Il Congresso Popolare

    Tra i congressi di quest'anno quello dei popolari ci è sembrato il più importante. Si è visto a Roma un partito di masse, coi gregari in numero ridotto ma pronti al combattimento, dotato di una struttura omogenea in tutta Italia. La stessa stampa di opposizione non vi attribuì il giusto rilievo e ne diede una visione scolorita e inadeguata.

    Ancora al congresso di Torino il partito aveva una composizione equivoca. Due anni di battaglia antifascista furono impostati quasi interamente sul coraggio e sulla volontà di Don Sturzo e di Donati. Indiscutibilmente essi erano due solitari. Ora nei nomi di questi due assenti il quinto congresso ha trovato una parola d'ordine. Che Luigi Sturzo sia un grande capo-partito, Rivoluzione Liberale fu tra i primi a mettere in luce. Donati poi, col Popolo, un giornale che rompeva violentemente tutte le tradizioni del clericalismo moderato, che adottava sistemi polemici assolutamente moderni e spregiudicati, che accettava collaborazioni di eretici come di ortodossi, ha portato uno spirito nuovo nelle battaglie cattoliche, ha aperto gli occhi ai giovani, ha demolito idee e posizioni fatte, ha abituato le reclute dell'azione cattolica a un'atmosfera di democrazia moderna.





    Così il partito ha resistito a tutti gli attacchi; è diventato un partito di molti giovani e di pochi preti, ha eliminato gli uomini del vecchio clericalismo; è sempre più indipendente dalla politica romana, è quale lo foggiano i ceti umili delle provincie.

    Oggi la classe dirigente di questa democrazia cristiana è composta di uomini dai trenta ai quarantacinque anni (la generazione che manca in tutti gli altri partiti): una generazione cresciuta agli studi e al realismo un po' grigio dell'Azione politica, ma costretta poi a ringiovanirsi e a prendere contatto con la cultura moderna per la stessa necessità di dover resistere al fascismo e differenziarsi da ex-colleghi dello stampo di Egilberto Martire. Mentre le classi dirigenti dei partiti italiani sono costituite di settantenni o di imberbi o di intellettuali, bisogna riconoscere che il partito di Don Sturzo ha degli uomini nuovi abituati a trattar realisticamente gli affari di amministrazione e di politica: almeno una cinquantina di persone come De Gasperi, Donati, Gronchi, Merlin, Piccioni, Marconcini, Gilardoni, Ferrari, Giordani, Mentasti, Ravaioli, Galati. Il quinto congresso è stato di giovani, intransigentemente a sinistra, e ha fatto a meno de discorsi di Rodinò, di Longinotti, di Degni e di tutti gli altri della vecchia guardia.





De Gasperi.

    Indiscutibilmente Alcide De Gasperi, che fu sino a pochi mesi fa soltanto un proconsole, è oggi un capo. Il congresso era nelle sue mani. Alto, magro, dritto, il collo più lungo e più solido per uno di quei colletti alti e rigidi che sembrano dargli un tono di distacco e di maggior dignità anche se non siano più di moda, gli occhi vigili su tutto. Dal palcoscenico sorveglia la tattica; ascolta tutti gli oratori, e ha cenni di approvazione o di dissenso anche per i più umili che stancano l'assemblea: eppure si sente che frena l'impazienza, che non si bea di questa oratoria, che pensa al lavoro di domani. C'è in lui un singolare equilibrio di misuratore. Ha voluto il congresso, egli solo: l'ha voluto per chiedere una conferma al suo lavoro: e avutala con gli applausi interminabili suscitati dalla sua relazione, egli è tutto preso dalle promesse che gli sembrano offerte per il proseguimento della battaglia. Se parve durante certe discussioni che fosse l'addomesticatore del congresso, che volesse imporre la sua responsabilità di capo anche agli oratori più eretici, bisogna pensare alla sua educazione anti-oratoria. Perché De Gasperi, in un partito che presenta molti residui di mentalità gesuitica, è l'uomo che sa avere dell'orgoglio. La sua bocca aperta ad un sorriso amaro or di sdegno, or di disprezzo, or di polemica, è continuamente pronta all'interruzione aspra, al richiamo energico. Si secca delle adulazioni, dei complimenti, delle frasi inutili. Non sa fingere indulgenza, non ha bisogno di popolarità rumorosa e apprezza invece il consenso, l'opinione meditata di altri. Tuttavia, abituato a decidere, non ha il gusto della discussione.





    Anche in un discorso continuato, anche nel leggere una relazione è freddo, incisivo; non ottiene effetti di intensità ma di precisione, dando rilievo alle cose con un tono più attento, più calmo, più lento, con la mezza voce. A Roma quando il congresso minacciasse di diventare un comizio, sapeva farsi arrogante, prevenire l'ottimo Degni, presidente massiccio e imbambolato, con scatti violenti, con una rigorosa intolleranza delle interruzioni. L'ho visto adirarsi - con l'ira dell'uomo che non accetta di scherzare sull'avversario che importa combattere senza tregua - in un momento in cui il congresso s'attardava in facili ironie sul duce. Non si concede riposi, non li concede: non ammette che non si sia presi e dominati dalla serietà dell'azione. Da buon organizzatore preferisce l'amministrazione alla cultura e alla critica. Contro gli amici troppo lenti sa essere feroce; e fu gustoso vedere a Roma come parecchie volte egli stesse per cedere alla diabolica tentazione di fare i nomi dei pigri, di quelli che non avevano risposto alle circolari della Direzione. Con la stessa austera intransigenza incalzante con cui Luigi Sturzo licenziò Tovini dal congresso di Torino. Si serve del suo temperamento angoloso per guadagnare in rapidità. La sua ultima relazione aveva una sola idea centrale: tenere duro; egli lanciava le parole come colpi, senza scatti intemperanti, ma sostenendoli con un palese vigore interno. La sua eloquenza quasi cattiva e caparbia, impopolare, diventava poderosa al confronto della spensierata improvvisazione dell'on. Tupini. De Gasperi parla sempre preparato, su appunti, con le carte in tavola, e sa essere duro anche quando è diplomatico. La sera del 28 giugno, rispondendo alle osservazioni sulla relazione, improvvisò anche lui ma fu formidabile. Parlò, quasi eccitato, a periodetti spezzati, nervosi. Si rivide in lui la passione di un aventinista, solo, rimasto al suo posto anche nel dubbio di non essere seguito. Perché in De Gasperi la capacità del sacrificio politico è illimitata; l'attitudine a persistere in una posizione impopolare è nutrita con la fierezza di resistenza appresa nelle lotte contro l'Austria. Egli doveva essere naturalmente tra i primi con Amendola, dopo il delitto Matteotti, a sentire la questione politica come una questione di scisma morale. Così il 26 gennaio 1918, dopo Caporetto, alla Commissione austriaca del bilancio, A. De Gasperi aveva fatto le sue dichiarazioni di incompatibilità: "Avvenga quello che vuole, noi sappiamo che con le nostre aspirazioni alla libertà ed alla possibilità di sviluppo democratico, navighiamo nella grande corrente mondiale, che qui e fuori di qui va ogni giorno progredendo".





    Il fondo del pensiero di De Gasperi è cristiano e democratico, e sebbene in lui prevalga la lunga pratica sulla cultura, si avverte dietro certi suoi atteggiamenti aridi che egli non è indifferente al fascino delle grandi idee e che nasconde anche un sincero amore per lo spirito di ricerca. Talvolta poi come politico se ne vergogna, s'infinge, come se venisse colto in fallo; ostenta un settarismo quasi rude, si chiude nei suoi obblighi di partito. Ma allora questo chiudersi non è più grettezza, né ignoranza.

    Se si vuol andare oltre questa energia cinica di capo, capace di presentare egli stesso, per brevità, l'ordine del giorno di fiducia alla sua opera, sdegnoso di qualunque ipocrisia d'assemblea, si trova un fondamentale carattere di bontà nascosta, di amore caldo per i suoi umili coltivatori del Trentino che correva a difendere sotto l'Austria, durante la guerra, nei campi di concentramento a costo di grave pericolo. Questa austerità e semplicità campagnuola sono alla base del realismo di De Gasperi: e perciò la sua politica rifugge dalle retoriche ideologie per intendere la democrazia nel significato più originario, come lotta in difesa dei ceti più derelitti che non chiedono protezione ma giustizia e indipendenza e non vogliono umiliarsi a nessuna sopraffazione.





Gronchi e Merlin.

    Se De Gasperi, nato nell'81, preso dall'intensità nella politica militante sin dal 1911, quando fu per la prima volta deputato, è l'uomo d'oggi, tutti dicono che Gronchi sarà l'uomo di domani. In verità il giovate democratico cristiano di Pontedera (1887) è di un'abilità diabolica. Povero professore sino al 1915; non vuol far politica, dice, nel periodo clerico moderato. È deputato a 32 anni; segretario generale della Confederazione bianca, sottosegretario all'industria (ahimè con Mussolini) a 35; a 36 divide col decorativo Rodinò e con l'infaticabile Spataro la successione di Sturzo. È troppo abile: una vivacità toscana; una sicurezza oratoria di professore di lettere; accorgimenti tattici propri di un ex-militante dell'Azione cattolica. In un congresso di pratici e di faciloni, abituati alla cultura di Boggiano-Pico e dell'on. Fino, Gronchi sorprende e domina per l'agilità giovanile, per la modernità inquieta ed encilopedica. In un mondo che prende quasi tutti i suoi Soloni dal neotomismo, Gronchi sembra una rivelazione paradossale, uno scopritore di nuovi orizzonti. Non può non stupire tra i popolari la fresca eleganza con cui egli cita Sorel e Maurras, Croce e Bergson. L'astuzia di Gronchi è di avventurarsi in queste scorribande senza presunzione e senza pedanteria conservandosi la sua fama di dialettico brillante. I suoi interessi intellettuali poi non arrivano mai a compromettere i suoi propositi strategici.

    Per uno spirito spregiudicato è una fortuna incontrare a un congresso popolare un uomo come Gronchi. Nessun altro cattolico ha la sua finezza e agilità parigina, né la sua devozione al pensiero moderno, né il suo culto per lo spirito di contraddizione, provvidenza e sale della nostra società. Senza il congresso di Torino l'on. Gronchi non sarebbe oggi molto diverso da Agostino Lanzillo o da Franco Ciarlantini: l'abilità ha questi limiti inesorabili; soltanto l'antifascismo poté fare di un toscano inquieto e realizzitore un uomo superiore a sé stesso.





    Così l'avvocato Umberto Merlin, di due anni più vecchio di Gronchi, come lui recluta dell'Azione cattolica ma di un cattolicismo più ortodossamente tradizionalista, sottosegretario alle terre liberate per quasi due anni di seguito, fu salvato per l'antifascismo dal pericolo di abituarsi a cedere alle clientele dominanti della sua regione. È rimasto intransigente, mentre solo poche settimane fa i suoi ex-seguaci di Lendinara si sono adattati a un patto di pacificazione coi vincitori. L'aver tenuto fermo, in una situazione assolutamente anormale, mentre s'era costituita intorno a lui una rete di interessi importanti, quando le sue doti di realizzatore si mostravano sempre più sottili, prova nella sua politica un fondo di generosità e di onestà che per troppi anni era sembrato nascosto sotto le astuzie dell'amministratore. Merlin è meno versatile di Gronchi, ma più solido, con la pratica dei piccoli affari locali che si riteneva indispensabile in altri tempi per trattare con serietà di cose politiche. La sua oratoria è leggermente enfatica e monotona; si nota in lui una chiarezza ordinata; i larghi occhiali mostrano il viso più attento e pacato, sereno pur se talvolta sfuggente; il suo semplice sorriso dissimula la sicurezza dell'uomo abilissimo.

Ferrari.

    L'uomo nuovo del congresso fu l'avvocato Francesco Luigi Ferrari, modenese, di 36 anni, vecchio amico di Miglioli, ora una specie di rivoluzionario liberale popolare. Non si direbbe che sia stato presidente della Federazione Universitaria Cattolica Italiana. È, un dialettico audace, nutrito di cultura storica e di razionalismo, disposto a non rifiutare alcuna conseguenza delle sue premesse democratiche.





    Fu l'anti-Martini e si spinse sino a impostare rigorosissimamente la questione istituzionale ad un congresso attento e non disseziente: sintomo importantissimo dello stato di spirito radicale delle masse cattoliche. Ferrari non esitò a dichiarare che le libertà non si riconquistano, che il problema non è di restaurare lo Statuto, che si tratta di mettere le basi per l'avvenire non prossimo di quel governo democratico, di quell'autonomia, di popolo che non abbiamo mai avuto in Italia. Ebbene persino tra i popolari vi sono ormai dei giovani capaci di intendere queste proposizioni, anche se esposte in una forma austera e scientifica, senza piacevolezze oratorie, e senza conforto di facili illusioni. Il congresso s'indispettì soltanto quando il nostro amico disse chiaramente che si tratta di lavorare per i nipoti! Pare che l'ottimismo per dei buoni cattolici debba essere quasi un argomento di fede...

    Ma Ferrari fu anche più deciso e inesorabile: pose senz'altro il problema fondamentale del partito. O lo si risolve o il partito non supererà mai il suo intimo equivoco. Le democrazie cristiane devono essere accanto alle democrazie socialiste. La piccola borghesia e il proletariato popolare devono essere a fianco del proletariato socialista nella rivoluzione che darà una nuova coscienza all'Italia di domani. Effettivamente i popolari devono guardarsi per l'avvenire da un solo pericolo: che in essi riprenda vigore l'odio per il socialismo. Sarebbe la vittoria definitiva della reazione e del filisteismo piccolo-borghese.

    Queste verità audaci animavano il congresso con seduzioni impreviste: Antonino Anile sembrava essersi messo in testa, come un punto d'onore giovanile, l'idea di non lasciarsi scandalizzare neanche da un'eresia; l'arguta barbetta piemontese di S. E. Bertone rimaneva impenitentemente ironica, e soltanto l'impenetrabile maschera sorniona di Longinotti nascondeva a stento un tono di sdegno, mentre Mangano, il più simpatico della vecchia guardia, non si curava di frenare le più clamorose esclamazioni di consenso, confortandole con l'elogio della costituzione di Weimar.

p. g.