliere i suoi rappresentanti a Vienna; essa si rifiuta di farlo: su 27 schede deposte nell'urna, 20 portano, invece del nome di un deputato, la parola "Nessuno". Gli è che il sostrato economico afferra violentemente anche gli intellettuali triestini e li obbliga a dubitare che l'unità con l'Italia possa rappresentare la vittoria decisiva della rivale lagunare e la fine ingloriosa della propria città. Se Trieste resiste ad un primordiale tentativo di tedeschizzazione, ciò si deve alla mancanza di ogni premessa favorevole al raggiungimento di quell'obbiettivo. In una città dove son posti i germi per un conflitto di stirpe slavo-italiano, i tedeschi mancavano di ogni possibilità di trionfo perché non costituivano, in essa, né una numerosa collettività, né una sufficientemente forte consorteria. Il Governo di Vienna abbandonò il piano e principiò ad adulare gli italiani contro gli slavi. Ma gli italiani non avevano ancora prevenzioni contro i conterranei slavi. Il Cavour afferma che "la razza slava energica, numerosa, da più secoli oppressa, vuole ottenere intera la sua emancipazione... la sua causa è giusta e nobile, propugnata da orde rozze ancora, ma ardimentose ed energiche, essa è quindi destinata a trionfare in un non lontano avvenire". Il conflitto fra le due stirpi è ancora latente e soltanto pochi precursori, Pacifico Valussi e Nicolò Tommaseo, per es., possono presentirlo. Esso non si appalesa nella sua forma più cruda se non quando le masse agricole slave sono ingoiate a migliaia dall'emporio triestino e rapidamente inurbate. Trascinate nel vortice di una nuova civiltà, esse si risvegliano ed affacciano le prime pretese alla scuola ed alla libertà... Ma il fenomeno si ripete ovunque e per tutte le altre nazionalità dell'Impero-mosaico: tutte le città finitime, nelle quali la lotta di stirpe si era lentamente incubata, soffrono della medesima malattia. Le minoranze etniche chiedono il riconoscimento dei propri diritti a Trento ed a Leopoli, a Pilsen ed a Trieste. E le energie cittadine sono convogliate verso le dura e faticosa lotta di stirpe. L'anteguerraIl quadro delle battaglie politiche triestine, negli anni anteriori alla guerra e dopo il sacrificio dell'Oberdan, ha per sfondo questa lotta che non è stata scevra di danni e di delusioni. Da una parte, dunque, i liberali nazionali ed i mazziniani. Dall'altra gli sloveni. Nel mezzo, meno forti ma pur sempre minacciosi, i socialisti che, avendo compreso come i due nazionalismi rispondessero fatalmente alla necessità politica di un Governo che aspirava a dominare sulle divisioni dei sudditi e, nello stesso tempo, giovassero esclusivamente alla locale borghesia, cercavano di superare il conflitto trasportando la lotta su altro terreno: quello di classe. Non si può certamente asserire che il partito mazziniano non trovasse qualche rispondenza nell'elemento intellettuale più ardimentoso. Sarebbe una menzogna. Ma è certo che esso doveva inevitabilmente costituire soltanto una minoranza intelligente. Esso doveva, cioè, sentirsi isolato nel cuore di una città trafficante, nella quale la ricerca del guadagno aveva oscurato ogni possibilità di adeguate reazioni spirituali. Quello che era l'espressione della maggior parte della cittadinanza, il partito liberale nazionale, infatti, non fu (e non poteva essere) conseguente alle proprie premesse ideologiche. I repubblicani triestini ne sanno qualcosa. Del resto ognuno conosce anche oggi di che panni si vestano molti che si son muniti del passaporto liberale. I liberali triestini non erano diversi. Essi erano gli esponenti di una classe che dominava mediante l'intensificato sfruttamento delle altre e non potevano sottrarsi perciò alla necessità di sempre maggiori compromessi. La borghesia locale, aderente toto corde al liberalismo nazionale, sapeva transigere con la propria coscienza al momento necessario. Quando si trattava di operare a vantaggio proprio essa sapeva opportunamente spingere il proprio zelo partigiano e patriottico fino ad assumere in servizio proprio gli odiati slavi! Così le persone di servizio o i facchini d'aziende private erano esclusivamente e logicamente appartenenti all'altra razza. E si capisce: gli slavi erano un po' come i coolies di Trieste. Erano disorganizzati e si contentavano di salari bassissimi. Il fenomeno assumeva proporzioni più vaste durante gli scioperi. Il crumiro era al di sopra della nazione: slavo per i padroni italiani, italiano per quelli slavi, era l'inviato di Dio. La solidarietà borghese, in quel campo, non aveva limiti. In queste condizioni l'opera del partito nazionale-liberale non poteva giovare che al Governo di Vienna. I Pitacco ed i Valerio, infatti, non potevano rifiutare l'aumento delle spese militari se l'esercito doveva servire non a soffocare lo slavismo, ma a tutelare i grandi interessi di casta. La loro opera quindi, doveva essere inefficace. Se si eccettua L'Indipendente, l'unica gazzetta del liberalismo di sinistra, e le forze intellettuali che gli si appoggiavano, il resto del partito era un amalgama di imparruccati conservatori incapaci di sottrarsi agli imperativi della propria posizione economica e sociale. I liberali, naturalmente, si sono risvegliati all'idea unitaria molto tardi. I pochi precursori erano tendenzialmente repubblicani-mazziniani. Venne poi il grande partito: ma fu pigro e inintelligente come tutti i corpi obsoleti di troppa pinguedine. Sì che quando, durante il periodo per l'annessione delle terre bosniache, l'imperatore annunciò una visita a Trieste, esso non si trovò - e non volle trovarsi - preparato: e un giovane, ancora mazziniano, gettò la sua vita a rampogna sempiterna dei fiacchi e degli inetti. Altro doveva fare Il Piccolo, intento a barcamenarsi fra gli scogli dell'essere e non parere e viceversa. Altro dovevano fare i ministeriali deputati italiani che si giustificavano colle necessità di patteggiare col Governo concessioni a favore della città. Un terzo partito si affaccia alla ribalta con il volgere degli anni ed il compiuto affermarsi dell'economia capitalistica: il partito socialista. Più bestemmiata creatura non poteva nascere, qui ed altrove: più qui che altrove. Molte pagine si sono scritte sul socialismo triestino anteguerra e tutte intonate ad un così vacuo e profondo senso di incomprensione che reca stupore dover constatare l'aprioristicità dei giudizi e la ostentata falsa interpretazione dei fatti. Tutti lo hanno rinnegato. La pigrizia mentale della borghesia triestina non arrivava a comprendere appieno il fenomeno ma ne intuiva il pericolo. Ed essa che, col suo contegno, aveva meritato alla città il nome di "Fedelissima" e che soltanto da un cinquantennio si lasciava tenzonare nel cuore l'amore per la patria e quello per la Corte di Vienna..., fece suo il grido di Tecoppa contro i socialisti e tentò di inchiodarli alla gogna sotto l'infamante accusa di "dir male di Garibaldi". Anche i giovani; nutriti di vieti luoghi comuni nelle rancide scuole comunali, ed impotenti a qualsiasi serio tentativo di indipendenza intellettuale, non sapevano sfuggire alla tentazione di dirne male, per al pessimo gusto di non esser da meno degli altri. Era il tempo in cui il giornale di Monicelli apriva le sue colonne all'irredentismo imperialista. Il 21 marzo 1912 un giovane, morto per la sua idea (e perciò è doveroso rendergli il saluto dell'armi) scriveva su l'Idea Nazionale, parlando del P. S.: "Continuò (del partito lealista austriaco) le diffamazioni, continuò le diffamazioni contro l'Italia, nascose l'importanza della difesa nazionale ed esagerò talvolta con metodi delatori le aspirazioni irredentiste attribuendole direttamente al partito nazionale, quale organizzazione politica e amministrativa". A questa sfuriata risponde dalle colonne della Voce un altro giovane, non socialista, intorno al quale si era stretto un nucleo di pensatori triestini e regnicoli che avevano una visione non imperialista dell'irredentismo: Scipio Slataper, morto in guerra. Il quale scriveva: "E invece la tattica, semplicista e cristallizzata del partito socialista è di dimostrare che il partito liberale è partito affarista e non irredentista, benché ogni tanto faccia finta di esserlo, e che ci vuol proprio la polizia austriaca per credergli in parola". Un altro, il liberale prof. Vidossich, in una polemica sulla Voce con il direttore del quotidiano socialista di Trieste, Angiolo Lanza, sulle elezioni comunali triestine che sollevarono scalpore per il fatto che i socialisti avevano accolto nella loro lista due loro compagni di nazionalità slava, li accusa di essersi alleati con il Governo e con gli slavi. L'accusa non è nuova. Ma lo Slataper, non socialista (tanto che aveva sostenuto che non tutte le nazioni hanno gli stessi diritti e che per ottenerli esse devono sentire il bisogno, cioè volere e combattere), sente il bisogno di affermare che tutto ciò può essere al più una supposizione astratta, individuale o di partito, o d'occasione: non un dogma. Ma quei concetti diffamatori del socialismo non erano particolari a pochi, bensì parte integrante delle concezioni piccolo-borghesi e borghesi degli intellettuali e dei politicanti triestini. L'arco era troppo teso, fra le due nazionalità, perché chi tentasse di distoglierle dal loro cristallizzato antagonismo non si vedesse dardeggiato e vituperato. Ora l'inserzione del nuovo partito nella grande lotta nazionale non poteva avvenire che attraverso un tentativo di superarla. Il risveglio del nazionalismo slavo non era di lunga data. Ancora facile sarebbe stato, pareva ai socialisti, ricacciarlo nelle sue posizioni di partenza. Bastava riuscir ad impedire alle grandi masse che gravitavano intorno ai due contendenti di distogliersi da obbiettivi di pacifica convivenza civile, economica e politica (il socialismo), per gettarsi a capofitto in una guerriglia che minacciava di far naufragare ed isterilire ogni fonte di progresso ed ogni possibilità di resurrezione delle plebi. Una tale iniziativa non poteva essere compresa né dai liberali né dai mazziniani. Ma l'idea particolare rispondeva alla concezione stessa che della lotta politica triestina avevano avuto, nel regno, anche molti studiosi del problema adriatico ed uomini politici non sospetti. Da Camillo Cavour a Mazzini. Da Nicolò Tommaseo a Scipio Slataper. Il problema fondamentale posto dalla convivenza delle due stirpi non doveva essere risolto con la violenza che incuba sentimenti di révanche e nemmeno con la sopraffazione dell'una o dell'altra nazionalità. Esso doveva piuttosto trovare la propria soluzione definitiva in un consaputo (anche se non convenuto, data la riluttanza di molti), equilibrio che, rispettando gli uni e gli altri, permettesse a tutti di attingere le più lontane mete avvenire. Per la città e per la civiltà. Nebulosamente si intravvedeva la possibilità di un regime tipo svizzero applicato all'Austria o - almeno - alla Venezia Giulia. Il programma nazionale del partito operaio socialista in Austria, votato al Congresso di Brünn nell'anno 1899, costituiva le tavole della sua legge. In esso era proclamato, fra l'altro, che: a) la definitiva soluzione della questione nazionale e linguistica in Austria, in base alla uguaglianza dei diritti ed alla ragione, è anzitutto una questione di cultura e come tale di vitale interesse per il proletariato; b) soltanto sulla base dell'uguale diritto ed evitando qualunque sopraffazione è possibile coltivare e sviluppare le qualità specifiche nazionali di tutti i popoli dell'Austria, perciò si deve anzitutto combattere il centralismo burocratico di Stato come pure i privilegi feudali dei singoli paesi; c) dichiara solennemente che riconosce ad ogni nazione il diritto all'esistenza ed al proprio sviluppo, ma afferma che i popoli possono assicurarsi ogni progresso della propria coltura soltanto nella stretta solidarietà con gli altri popoli, non nella lotta meschina dell'uno contro l'altro... La tesi dei socialisti giuliani partiva appunto dalla confidenza nel valore della civiltà più forte. Il liberalismo spinto alle sue estreme conseguenze: senza inquinamenti bergsoniani. Se di due civiltà antagonistiche una non ha capacità di resistere all'assorbimento pacifico dell'altra, questo vuol dire che essa non ha intrinseche qualità per conquistarsi un posto nel mondo. Il concetto è sviluppato da Angelo Vivante nel libro più volte citato (che è poi l'unico studio serio e coscienzioso della questione triestina, sotto tutti gli aspetti); il Vivante sosteneva per l'appunto che minacciando e comprimendo gli slavi non si faceva una politica realistica. Sciocco sarebbe stato pretendere di poter stuzzicare il vespaio senza correr rischio di punture. Ben altrimenti avrebbero dovuto procedere gli italiani. Dotati di civiltà millenaria e sicuri di se stessi, gli italiani avrebbero dovuto tranquillare gli slavi sulle loro intenzioni: e forse l'operaio slavo, anziché irrigidirsi, sicuro che nessuno penserebbe più ad italianificarlo per forza, non avrebbe più guardato alla cultura italiana come ad una nemica. "Donde il sorgere di una psicologia repugnante dal sopruso nazionale, epperò tutelatrice degli italiani contro l'unica eventualità che possa legittimamente allarmarli... E la cultura italiana, smesse le punte che la rendono ancor minacciosa, potrebbe diffondersi, con ritmo più largo di quanto abbia potuto o saputo fin qui tra connazionali ed estranei". Controprova: nella questione dell'Università italiana a Trieste, che tanta passione ha suscitato in regnicoli e triestini, i socialisti slavi si sono dichiarati, senza chieder compensi di sorta, favorevoli alla concessione. Gli unici!! Che i socialisti stessi, del resto, non potessero sottrarsi all'influenza della loro cultura nazionale, non v'ha dubbio. Ad onta dei loro sforzi, è naturale dovesse essere impossibile la completa assunzione nel limbo ed il distacco da ogni particola terrestre. Né essi avevano ricevuto crismi particolari dallo Spirito Santo, né essi erano differentemente costrutti dagli altri uomini. Onde la difesa della cultura italiana, ad onta di tutto, traspare da ogni loro attività. Pochi esempi basteranno a dimostrare l'assunto. Circolo di studi sociali: fondato nel 1899 per educare il popolo. È un'istituzione che gli italiani, senza distinzione di partiti, dovrebbero studiare: in pochi anni di vita, con pochissimi mezzi, ha saputo formare una biblioteca a prestito, seria, senza romanzi di appendice, di più che 2000 opere; l'unica a Trieste che possa servire per studi di sociologia ed economia. Io non faccio l'apologista: ma mi ricordo che quando entrai nelle sale del Circolo (la rossa é per riviste ed opere non asportabili; l'altra per i numerosi giornali) provai un senso gioioso di fiducia. Cinque o sei librerie di manuali, collezioni, enciclopedie; sui tavoli allineate 30 riviste, sui muri tavole colorate, riproduzioni artistiche, gessi: una gliptoteca embrionale. E regna il buon gusto anche in tutte le piccole particolarità. "Un altro merito, grande, di questo Circolo: far sì che il movimento intellettuale d'Italia, giunto allo Iudrio, non rinculasse, come certe bestie paurose dell'acqua, ma continuasse a vivere nella vita di Trieste, per opera dei suoi migliori rappresentanti. Noi dobbiamo ai socialisti d'aver conosciuto Lombroso, Ferrero, Salvemini, Labriola, Zerboglio, Sergi, Battelli; l'aver sentito parlare, per la prima volta, di Mazzini e di Garibaldi da Salvemini e Ferri. E come! Perché è un fatto interessante: dopo il 1902 il Circolo socialista fa propaganda di coltura, di coscienza, di spirito italiano. E dunque anche del socialismo italiano: ma "anche" e "italiano". Ancora un esempio, l'ultimo, dell'atteggiamento socialista nei confronti della cultura italiana. Nel 1910 la Voce, giunta al suo secondo anno, dedica i numeri 52 e 53 del dicembre all'irredentismo. La Imperial Regia Censura ne vieta la libera circolazione nel territorio dell'Impero. Il 28 gennaio 1911 il Lavoratore pubblica le interpellanze dell'on. Pittoni ed altri socialisti "contro i frequenti e incessanti sequestri in danno dei giornali, opuscoli e libri italiani e nelle quali si protesta sarcasticamente contro il provvedimento che ha colpito la Voce". Gli altri stanno zitti e son quasi contenti perché il movimento della Voce non è il loro. Altro che difesa di italianità: difesa di bottega!. Tanto è vero che lo Slataper aggiunge di veder nell'atteggiamento del Piccolo "un po' del compiacimento del lacchè che vede finalmente cacciato di casa dall'odiato padrone l'ospite importuno che non dava mance, neanche nelle grandi occasioni". Queste le caratteristiche principali delle appassionate lotte politiche dell'anteguerra, in Trieste. Senonché il fattore principale nella determinazione delle varie ideologie restava pur sempre quello economico. La lotta contro gli slavi era la preoccupazione precipua di molti; ma le soluzioni diverse che si prospettavano dalle parti contrastanti era giuocoforza sottostassero alla necessità di contemperare l'esito favorevole di questa difesa dell'italianità con le sorti avvenire dell'emporio triestino. La guerraInvece l'Austria è finita. L'Impero millenario, rammentate? A. E. I. O. U. (Austriae est imperare orbi universo) è stato distrutto. Indubbiamente esso doveva aver le sue radici ben abbarbicate nel suolo europeo se, per reciderle, è stata necessaria una lotta disperata come quella del 1914-18. Tuttavia la maggior parte era riluttante ad immagini apocalittiche: e i triestini fra questi. Essi, sopratutto; la città viveva della libertà dei mari e dei grandi traffici su gli oceani e su le rombanti pacifiche ferrovie che s'addentravano nel cuore delle nazioni; la città aveva bisogno, perciò, di pace e confidava in essa ad occhi chiusi per confortare la sua speranza di ulteriori guadagni e di rinnovate affermazioni vittoriose. L'uccisione del principe ereditario, a Sarajevo, disorientò uomini e partiti. Un esempio per tutti. Il Piccolo (proprietà di Teodoro Mayer, oggi senatore tesserato fascista ad honorem), organo dei liberali-nazionali, uscì rivestito di lutto: perfino la testata era entrata nella cornice della linea nera! E nessuno ne l'aveva richiesto. Non solo: ma in occasione del trasporto della salma dei morti di Sarajevo, tanto il Comune quanto il giornale e la Lega Nazionale si bardarono, esternamente, ad ogni finestra, di drappi come avrebbero fatto se il lutto fosse stato loro: e qualche triestino ne conserva la fotografia in sempiterna memoria di certe manifestazioni di lealismo... Passi il Comune: ma il Piccolo e la Lega Nazionale! Pochi, ad ogni modo, arrivavano ad intravvedere, lontanamente la possibilità di una guerra. Fu necessario l'ultimatum alla Serbia per aprire gli occhi agli altri. La guerra. I triestini aderenti ai partiti italiani, la maggior parte, meno che gli altri si soffermarono su questo problema. Parve più semplice ad essi lasciarsi sopraffare dalla passione antislava sapientemente sfruttata dal Governo di Vienna. Guerra contro la Serbia; cioè contro gli slavi: accettala. Il rancore a lungo impedito si sfogò con l'impeto di un'acqua che trovi un improvviso sbocco. Tranne pochi, trattenuti dalla propria intuizione, gli altri, quelli che d'ogni evento traggono una ragione di vita purchessia, afferrarono il lato utile della guerra così com'era prospettato in quel momento, e si sgolarono ad urlare invettive contro gli s'ciavi al ritmo della Marcia Reale suonata per la prima volta nelle orchestrine dei caffè. Era però fermento incomposto dei primi giorni. Come l'intervento dell'Inghilterra fu sicuro, la borghesia cittadina - d'ogni nazionalità - si spaurì totalmente. Racconta lo Slataper, che, in Borsa, quando giunse la notizia, ci fu un silenzio tremendo: poi un pezzo grosso esclamò: "L'è finita". Era finita veramente per l'Austria e per Trieste. Molte Banche e molti privati avevano messo al sicuro le loro riserve e i loro patrimoni in Inghilterra e se li vedevano sequestrati. Per di più il blocco inglese rovinava Trieste, mentre affamava gli Imperi centrali. Il porto fu disertato. Gli opifici e i cantieri tacquero. Le navi si trasportarono a Sebenico, e la città si avviò lentamente al suo calvario di guerra: il più triste, forse: quello della fame come in nessuna altra parte. L'Austria, in un primo tempo, ebbe cura di esser tollerante verso gli italiani. L'Italia aveva dichiarato la propria neutralità e conveniva non offrirle il destro per trasformare questa neutralità, vigile ed armata, in dichiarata opposizione. Ma, in prosieguo di tempo, man mano che si andava affermando la corrente intervenzionista nel Regno, parve venuto il momento di rimettere a nuovo il regime della corda e del sapone. Le misure di guerra si andarono inasprendo. La censura, solitamente acefala, divenne cretina. Le non anche organizzate modalità degli approvvigionamenti cittadini cominciavano, intanto, a mostrar le crepe dell'organismo. Tanto più esse facevano la città insofferente di ogni limitazione dei consumi in quanto essa, abituata a vivere comodamente, mal tollerava la rinuncia. Aggiungi le passioni politiche rinfocolate ed esacerbate da nuove persecuzioni: arresti e deportazioni di slavi allo scoppio della guerra e di italiani alla vigilia dell'entrata in campo dell'Italia. Il principe Hohenlohe era già stato levato di mezzo. Era costui l'autore di quei famosi decreti contro l'autonomia del Comune triestino al quale venivano tolte parecchie attribuzioni, tutte d'indole secondaria. Era anche chiamato il Principe Rosso perché non era stato soverchiamente feroce contro i socialisti che, anzi, blandiva per quel tanto che era possibile ad un principe austriaco. Il Benco asserisce che, dopo ricevuto i capi del partito, si faceva portare una bacinella d'acqua per lavarsi le mani! Ora l'Austria lo aveva sostituito ritenendolo il bersaglio degli odi liberali della città; ed era venuto un nuovo Luogotenente più duttile e meno astuto: il barone Frie-Skene. Questi - l'ultimo della serie - aveva iniziato la lotta contro gli italiani con molta circospezione. In quel periodo, come ho già detto, si chiudevan volentieri gli occhi, e molti conniventi di facili diserzioni verso il Regno giravano indisturbati per la città. La polizia aveva l'ordine di tollerare: non si volevano incidenti con l'Italia. Al 23 maggio 1915 la situazione si capovolse. La caccia agli italiani od ai sospetti di italianità fu permessa. Forse organizzata. I negozi di italiani furono devastati dalla teppa aizzata dalla polizia. Il Piccolo e la Lega Nazionale vennero incendiati. Il monumento a Giuseppe Verdi fu indegnamente sfigurato. Alla città venne imposta una bardatura ultraguerresca. L'Amministrazione comunale fu sciolta e sostituita da un commissario imperiale, il consigliere aulico de Krekich-Strassoldo, mangia-italiani di prima qualità. La maggior parte degli impiegati municipali furono sostituiti con personale di fiducia. Il Comando militare, il commissario imperiale al Comune ed un Comitato di austriacanti, governavano la città. Quest'ultimo s'incaricava di preparar liste di proscrizione; e quanto potessero gli odi ed i rancori personali si immagina facilmente. Le associazioni sciolte: oltre una trentina. Le scuole educate in quei giorni al sentimento della patria austriaca, diventarono strumento per riviste e per festività patriottarde: i bambini furono incaricati d'ogni sorta di questue e di sottoscrizioni. Più grave la libertà lasciata agli "scauti": giovani studenti sedotti dalla sgargiante divisa e dagli svaghi della prepotenza. Comandavano ovunque, costoro: ed era loro compito, come rammenta il Benco, "smascherare i traditori", "scovare gli irredentisti", "epurare l'ambiente". Di tutto questo periodo di costrizione militare e di persecuzione poliziesca, Silvio Benco, il più chiaro scrittore triestino contemporaneo, ha tentato una pittura: Gli ultimi anni della dominazione austriaca a Trieste (Milano, 1919). Tutta la vita di Trieste, in quegli ultimi tre anni, si può dire, si dipana agli occhi del lettore come su uno schermo cinematografico, sebbene manchi talvolta la visione complessiva della situazione di tutta l'Europa durante la guerra e l'atteggiamento dell'autore sia un po' troppo liberale vieux style. Di fronte alle soperchierie ed alle angherie degli austriacanti la città aveva conservato ben poche difese. Con l'instaurazione della censura, il Governo controlla severamente la stampa che, con l'entrata in guerra dell'Italia, é ridotta al Lavoratore. (L'Indipendente aveva cessato le sue pubblicazioni appena introdotta la censura). Intorno al Lavoratore si stringono perciò i pochi rimasti. Il giornale socialista-austriaco, lo hanno chiamato certi nuovi venuti che, probabilmente, fino all'ieri della guerra, conoscevano così bene Trieste da ritenerla unita a Trento con un ponte, fu l'unico presidio della residua indipendenza triestina durante il periodo bellico; e fu generoso. Ma la lotta politica era ridotta ai minimi termini, ormai: e le libertà giacevano sotto il ferrato tallone militare. Al giornale non rimaneva spazio che per una strenua difesa del consumatore scorticato senza abilità e con petulante ferocia dagli strozzini della città, anche di nazionalità italiana, e dai contadini slavi del territorio. Più tardi, coll'avvicinarsi lento della non preveduta catastrofe della monarchia asburghese, si ebbe qualche azione di piazza: sopratutto moti per il carovivere e per la carestia. La fame in Austria non era più alla porta: essa spadroneggiava ormai, unica dominatrice, in tutto il paese. Le illusioni sulle grandi riserve che i campi opimi delle provincie italiane invase dopo Caporetto avrebbero offerto alle popolazioni dell'Austria, erano dileguate miseramente. A Trieste, poi, come scriveva il Lavoratore il 23 novembre, si era per le vie della disperazione e della fame". La Commissione di approvvigionamento distribuiva settimanalmente un quarto di pasta, un ottavo di miscela di caffè e, qualche volta, un ottavo di marmellata. La tubercolosi, in tanta inopia, dilaniava la popolazione. L'eccedenza dei morti sui nati aveva raggiunto nel 1917 la cifra di 3518! Queste, le tristi condizioni della città, simili in tutto a quelle dell'Impero. A pochi mesi dalla vittoria militare sulla fronte italiana, il proletariato austriaco, con la visione della rivoluzione russa, rompe ogni diga, infrange ogni soggezione militaresca, e fa udire al Governo di Vienna il suo grido angoscioso: pace e pane. È l'epoca nella quale il conte Czernin, mellifluo ed astuto, è alla Ballplatz: ed egli intende questo grido, ne intuisce il profondo significato di stanchezza e di disperazione, e inizia la sua offensiva pacifica... Intanto gli scioperi si moltiplicano. A Trieste il 15 gennaio, poi il 28. E quest'ultimo dura quattro giorni: il Lavoratore si trasforma in Bollettino del Consiglio degli operai: nella città ogni attività cessa. Il movimento è imponente; l'impulso spontaneo dal quale ha tratto origine è indice della volontà risoluta degli operai. L'avv. Puecher può dire, nel primo comizio alle Sedi Riunite: "Noi dobbiamo dire: Non possiamo sacrificarci di più! Noi non abbiamo provocato, non abbiamo mai desiderato la guerra. La liquidi chi l'ha voluta, chi l'ha preparata, chi l'ha organizzata. E si liquidi come vogliono i popoli, come i popoli desiderano. La volontà dei popoli che si sono rovinati per questa guerra deve essere ascoltata nelle trattative di pace". Il manifesto del Consiglio degli operai afferma che il proletariato di Trieste, dell'Istria e del Goriziano reclama fra l'altro che: "i rappresentanti delle Potenze centrali non devono porre alcun ostacolo al buon andamento dei negoziati di pace rinunciando chiaramente a qualsiasi pretesa di indole territoriale, riconoscendo esplicitamente il diritto di autodeterminazione, veramente democratico, alle terre contese". Tutto questo si poteva dire, dopo quattro mesi dalla invasione del Friuli e del Veneto. Il regime Stürgkh era finito; il Governo era impotente a frenare il malcontento. Ma questi scioperi, sbocciati spontaneamente, senza organizzazione centrale e diretti da uomini tipo Ellbogen e Pittoni, corrosi dal bacillo burocratico e da quello democratico ed incapaci non solo di una coscienza rivoluzionaria, ma financo di un gesto di ribellione, si disintegravano da soli e non raggiungevano che un obbiettivo limitatissimo. Altre energie occorrevano ai socialisti dei paesi dell'Impero austriaco per avviare risolutamente quei movimenti verso altri sbocchi: sarebbero necessitate tempre di gladiatori per impedire il prolungarsi della situazione di guerra, e s'aveva a che fare, invece, con pigmei imbevuti fino alle midolla di vieti pregiudizi formalistici. Il giornale, intanto, accennava ancora alla soluzione socialista in contrapposto ai primi tentativi viennesi di stuzzicare gli appetiti croato-slavi sulla città: la quale soluzione si polarizzava intorno alla idea centrale di costituire di Trieste una specie di città anseatica dove, rimanendo integra l'italianità culturale, fosse garantito a tutti gli Stati del retroterra lo sbocco pacifico verso le vie del mare. Ma gli eventi precipitarono. Nell'autunno 1918 l'Impero era esausto. Le gerarchie burocratiche completamente esautorate e quel così lungo contenuto malcontento che aveva originato il gesto ribelle di Federico Adler stava per rompere ogni freno e manifestarsi ben più violentemente che negli scioperi del gennaio. I socialisti triestini non avevano ancora elaborato compiutamente il loro progetto che già s'andava sfaldando la compagine statale; onde, incalzati dagli avvertimenti che si snaturavano ovunque per la rottura della compagine militare determinata dall'abbandono in massa delle posizioni belliche dei czechi e degli slavi, essi presero contatto con gli uomini del Fascio Nazionale (presieduti, questi, dal podestà Valerio) e costituirono con costoro il Comitato di Salute pubblica: dodici degli uni e dodici degli altri. Una deputazione del Comitato, il 30 ottobre, si recava alla Luogotenenza ed invitava il Luogotenente a consegnare i poteri; l'ingegner Aldo Forti per i nazionali e Giuseppe Passigli per i socialisti. E la città fu consegnata. All'accordo intervenuto fra liberali-nazionali e socialisti, questi ultimi non erano arrivati senza qualche rinunzia e senza qualche crisi. Nel loro partito si era già manifestata una tendenza nettamente unionista che ebbe come organo una rivista dal titolo: "La Lega delle Nazioni". La maggior parte del partito. però, confusamente orientata verso la soluzione cui ho accennato precedentemente, fu sorpresa dagli avvenimenti di ottobre. Gli stessi socialisti slavi, che chiesero ed ottennero di partecipare in numero di quattro al Comitato di Salute pubblica, erano disorientati. La facilità con la quale era stata riportata, d'improvviso, la vittoria sulle rappresentanze del vecchio impero toglieva ogni caratteristica rivoluzionaria alla "rivoluzione di ottobre", e, d'altra parte, la rapidità con la quale si era potuto e dovuto dominare provvisoriamente la situazione, mentre avvenimenti più vasti incalzavano ed urgevano alle porte della città, impedì a tutti di raccogliersi, riflettere, decidere ed imporre una propria particolare soluzione. Partirono, invece, due inviati per Venezia a chiedere l'intervento italiano. La città era alla fame nel senso più ampio della parola: necessitavano soccorsi; e vennero, preceduti il 3 novembre, dal generale Petitti di Roreto, primo governatore italiano. Il dopoguerraLa riunione delle Nuove Provincie all'Italia imponeva a questa una serie di problemi politici ed economici, di gravissimo pondo. Poiché mi sono proposto di esaminare, per quel che mi consenta lo spazio, la situazione triestina, dovrò forzatamente trascurare le altre zone; ognuno comprende, però, come una gran parte dei problemi politici che riguardavano questa città corrispondessero in pieno a quelli che si determinavano altrove. L'esame delle soluzioni che si sono imposte, attraverso i vari governi e le varie correnti che hanno avuto il sopravvento nella politica interna del paese, gioverà, forse, a far comprendere lo stato d'animo odierno dei triestini e servirà a prospettare le condizioni presenti della città e le conseguenze più o meno immediate che ne potranno maturare. Indubbiamente nei primi giorni della "redenzione" la città protese tutta la sua anima verso l'Italia e verso gli italiani. Bisogna tener davanti agli occhi il quadro pietoso del periodo bellico nel quale regnavano incontrastate le tre Parche: carestia, morbi e persecuzioni. Con l'Italia giungeva, anzitutto, la salvezza della fame: pane, vettovaglie, oggetti di vestiario. Poi la pace. Infine, la libertà. Anche la libertà. Che cosa non avevano detto, prima della guerra e durante la guerra, gli irredentisti della libertà che le istituzioni del vicino regno concedevano ai cittadini italiani? È cosa risaputa che gl'italiani stessi suggevano queste concezioni fin dalle scuole primarie; e ben pochi sarebbero stati disposti, allora, a rifiutarsi di accettar come massime evangeliche le proposizioni che ogni mediocre politicante andava infilzando nelle sue concioni, sull'anima democratica degl'italiani e sul liberalismo della monarchia sabauda. A giudicar con serenità, del resto, qualche vantaggio, e di non piccola entità, la costituzione italiana offriva nei confronti di quella absburgica. Dalle leggi sulla stampa alle disposizioni statutarie sui limiti del potere regio e sulle attribuzioni del parlamento. Facile doveva essere, perciò, per i triestini d'ogni nazionalità lasciarsi vincere dalla speranza di un acquisto di maggiori libertà: onde fu quasi spontaneo lo stabilirsi di uno stato d'animo di esultanza che sfociò nelle indimenticabili giornate del 30 ottobre e del 3 novembre e sospinse i socialisti, compresi quelli slavi, a fondersi immediatamente, e prima di tutti gli altri partiti, con il partito socialista italiano. Né le aspettative dei triestini dovevano essere frustrate, almeno in un primo tempo. Il primo governatore della Venezia Giulia, quello militare, fu all'altezza del compito. Si trattava di incanalare il sentimento di queste popolazioni, forzatamente rivolto contro lo stato di cose precedenti, verso la confidenza nella capacità tecnica, amministrativa e politica dei nuovi venuti. Nessun triestino, infatti, poteva e voleva pretendere che le gravi questioni sollevate dall'unione di Trieste all'Italia trovassero pronta soluzione: bastava ad essi poter constatare la buona volontà e la larghezza di vedute di chi era preposto al governo della cosa pubblica nella regione giulia. Questi requisiti si trovarono in gran parte nel governatore militare, il quale dié mano rapidamente, a mezzo del Genio militare, alla riattazione dei servizi e dei traffici, delle case e delle strade, ecc. I lavori compiuti in sei mesi ammontarono a 250 milioni e, se anche l'indirizzo di taluni organi non andò esente da inevitabili critiche, nel complesso parve soddisfare i cittadini. Ma accanto al problema economico, che è senza dubbio il più importante per la vita della città, esisteva un problema di convivenza di stirpi che necessitava affrontare con serietà e con profondità. Ho insistito, nella prima parte di questo studio, sulla fisionomia di una città mistilingue com'è Trieste: dove, a fianco del regnicolo, vive il triestino, caratterizzato, generalmente, dalla promiscuità di sangue italo-slavo (si vedano fra i più ardenti patrioti nomi con desinenza slava: essi costituiscono la prova sperimentale della forza assimilatrice della città); e, accanto a regnicoli e triestini, vive lo slavo non ancora dirozzato, nell'animo del quale, anzi, mediante la propaganda clericale e nazionalista dell'anteguerra, si sono incubati i germi di una tenace diffidenza verso tutto ciò che è italiano. difficile a sradicarsi. Secondo il sen. Mosconi, gli slavi nella Venezia Giulia ammonterebbero a 404.000 circa, sopra un totale di 913.000 abitanti, e precisamente: 20.000 a Trieste sopra 240.000, 184.000 nell'Istria sopra 350.000 e 200.000 nel Goriziano sopra 323.000. Probabilmente queste cifre non corrispondono esattamente alla realtà, anche per quello che riguarda Trieste; comunque esse bastano a far intendere la importanza che il problema delle relazioni fra slavi ed italiani assume nella regione e nella stessa città. Questo aveva compreso il governatore militare movendo alla ricerca di un modus-vivendi che consentisse la libera estrinsecazione della vita spirituale degli allogeni: e il suo esempio fu in parte seguito dal defunto on. Ciuffelli nella breve parentesi della sua permanenza a palazzo. Ma il periodo di tranquillità e di pace non fu che uno squarcio di sole in una giornata di temporale: incombevano ovunque gl'insoluti problemi sollevati dalla guerra e mancavano dappertutto le energie sufficienti per raccogliere così vasta eredità. Le condizioni economiche della città erano divenute a mala pena sopportabili. In dipendenza diretta del disorientamento generale, a pace non anco conclusa, dei commerci e delle industrie, i potenti ordegni del porto e le sue magnifiche attrezzature giacevano inutilizzati. Le genti che rifluivano alla città dai campi di battaglia e da quelli dell'internamento, consumavano le residue energie in una estenuante caccia al lavoro ed eran tratte a meditare con qualche rimpianto sulla perduta floridezza. Alla grama situazione dei triestini - della maggior parte dei lavoratori triestini e dei ceti impiegatizi - contrastava la sfaccendata gara dei regnicoli d'ogni provincia che convenivano nella città redenta alla ricerca dei rapidi guadagni o di miglior fortuna. Trieste era diventata un po' la mecca degli speculatori del regno; depauperata d'ogni risorsa e bisognosa di tutto, bastava portar merci per trovare un mercato nel quale la potenza di assorbimento sembrasse senza limiti. Naturalmente mancava ogni generosità: ed il caro-vita, allarmante in tutte le città del vecchio regno, non trovava freni nelle nuove provincie. A questa situazione occorre aggiungere quella che si creava di riverbero all'impresa dannunziana e che serviva a lacerare ogni intesa fra italiani e slavi. La tensione prodotta negli animi dei nazionalisti di tutte le parti si andava lentamente aumentando e neutralizzava praticamente gli effetti di ogni politica contraria. La questione fiumana trovava qui i primi esaltatori ed i più prossimi consensi spirituali e materiali perché rinfocolava passioni non anco obliate e rinnovava odi non ancora spenti. L'ambiente si arroventava nuovamente, ed in misura forse più intensa che non per il passato, così che il primo nucleo fascista di qualche importanza (dopo la costituzione del movimento a Milano) si incontra a Trieste, le cui condizioni gli forniscono lievito abbondante per la prossima fermentazione, curata con soverchia amorevolezza dal nuovo Commissario generale civile, sen. Mosconi. La grave situazione economica della città insieme alle accennate dinamiche condizioni politiche che si erano venute determinando in seguito alla incertezza delle conclusioni della pace, erano causa di un acuto disagio per tutti; ma, sopratutto, per le masse lavoratrici. In quel primo periodo il partito socialista, come nel resto d'Italia e forse più, noverava numerosi aderenti ed aveva notevole influenza nella cosa pubblica: e, per le cause dianzi accennate, premuta dalla necessità di operare per la difesa di alcuni diritti e la conquista di nuovi alle sue masse, moveva sovente a battaglia contro la negligenza governativa nel risolvere i complessi problemi che il trapasso della regione all'Italia imponeva, oppure contro i datori di lavoro riluttanti a concessioni ulteriori o a impellenti iniziative. È la storia di ieri, dovunque: ma a Trieste questa storia trova un sostrato di ben diversa natura e di maggior portata, poiché qui si proponevano allo studio degli uomini pubblici e alla coscienza di tutti i cittadini le condizioni non comuni di un periodo legislativo ed economico di transazione. Questo non hanno capito gli avversari del socialismo triestino, a cominciare dal capo del governo locale, sen. Mosconi, che del movimento socialista non ha visto che gli scioperi, che sembra giudicare alla stregua di tutti quelli avvenuti nel vecchio regno senza intuirne le numerose caratteristiche differenziali. Del resto, probabilmente, costoro non hanno capito nulla dell'importanza del partito socialista nelle Nuove Provincie anche dal punto di vista nazionale. Bisogna rendersi conto, infatti, che il P. S. I., più ancora di tutti i partiti politici del regno, è un partito fortemente centralizzato a differenza del Partito Operaio dell'Austria che, prima della guerra, essendo organizzato su base territoriale, costituiva più una federazione di partiti che un organo compatto ed omogeneo. Così mentre, in quell'epoca, ogni partito nazionale aveva proprie esigenze e si trovava a fianco degli altri soltanto quando si imponevano eccezionalmente lotte di carattere statale, era il proletariato della Venezia Giulia che veniva trascinato immediatamente nell'orbita della politica centralizzata del partito e ne assimilava prontamente la struttura, i caratteri ed i bisogni peculiari. Era un processo di cementazione con l'Italia proletaria, a raggiungere il quale, per altre vie, occorrerà ben maggior dispendio di energie. Questa funzione inevitabile del socialismo triestino era indipendente dalle singole volontà. Ma essa non era nemmeno contrastante con le ideologie finalistiche del socialismo stesso, se è vero che, come hanno sostenuto anche i teorici della Terza Internazionale e praticato i capi della Rivoluzione Russa, internazionalismo significa superamento delle nazioni e non negazione. L'unico partito di natura essenzialmente nazionale che seppe intuire questa profonda utilità assimilatrice del movimento socialista del dopo guerra, a Trieste, fu il partito repubblicano che ne affiancò quasi sempre, senza abdicazioni e senza rinunciò, l'azione energica in difesa del proletariato triestino. Molti erano gli strumenti di lotta del partito socialista. Oltre alla potente organizzazione sindacale, esso possedeva una organizzazione cooperativa che andò rapidamente sviluppando, talché essa è la sola istituzione che abbia potuto resistere fino ad oggi. A questo strumento di tutela dei consumatori i socialisti appoggiavano gran parte della loro azione sopratutto nel territorio: ed esso aveva tali funzioni calmieratrici nella regione che, inevitabilmente, furono la causa principale dell'adesione al fascismo della maggior parte dei bottegai e negozianti del luogo; né occorre indugiarsi a spiegarne il perché. Inoltre essi possedevano un organo di grande diffusione: il Lavoratore, quotidiano in due edizioni; ed avevano sviluppato quel Circolo di Studi sociali che lo Slataper aveva giustamente apprezzato a suo tempo e che, ora, costituiva il nucleo più vitale del movimento. Ma già al 3 agosto del 1919 si ebbe la prova della incapacità dei socialisti di presidiare saldamente i loro fortilizi. In quel giorno, un migliaio di bambini - figli di lavoratori - di ritorno dalla consueta gita domenicale organizzata dal Circolo di S. S., erano diretti alla Camera del Lavoro dove dovevan venir consegnati ai genitori. In prossimità della mèta, però, avvenne l'imprevisto: alcuni carabinieri - non è stato possibile stabilire perché, se si trattava di un corteo di bambini; forse perché irritati dai vessilli e dai canti sovversivi - spararono all'impazzata colpi di moschetto all'aria, terrorizzando le piccole creature e gettando nel panico uno dei più popolosi quartieri della città. I lavoratori risposero con lo sciopero generale e il giorno successivo reparti di arditi, affiancati da giovani nazionalisti e dai primi squadristi, devastarono ed occuparono la Camera del Lavoro che non fu riconsegnata che dopo un mese. Questa è stata la prima occupazione di Camere del Lavoro in Italia: ma non si deve trascurare, nella ricerca delle ripercussioni che essa doveva avere sulla cittadinanza, il fatto che essa era avvenuta a Trieste. Il sequestro illegale e prolungato della sede delle organizzazioni doveva ferire profondamente il sentimento giuridico della maggior parte della popolazione e contrastava pienamente con le speranze che essa aveva riposte nella democrazia e nella libertà del nuovo Stato. Comunque, questo fatto doveva segnare l'inizio di una politica di repressione quale poteva instaurare solo il sen. Mosconi che giunse, nel settembre del '20, a piazzare contro il quartiere operaio di S. Giacomo - nel quale erano avvenute alcune sommosse e si erano trasformati, da alcuni giovani, pochi mucchi di immondizie in simulacri di barricate - persino un cannone! Il Governatore civile mancava di una chiara visione del problema triestino in blocco e, per di più, e forse è questa una delle ragioni per le quali egli è riescito a farsi ritenere un "competente" delle questioni triestine, egli aveva, per quel che riguarda il gravissimo problema della convivenza delle stirpi nella regione, i medesimi criteri dell'on. Giunta. Basti affermare, a riprova, che nel suo libro già citato egli afferma che il quartiere di S. Giacomo il più popolato della città e distante dal centro una quindicina di minuti - è un quartiere slavo, per intendere come egli non fosse in grado di comprendere i bisogni particolari della situazione. Se il quartiere di S. Giacomo, che è il più importante della città e che è il quartiere operaio per eccellenza, fosse veramente slavo, sarebbe immediatamente discutibile la sua affermazione che gli slavi nella città ammontino a soli 20.000 su 30.000 e sarebbe legittimo dubitare persino della italianità di Trieste quando si pensi che ad esso bisognerebbe sommare i numerosi slavi degli altri sobborghi triestini come Roiano, Servola, ecc., ecc. Gli è che l'affermazione del sen. Mosconi non è altro che il tentativo di giustificare la sua politica di soggezione per la classe lavoratrice da una parte e per gli slavi dall'altra. Così si può spiegare il corso della lotta politica triestina che culminò nell'incendio del Balkan. Il Congresso di Livorno del Partito Socialista italiano dal quale si originò lo sbloccamento dei comunisti nel nuovo partito, rivelò l'esistenza di una maggioranza comunista in seno alle organizzazioni triestine e regionali del proletariato. Questa maggioranza esiste ancora, come hanno documentato persino le ultime elezioni.
Queste cifre comprovano lo stato d'animo creato nelle masse dalla politica del governatore civile e dimostrano per l'appunto come l'azione di quest'ultimo non abbia saputo attenuare nemmeno in parte gli inevitabili dissidi fra i vari poli dell'opinione pubblica triestina. La mancanza di fiducia nell'azione tutelatrice degli organi statali; la constatazione anzi, del loro asservimento ad una concezione tra reazionaria ed illegalistica che era agli antipodi di quella apparentemente au dessus de la mélée degli organi equivalenti del vecchio impero; e, sopratutto, la spesso denegata giustizia da parte degli industriali e da parte dello Stato, doveva inevitabilmente sospingere la classe proletaria verso le sue posizioni estreme, così come accadeva pei partiti slavi. Intanto però, la lotta intestina fra i vari partiti socialisti ne aumentava la debolezza di fronte agli avversari. I fascisti si organizzavano potentemente procedendo di pari passo con le altre regioni d'Italia. Durante le giornate del Natale di Fiume essi, che pur dell'impresa erano stati i più strenui sostenitori, non avevano manifestato nessuna attività..... attiva e rivoluzionaria come avevano giurato più volte di fare: ed avevano anzi disertato il campo, abbandonando alla sua sorte D'Annunzio ed il movimento. Ormai il fascismo stava per acquistare la sua fisionomia caratteristica: si obliavano le sommosse per il carovita capeggiate dallo stesso Giunta; si obliavano le ripetute dichiarazioni filo-operaistiche; si obliavano, senza rimorso, Fiume e D'Annunzio, per dar sfogo alla vera natura del partito ed accettarne apertamente la funzione reazionaria che, del resto, rientrava perfettamente nella mentalità dei capi triestini del movimento. Erano e sono, costoro (eccettuato il Giunta - ormai estraniatosi - che era del resto contrario ad ogni pregiudiziale repubblicana), i vecchi rappresentanti del partito liberal-nazionale con tutta la loro anima tenacemente antisocialista e con tutte le loro posizioni sociali totalmente borghesi. Accanto ad essi, uomini ligi al passato governo, quali gli esponenti delle grandi industrie divenuti oggi - con grande scandalo dei sopravissuti della lunga dolorosa lotta irredentista - benemeriti della patria italiana a malgrado del passato austriaco. Infine le masse di squadristi reclutate quasi esclusivamente nell'elemento immigrato nel dopoguerra. Questo movimento prendeva bentosto possesso incontrastato della città ed imponeva senza ambagi la propria incrollabile volontà. Fino a quando, con la marcia su Roma, divenuto detentore del governo nella capitale, si instaurava la politica del gabinetto Mussolini. Gli episodi di violenza dell'una parte e dell'altra - con la inevitabile differenza di proporzioni e di qualità, come nelle altre regioni - possono essere sottointesi anche perché in questo luogo interessa di più considerarne la influenza politica nel loro insieme che la gravità singola. L'affermarsi del fascismo ed il raggiungimento del suo apogeo con la conquista del governo centrale e degli enti amministrativi e politici periferici trovò la città completamente assente. Ogni cittadino, infatti, sembra allontanato ineluttabilmente dalla palpitante compartecipazione al governo della cosa pubblica. La medesima lotta per la libertà che le opposizioni hanno iniziato nei confronti del partito fascista e del suo governo non ha trovato consensi aperti in seno dell'opinione pubblica cittadina, che sembra disinteressarsi di ogni problema morale... Oggi tutti i partiti politici triestini, dal fascismo a quelli socialisti, operano in mezzo a un elemento che sembra estraniarsi da tutto. Pare non esista, per i triestini, che lo sport ed il divertimento; la volontà ideale di giungere oltre le forme meschine della vita quotidiana per creare qualche cosa di più degno - la Nazione, l'Impero, la Repubblica, il Socialismo, l'Anarchia - manca completamente nelle giovani generazioni. Anche i ceti intellettuali non partecipano in nessuna forma alla lotta odierna e, senza parlare dei partiti estremi, basterà dire che, nonostante i reiterati tentativi di qualche volonteroso, l'unione democratica non è ancora riuscita a trovare tanti seguaci, sufficienti a costituire una sezione!! Tanto per dare un'idea approssimativa dell'apatia dei triestini. Non é soltanto il distacco dalla lotta odierna, così com'è, per la impossibilità di parteciparvi in piena libertà: ma è qualche cosa che dovrebbe preoccupare infinitamente di più, poiché è l'isolamento completo della città che si sta compiendo, con un ritmo sempre più accelerato, sotto gli occhi impassibili delle autorità centrali e locali. Trieste non può essere soddisfatta. È intuitivo. Aveva bisogno di respiro e domandava libertà maggiori di quelle dell'anteguerra ed invece essa è stata ridotta ad un ambiente grigio ed amorfo le cui luci opache si riflettono stupendamente nelle colonne del suo maggior giornale (l'unico si può dire, poiché il quotidiano fascista non ha lettori): Il Piccolo. Basta leggerne un numero per vedere, come in uno specchio, la città: un notiziario arretrato, senz'anima, senza commenti, senza passione; e molte pagine alla pipelet con fatti di cronaca cucinati in tutte le peggiori salse... Aveva bisogno di concordia e di pace dopo l'agitato periodo del cinquantennio precedente ed invece è stata chiamata a partecipare ad una lotta che esula completamente dalla sua coscienza: la lotta fra fascismo e democrazia. Tutto ciò non la può interessare perché esorbita dalla sua anima. La lotta per la libertà e per la democrazia era stata combattuta aspramente e tenacemente dai triestini contro il governo di Vienna: ecco perché deve riuscire impossibile ad essi riprendere la propria esistenza rinnovando una battaglia che si illudeva di aver vinto. A Trieste l'Italia aveva un compito solo: concedere più ampie garanzie di liberalismo che non avesse conceduto il vecchio impero. Dimostrare che l'unione al regno rappresentava veramente, per i triestini, il sopraggiungere di un periodo diverso dal precedente per la maggior tutela del diritto di ognuno e per la scomparsa assoluta di tutte le costrizioni poliziesche alle quali essa era abituata nel regime d'avantiguerra. Occorreva una politica di intesa con l'elemento slavo, poiché non si doveva dimenticare la missione da Mazzini affidata all'Italia. Bisognava riconoscere negli allogeni la legittimità delle aspirazioni alla propria scuola ed alla propria cultura perché questi riconoscessero alla lor volta la nostra buona volontà ed imparassero ad amare gli italiani come fratelli e non come dominatori. Tutto questo, naturalmente, non é stato fatto. Si è giunti, al contrario, a proibire persino recite nella loro lingua. A cinque anni e più dalla conclusione dell'armistizio nemmeno la tanto invocata unione legislativa non è stata ancora compiuta. Così, per citare un esempio, gli avvocati italiani non possono ancora esercitare a Trieste se non in materia penale e commerciale perché in materia civile vigono, ancora, i codici e le leggi del vecchio impero! E se si pensa che il vecchio codice italiano non potrà essere introdotto se non a riforma compiuta, si vede che questo stato di cose non si modificherà molto presto. Il problema economicoIl problema economico è il tallone d'Achille della città. Intorno ad esso, prima della guerra, si era polarizzata ostensibilmente l'attenzione di tutti quelli che anelavano al congiungimento della città adriatica all'Italia. Pareva problema insolubile ed era, ad ogni modo, gravissimo. La storia dello sviluppo di Trieste è intimamente connessa alle franchigie concesse alla città sulla fine del XVIII secolo e mantenute inalterate durante le epoche teresiana e giuseppina. Tuttavia con le invenzioni scientifiche del XIX secolo e sopratutto in seguito a quella della macchina a vapore il centro di gravità dei commerci e delle industrie andò spostandosi rapidamente: sì che quelle franchigie divennero superflue. Alle città di mare, infatti, congiunte rapidamente con le zone interne del proprio retroterra, veniva meno la funzione caratteristica di centri di transazioni commerciali che era stata loro riservata attraverso i secoli - vedi Venezia, Genova, Bruges, Amburgo, Trieste, ecc. - e, in conseguenza, esse dovevano assoggettarsi ad una trasformazione radicale della struttura della loro vita economica. In altre parole, il loro traffico andava diventando un traffico di transito poiché la possibilità di trasportare rapidamente le merci mediante le ferrovie, intensamente sviluppate, consentiva che la lavorazione delle materie prime e la loro trasformazione in prodotti finiti si operasse nelle città continentali dove, con l'invenzione del telegrafo e con l'aumentata rapidità delle comunicazioni postali, era anche possibile concludere le transazioni commerciali senza l'intervento di mercati intermediari. Se è vero che una delle caratteristiche dell'attuale sistema di produzione - e non di esso solo - è quella del grande numero di intermediari fra il produttore e il consumatore, è anche vero che, con le importanti invenzioni dell'ultimo secolo, i grandi mercati nei quali operano codesti sensali, mediatori, ecc., si sono o avvicinati ai centri di produzione o a quelli di consumo. Le città marittime, sotto questo aspetto, si son visto aumentato in grande misura il traffico di transito in ragione diretta con lo sviluppo estensivo della produzione e del relativo consumo. A Trieste questo fenomeno è stato particolarmente notevole. Le prime minaccie di privare la città delle secolari franchigie avevano gettato nella costernazione la cittadinanza. Pareva si volesse privarla dei polmoni ed invece non solo resisté, ma proseguì imperterrita il suo cammino ascensionale. Unico grande porto di un grande impero organizzato su solide basi economico-amministrative, non poteva mancare alla città l'ossigeno necessario. Se anche, perciò, il mercato triestino era ridotto, in sé e per sé, ad un mercato di coloniali (mercato a termine per il caffè, ad es.) e dello zucchero, le risorse cittadine non erano affatto sminuite perché Trieste era ancora centro commerciale di primaria importanza per l'impero. Essa era non solo sede di grandi compagnie di assicurazioni, di grandi case di spedizioni e di succursali delle maggiori aziende del retroterra, ma ancora delle grandi compagnie di navigazione mediante le quali la produzione dell'impero raggiungeva i mercati d'oltremare e sopratutto quelli levantini. Le aspirazioni all'unione con l'Italia dovevano inevitabilmente cozzare contro l'ostacolo creato dall'attività e dalla funzione dell'emporio triestino. Già negli ultimi anni della guerra, Trieste era grandemente minacciata da una formidabile concorrente e rivale: Amburgo. Che cosa sarebbe avvenuto dopo la redenzione della città? L'esame anche sommario di una carta geografica dell'Europa basta a far conoscere quali regioni gravitino naturalmente verso Trieste. Pur tenendo conto infatti, delle interferenze inevitabili e dei punti d'incrocio dei contrastanti interessi delle varie città marittime che si contendono le medesime zone, si può facilmente individuare l'hinterland specifico di Trieste. Ove non subentrassero influenze d'altra origine e fosse lasciata ampia libertà al giuoco delle forze economiche - in un regime, cioè, nel quale si potesse praticare effettivamente la legge del minimo sforzo) - gli ex paesi dell'Austria troverebbero la loro convenienza a servirsi di questo porto. Ma basta un ben congegnato sistema tariffario per deviare notevolmente i traffici da una via all'altra. Ed è quanto sta accadendo oggi. Negli ultimi due anni il porto triestino aveva ripreso vigore. Il suo traffico complessivo aveva raggiunto il 91,05 per cento di quello anteguerra (1913). La ripresa sembrava sfatare le tristi previsioni di tutti coloro che avevano sostenuto la tesi della decadenza economica di Trieste per effetto dello smembramento del suo retroterra. Ma ecco quanto asseriva un competente - il capitano Antonio Cosulich - in una delle ultime assemblee del Rotary Club di Trieste; "Una vasta serie di riduzioni tariffarie delle ferrovie germaniche, che va oltre il 60 per cento, ha già fatto sviare da Trieste una parte delle merci destinate o provenienti dalla Cecoslovacchia ed Austria, non solo, ma dette ferrovie hanno organizzato nei centri industriali del retroterra uffici che sono autorizzati a far pure concessioni che non sempre sono controllabili: queste circostanze hanno portato un sensibile danno al porto di Trieste e ciò è dimostrato dalle statistiche di quest'anno che segnano una perdita di oltre il 20 per cento, in confronto al traffico medio dell'anno 1924". La percentuale di questa perdita non si è arrestata nel mese successivo. Nella seconda quindicina di maggio il traffico merci totale (importazione e esportazione, compreso il carbone), è in diminuzione rispetto alla seconda quindicina di marzo di ben 42.675 e di 65.650 tonnellate rispetto alla corrispondente del 1924: la percentuale della diminuzione dei traffici è salita dal 20 al 35,5 per cento! Così il movimento totale nei magazzini generali è sceso da 1.241.123 quintali nel gennaio a 357.067 nel maggio e la media giornaliera è scesa rispettivamente da 40.036 a 11.518 q.li; cifre significative, anche dopo depurate dal contribuito inevitabile della diminuzione in rapporto alle stagioni. Che cosa vuol dire tutto ciò? Senza dubbio non è possibile - e lo si vuole sperare con tutto il cuore - che queste cifre rappresentino il punto d'arresto definitivo. Ma esse sono tali da far vedere quanto fallaci fossero i ragionamenti di quelli che ritenevano ormai risolto il problema economico di Trieste. Costoro non avevano compreso, cioè, che l'incremento dell'anno scorso era in funzione di ben altre cause che non l'assestamento dalla situazione dell'hinterland triestino. Concorrevano, cioè, ad alimentarlo, molteplici fattori e sopratutto quello inerente all'aumentato costo delle tariffe ferroviarie tedesche in rapporto al passaggio dalla valuta carta alla valuta oro, oltre alle incertezze determinate dalle conseguenze ancora vive dell'occupazione dei territori della Ruhr, ecc., che originarono il noto travaglio politico di alcune regioni della repubblica tedesca. Ruggero Fauro, nel suo libro già citato (Trieste, Roma, 1914), scriveva che "difficilmente le ferrovie e le compagnie di navigazione tedesche sarebbero disposte a rovinarsi per fare dei prezzi tanto bassi quanto occorrerebbero all'Austria" per facilitarle la rappresaglia contro Trieste italiana. Senza dubbio il Fauro aveva ragione, quantunque la realtà odierna gli dia completamente torto. Aveva ragione, cioè, in teoria ed in pratica, perché è assolutamente inamissibile che uno Stato estraneo sia disposto a sacrificarsi per favorire una politica di dispetti dell'Austria contro l'Italia, ed anche viceversa; ma aveva torto perché già prima della guerra la concorrente Amburgo minacciava di strappare al porto triestino molti dei mercati austriaci a causa del minor costo delle linee fluviali che uniscono la prima al retroterra ex-austriaco. Nel 1923, ad esempio, un decimo del commercio cecoslovacco si è svolto attraverso quelle medesime vie fluviali e sopratutto mediante l'Elba, verso Amburgo. Se a queste condizioni naturali si aggiungono quelle politiche - create dallo smembramento dell'ex impero austro-ungarico - e si pensa che così la Cecoslovacchia con relativi dazi e tariffe ferroviarie - sulla determinazione delle quali l'Italia non può influire che parzialmente, richiedendo spesso un accordo a tre - si vede come la via di Amburgo, per la quale basta superare una sola frontiera e gli accordi ferroviari son diretti, possa veramente costituire un temibile pericolo per Trieste. Pochi dati possano servire a dare un'idea esatta della situazione odierna. Per quanto riguarda la tariffa dell'Elba, un competente ha rilevato che le grandi fabbriche di zucchero della Cecoslovacchia possono raggiungere Amburgo con 15 e alcune con 35 scellini di meno che non Trieste. Per poche zone del paese esiste parità con Trieste o vantaggio per quest'ultima. Quanto ai noli marittimi bastano queste cifre: Amburgo-Costantinopoli 19 scellini; Trieste-Costantinopoli 19. Amborgo-Smirne 20,6; Trieste-Smirne 23. Amburgo-Alessandria 18; Trieste-Alessandria 19. Amburgo-Jaffa-Caiffa-Berutti 23; Trieste-Jaffa-Caiffa-Berutti 25. Amburgo-Volo 20; Trieste-Volo 25. Amburgo-Salonicco 19; Trieste-Salonicco 19. E lo stesso competente rileva che le linee germaniche sono attive e che le sovvenzioni da loro percepite non giustificano la differenza, tenendo conto dei nove giorni di più di viaggio. Gli armatori triestini intenti a digerire le sovvenzioni del governo fascista sono sordi ad ogni appello, però, e si limitano ad invocarne altre. Ad aggravare tale situazione concorre in parte il fatto che la Jugoslavia mentre aumenta notevolmente il suo naviglio mercantile - a Trieste la bandiera jugoslavia raggiunge il primo posto per le navi estere - si appresta pure ad attrezzare i suoi sbocchi adriatici e ad incanalare verso essi molta parte del suo commercio e di quello dei paesi suoi confinanti. Non solo, ma, a scapito dell'emporio triestino, si è incrementato naturalmente il porto commerciale di Venezia, che ha assorbito la zona austro-svizzera ed austro-tedesca attraverso la linea del Brennero. L'accordo italo-austriaco per le tariffe mercantili dirette è una prova incontrovertibile di questo fatto, tant'è vero che nei dodici articoli il nome di Trieste non è richiamato nemmeno una volta. Era inevitabile: come sarà inevitabile che, qualora non si riesca a risolvere in modo favorevole alla città redenta la questione del suo hinterland, essa dovrà cercare dei commerci in quello che è il retroterra specifico del porto di Venezia: le regioni austro-svizzere sopratutto. Rinascerebbe, cioè, il dualismo fra le due città, dualismo già adombrato nella lotta per i servizi sovvenzionati verso l'Oriente. Occorre provvedere con una politica lungimirante a ridare a Trieste la sua efficienza e a garantirgliela, perché soltanto con la riacquistata funzione economica si risolverà in modo naturale il problema della sua assimilazione effettiva. Bisogna tener presente che le vie della prosperità di Trieste sono nel mare e che è illusione volerle affidare il compito ad altri elementi. Oggi, ad esempio, l'industria triestina ha avuto una grande ripresa. I cantieri navali, già potenti prima della guerra (e se ne intuiscono le ragioni), le ferriere, le industrie alimentari ed altre ancora, hanno riacquistato e superato l'efficienza dell'anteguerra. Non è stato necessario concedere alcuna franchigia e tanto meno quella del porto franco reclamata a gran voce, in un primo tempo, anche dai fascisti: il miracolo si è compiuto lo stesso. Come mai? La regione giulia non ha un sottosuolo più ricco di quello delle altre regioni italiane, se si eccettua un po' di carbone e un po' di bauxite nell'Istria e, agricolamente (se si astrae sempre dall'Istria che, tuttavia, difetta d'acqua ed ha punti di contatto col Mezzogiorno), è poverissima a cagione dell'altopiano carsico che costituisce la sua ossatura principale. Il rifiorire inaspettato dell'industria trova invece le sue ragioni d'essere nella svalutazione della lira e nel basso costo della mano d'opera. Questi due fattori, come ognuno sa, offrono la possibilità di esercitare un vero dumping e così si può assistere al fatto stranissimo che i cantieri triestini la cui attrezzatura è veramente solida - riescano a strappare ordinazioni persino all'Inghilterra! Ma questa situazione non può durare all'infinito. Quando sarà raggiunto l'equilibrio monetario - qualunque sia il punto nel quale esso si stabilirà - verrà meno necessariamente la prima causa e la situazione dei salari dovrà pure, oggi o domani, livellarsi al costo effettivo della vita. Non è nell'industria che si può consolidare la rifioritura di Trieste. Bisogna volgere gli sguardi al mare, perché Trieste è, sopratutto e innanzi tutto, un emporio marittimo. Io non ho certamente in uno degli scompartimenti del mio cervello il rimedio unico ed infallibile per capovolgere la situazione. Soltanto dei cerretani o degli incoscienti possono aver di tali pretese. E poi nessuno può ancora prevedere quale sarà effettivamente il punto d'arresto della crisi del dopoguerra, così come nessuno può affermare che il traffico triestino debba assolutamente cristallizzarli intorno alle cifre odierne o intorno ad altre più o meno prossime ad esse. Ma poiché le ragioni che hanno determinato queste condizioni permarranno inevitabilmente se non si tenterà di combatterle in qualche modo, si può concorrere al capovolgimento lento della situazione stessa con un preordinato piano di lavoro le cui grandi linee possono fin d'ora indicarsi. Certamente questo piano non può essere quello consigliato dal cap. Cosulich - grande armatore sotto l'Austria e più grande ancora sotto l'Italia: "l'Italia dovrà pure ammettere che uno Stato debitore come la Germania, non possa né debba ridurre artificialmente le proprie tariffe ferroviarie e principalmente quelle di transito per sottrarre allo Stato creditore un traffico che naturalmente gli spetta". Con una politica simile, che risente la nostalgia del malfamato bastone austriaco, si può senza dubbio risolvere temporaneamente la lotta fra Amburgo e Trieste a vantaggio di quest'ultimo porto; ma non si riuscirebbe a gettar basi durature ed efficaci per il commercio triestino, poiché rimosse, in un più o meno prossimo avvenire, le possibilità di tener in soggezione la Germania, si ripresenterebbero immutate le condizioni odierne. Altra, dunque, dev'essere la via: ché, a camuffarsi in gendarmi od in sbirri, gli italiani hanno tutto da perdere e nulla da guadagnare, checché ne pensino il cap. Cosulich ed il balilla Rastignac. È necessario invece considerare quali sono state le conseguenze dell'infausto trattato di Versailles con relative dipendenze. Da esso è sortito lo smembramento di quell'innaturale e mostruoso mosaico che era l'impero austriaco: ma che cosa si è sostituito? Basta precisare che la Cecoslovacchia è pur essa uno Stato mistilingue nel quale una minoranza di cechi domina una maggioranza di allogeni e che la medesima situazione, modificando i nomi delle nazionalità, si ripete per gli altri Stati successori, per trarre la conclusione che il problema delle nazionalità dei paesi ex-austriaci non è stato risolto. Forse esso era insolubile. In ognuno di questi Stati convivono da secoli elementi disparati; e dal trattato di Saint-Germain, come dice Nitti, sono germinate logicamente molte Austrie invece d'una sola. Senonché accanto a questo danno in linea politica, un altro e ben più grave danno in linea economica è uscito dal medesimo trattato: quello della moltiplicazione delle barriere economiche che costituiscono un grave impedimento allo sviluppo delle diverse economie ed al propagarsi medesimo della civiltà. La soluzione ideale, non v'ha chi non lo veda, è quella alla quale tendono i liberisti d'ogni paese ed i partiti di estrema sinistra. Nell'abolizione di ogni barriera doganale e di ogni intervento statale, le forze economiche naturali prenderebbero il sopravvento e l'organicità della produzione e dei traffici si produrrebbe spontaneamente. Per quel che riguarda il problema specifico di Trieste, un tale assestamento porterebbe come conseguenza immediata il suo rifiorire, poiché essa ritornerebbe ad essere lo sbocco "naturale" delle regioni del suo hinterland. Si era parlato e si parla molto spesso d'una unione doganale - o di una federazione economica - degli Stati successori. È evidente che una forma siffatta sarebbe sufficiente a smussare molti angoli. Quando la Cecoslovacchia, la Polonia, l'Austria, la Jugoslavia e l'Italia riuscissero a costituire un nucleo economico compatto ed omogeneo si sarebbe fatto un gran passo in avanti. L'economia europea avrebbe tutto da guadagnare e nulla da perdere: i porti adriatici pulserebbero di nuova vita. Trieste in modo particolare abbisogna di una soluzione che temperi le conseguenze del dissolvimento dell'unità economica dell'ex impero austro-ungarico. Il traffico di Trieste verso l'Italia non rappresenta, infatti, che una parte lievissima di quello totale. Nel 1923 le merci italiane esportate (per ferrovia e per mare) raggiunsero una cifra appena di 200.000 quintali in confronto di quella globale di oltre due milioni di quintali per il solo bimestre gennaio-febbraio. Non è quindi dall'Italia che possono giungere le energie necessarie allo sviluppo dell'emporio. È ancora e sempre dal suo hinterland ex austriaco, e per orientare questo verso il suo sbocco naturale, occorre togliere di mezzo tutti gli ostacoli che si frappongono a questa ripresa. Bisogna, cioè, eliminare tutte le ragioni che tendono a disgiungere Trieste dal suo retroterra. Già una volta Cesare Combi, triestino, aveva detto che per poter valorizzare un porto è necessario aver in mano tutte le strade che vi adducono. A tanto, fino ad oggi almeno, nessun imperialista italiano osa giungere: onde non rimane che una politica che tenti di riallacciare le file sparse della vecchia unità economico-politica la quale, oltre ad essere indispensabile per Trieste, è indispensabile per gli stessi paesi dell'Europa Centrale. Insomma il nocciolo del problema triestino sta tutto nella possibilità italiana di attuare una politica di pace con gli Stati successori per arrivare ad un comune accordo che garantisca il funzionamento del porto di Trieste. È evidente che, mancando la volontà di pace, non si potrà mai rattoppare i laceramenti prodotti dal trattato di Saint-Germain: si potrà, tutt'al più, rifare qualche brutta copia della vecchia triplice senza alcun giovamento per l'emporio triestino. I presupposti logici per una politica tendente a superare le cerchie immediate dei confini politici sono, evidentemente, quelli di una sincera democrazia in tutti i paesi interessati. Ma una cosifatta politica estera non può essere che in funzione di un'eguale politica interna. Solo una grande democrazia in Italia potrà ottenere la collaborazione fattiva, scevra di infingimenti e di sospetti dei paesi confinanti. E solo una grande democrazia in Italia riuscirà ad amalgamare veramente le Nuove Provincie, memori ancora delle infinite restrizioni che l'impero austriaco poneva alla estrinsecazione delle libertà individuali dei cittadini; perché una sana e forte democrazia ridarebbe ad esse le condizioni spirituali ed economiche per una vita concorde indirizzata verso mete di civiltà superiore. ERMANNO BARTELLINI.
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