LO SPIRITO INDUSTRIALE
E LA GUERRA

    Certamente l'ultima guerra, quella che si è convenuto, oramai, di chiamare la grande guerra delle Nazioni, offrirà agli storici futuri infiniti problemi da esaminare e risolvere, ma un problema, forse, apparirà anche allora fondamentale, e, per così dire, pregiudiziale per gli studiosi: Come mai una civiltà calcolatrice, intesa al guadagno ed alla moneta, si sia buttata alla violenza, e sia stata travolta nel più formidabile conflitto armato che la Storia ricordi; come mai la frenesia della produzione si sia tramutata di colpo nel delirio della distruzione; come mai, insomma, accanto al trionfo dello spirito industriale si sia avuto, con palese fallimento delle previsioni spenceriane, lo sviluppo della mentalità guerriera e militarista.

    Questo problema, così formulato, ci spiega, anzi tutto, perché molti fino al luglio 1914 non credessero alla possibilità stessa di una guerra europea, e ci spiega, anche, perché questa abbia sorpreso coloro stessi che ne furono gli originari protagonisti ed attori. Ed esso si riflette anche adesso nelle facili e fallaci costruzioni ideologiche di quegli storici che credono alla volontarietà e finalità di tutto ciò che avviene nel mondo, e che, partendo da queste premesse, non riescono, naturalmente, a persuadersi perché proprio quelle forze economiche che più dominano nella moderna civiltà industriale abbiano contribuito a scatenare una guerra, destinata, in ultima analisi, a demolire o fiaccarne la potenza. Più ancora, questo problema e la mentalità che esso rispecchia si riflettono nelle stesse artificiose costruzioni pseudo-giuridiche dei trattati di pace, coi quali le Nazioni vincitrici, in cerca di un alibi morale alla loro compartecipazione nella immane tragedia, hanno voluto addossare alla vinta Germania la colpa esclusiva di avere scatenata la guerra.

    Anticipiamo, se è lecito, il corso del tempo, vestiamoci, per un momento, della toga degli storici venturi, ed analizziamo, sia pure fugacemente, i termini di questo suggestivo ed interessante problema. Non sarà, forse, senza qualche utilità per la nostra conoscenza dei tempi attuali e dell'essenza stessa della moderna civiltà industriale.





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    L'antinomia che sta in fondo a questo apparente paradosso deriva principalmente dal concetto tradizionale che noi abbiamo della economia. Questa ci richiama, infatti, senz'altro, alle idee di limite, di misura, di proporzione. La legge dell'economia, come sa chiunque conosca il sillabario della scienza, è quella del minimo mezzo, legge fondamentale secondo cui il dispendio di attività per raggiungere un dato scopo dovrebbe essere il minore possibile; qualche cosa, insomma, come la definizione della linea retta in geometria.

    Ma, in realtà, anche questo nostro concetto tradizionale dell'economia, come tutti i concetti astratti, non è altro che una pura costruzione ideologica. A prescindere dalla dibattuta questione della validità delle cosidette leggi economiche, ed anche quella che il minimo mezzo è suscettibile di esame e di revisione, sta in fatto che la legge della vita, la legge cosmica non è affatto la stessa della legge fondamentale dell'economia. In altri termini, la legge del minimo mezzo non esiste nella Natura, ed a ben vedere non esiste nemmeno nella Storia. Se io volessi, per amore di concisione ed espressività, racchiudere la mia idea in una immagine incisiva, dovrei dire che il mondo non è stato creato da un Dio economo e calcolatore, ma da un Demiurgo prodigo e sprecone. La legge cosmica è, infatti, quella della dissipazione continua e senza scopo dell'energia, ciò che ha potuto indurre gli scienziati, sulla base del secondo principio della termodinamica, a formulare la nota legge della degradazione dell'energia o dell'entropia, ed a prevedere la fine del cosmo per il livellamento uniforme e l'abbassamento universale della temperatura.

    E questa legge cosmica suprema è anche la legge fondamentale della biologia e della storia. Anche in esse, infatti, vi è dispersione senza fine di energia, moltiplicazione perenne di germi e di tentativi in tutte le direzioni, ed è soltanto attraverso questo enorme dispendio di infinite possibilità, delle quali solo una parte minima può realizzarsi, che la creazione continua riesce a vincere la continua distruzione.





    Vi è, insomma, antinomia profonda tra le leggi del pensiero, da una parte, costruzioni razionali e prodotto dell'attività mentale dell'individuo - dell'essere, cioè, per sua natura limitato - e l'azione, dall'altra, delle grandi forze universali che, al di fuori di ogni concetto di limite, di proporzione e di finalità, agiscono nella natura della vita, nella storia. È soltanto con queste basi concettuali che si può riuscire a superare l'antitesi tra il determinismo ed il volontarismo nella storia, e sono sempre questi concetti che ci permettono di valutare criticamente e comprendere esattamente la portata reale della dottrina marxista, per esempio, come, del resto, di tutte le dottrine che tendono a ricostruire logicamente il processo della Storia.

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    La civiltà industriale, affermatasi nell'ultima metà del secolo passato, aveva fatto veramente dell'economia il suo ideale, il suo scopo stesso di vita. Il materialismo, l'individualismo, il socialismo sembravano concorrere tutti a formare una concezione assolutamente edonistica della vita, e l'homo oeconomicus parve, per un momento, il tipo espressivo dell'uomo degli ultimi anni del secolo decimonono. Ma l'industrialismo non tardò a mutare il suo primitivo carattere, ed a trascendere il suo stesso dato economico iniziale, obbedendo anch'esso a quell'impulso che spinge tutte le forme nuove di civiltà, come gli organismi giovani, a creare e distruggere senza scopo, per il solo piacere di creare o distruggere, per il solo bisogno di agire, insomma. L'istinto vitale, colla sua forza irrompente, abbatte con facilità i fragili schemi delle ideologie dottrinarie, e la potenza attiva dei grandi organismi collettivi non tarda a superare e trascendere i moventi limitati e le finalità ristrette degli individui.





    La civiltà industriale pervenne, così, ben presto ad alterare i rapporti fondamentali della sua stessa organizzazione economica, dando la prevalenza a quell'elemento che si presentava come il più capace di soddisfare il suo bisogno di creazione continua e senza limiti, cioè la produzione. E la produzione venne intensificata sino all'inverosimile, si liberò dalla sua subordinazione al consumo, prevenne la domanda, creò essa stessa i bisogni per avere il modo di soddisfarli, dominò i mercati, traboccò come una marea travolgente, superando gli oceani e le barriere doganali, inondando il mondo dei suoi manufatti. E contemporaneamente si svolgeva e si acuiva fino alle estreme conseguenze la tendenza caratteristica della civiltà industriale, l'aumento progressivo, la moltiplicazione continua, anzi, del capitale e degli impianti industriali.

    Già in questi due fenomeni possiamo riconoscere la presenza dell'istinto profondo della vita, che è azione continua e superamento costante; possiamo colpire, cioè, il momento in cui le leggi economiche si eclissano per lasciare il campo libero alla grande legge cosmica. Il capitale è, infatti, la parte di ricchezza destinata a nuova produzione, è, per così dire, la cellula germinativa dell'organismo economico, e se il risparmio, nella sua forma ordinaria, rappresenta già una rinunzia che l'individuo fa alla soddisfazione immediata dei suoi bisogni attuali per provvedere ai bisogni dell'avvenire, la moltiplicazione del capitale costituisce veramente un fenomeno analogo a quello che è negli organismi il prevalere della funzione generativa. È, insomma, il superamento dello scopo nell'individuo, la vita che si manifesta come azione e creazione continua, ed il perpetuare, diffondere ed intensificare la vita ed i suoi modi che si pone come il fine ultimo e come lo scopo fondamentale ed immanente dell'uomo e della società.





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    La civiltà industriale, superando il suo dato iniziale economico, finì quindi per assurgere ben presto a quello stato quasi dionisiaco che caratterizza tutte le civiltà giovani, stato vergine e primordiale di attività ed energia esuberanti in cui si risvegliano naturalmente gli istinti originari di lotta, di violenza e di predominio. Quando, dunque, noi diciamo che negli ultimi anni del secolo passato l'economia prese il posto della politica, questo si deve intendere nel senso che il campo economico fu per la nascente civiltà industriale quello in cui si manifestarono ed esplosero gli istinti di lotta e la volontà di potenza dei popoli, delle razze e delle nazioni.

    Chiuso col 1870 il periodo romantico delle lotte per la nazionalità, incomincia a manifestarsi la lotta per il predominio economico e l'economia sostanzia veramente di sé stessa la nuova politica, che si esplica, appunto, sotto la forma della real-politik, la politica degli interessi effettivi e concreti. Ma l'ingresso trionfale dell'economia nel campo delle competizioni internazionali poté avvenire soltanto a patto che essa rinunziasse al suo carattere fondamentale, alla sua limitatezza ed alla sua rigida proporzionalità e finalità, rinunziasse in una parola ad essere economia per ridursi al puro schema originario, al fatto primitivo in cui scopo ed azione si confondono, in cui non c'è più proporzione tra causa ed effetto, al di sopra del movente edonistico, al di là dello stesso egoismo.





    La legge economica del minimo mezzo scomparve e prese il suo posto la legge cosmica della dissipazione dell'energia. E sembrò scomparire ed eclissarsi l'ultimo raggio della razionalità nel mondo. L'animale già sazio, che uccide e lascia intatta la preda, non agisce per fame, ma è una vera forza cosmica di distruzione che opera in lui. E l'animale che disputa colle unghie e coi denti un alimento ad altra belva più forte, e ne resta vinto ed ucciso, non obbedisce a nessun ragionamento logico, ma paga colla vita la conquista o la difesa di quell'alimento che avrebbe potuto, forse, procurarsi senza rischio e senza pericolo altrove.

    Fu, appunto, questo carattere di irrazionalità che si rivelò, sopra ogni altro, all'umanità attonita nel momento pauroso in cui esplose improvvisamente la guerra. Parve, allora, veramente, l'annunzio di un flagello divino, il prologo di una nuova Apocalissi, l'inizio di una tragica ed universale espiazione; ma erano, invece, le forze cieche della Natura che si scatenavano sul mondo colla stessa formidabile violenza con cui, nell'equinozio di primavera, la furia amorosa dell'istinto invade, soggioga e trascina le piante e gli animali. Ogni senso di utilità, di limite, di rapporto, di proporzione, di valore, vale a dire ogni nume dell'Olimpo economico e razionale scomparve. Scomparve la nozione stessa dello scopo, e rimase soltanto l'azione, l'atto non più proporzionato alle cause ed ai fini iniziali per cui le Nazioni erano state trascinate alla guerra.





    Nel luglio 1914 sembrò veramente che il principio di causalità si eclissasse di colpo nei cieli della Storia, come una stella estinta che si spegne. E poiché lo spirito degli uomini prova dinanzi al crollo del principio di causalità quell'invincibile terror panico di cui parla Schopenhauer, sorsero, allora, i miti di guerra, destinati ad illudere i popoli sulle ragioni per cui essi credevano di combattere e di morire. Prima ancora che ci pensassero a foggiarli gli uffici di propaganda delle varie Cancellerie e dei diversi Quartieri Generali, era l'Umanità stessa che li chiedeva a gran voce e se li costruiva; essa voleva nuovi idoli da porre sulle are delle deità scomparse, voleva popolare nuovamente il Tempio misterioso della sua coscienza che col suo vuoto tremendo la atterriva, voleva fabbricarsi nuove immagini capaci di mascherare ai suoi occhi il volto scheletrico ed il riso funereo della Dominatrice. Si ebbe, così, la guerra per la democrazia, per la difesa nazionale, per l'irredentismo, per l'integrità delle piccole nazioni, per la santità dei trattati, per la libertà dei mari, la guerra per il posto al sole della Germania, la crociata anti-zarista degli Imperi centrali, la guerra dei cattolici contro i protestanti, dei cristiani contro gli infedeli... E ancora, la guerra come rivoluzione, il trapasso dei mezzi di produzione agli operai, la terra ai contadini, la guerra, infine, come purificazione e palingenesi universale.

    Mai, invece, come nella guerra ultima si rese evidente quella legge di ironia della Storia, in base a cui tutti gli scopi singoli sembrano annegare nell'oceano sconfinato dell'universale, in cui misteriose reazioni chimiche elaborano dal profondo i risultati più imprevedibili e più inaspettati. E nel crepuscolo dei suoi miti all'occaso, la guerra si rivela, oggi, veramente, alla nostra anima smagata e disillusa, come una tremenda Apocalissi senza alcun Messia.





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    E dovremmo, adesso, tornare nuovamente al problema prospettato in principio di queste note. Ma, in verità, non c'è più problema; l'antinomia che covava nel suo fondo è già dileguata, e l'opposizione tra economia e violenza è scomparsa colla postulazione di uno stato vergine e primordiale di energia esuberante, colla rivelazione di una civiltà giovane, avida ed impetuosa, che fece dell'economia il proprio campo d'azione, e che in questo stesso campo volle esercitare i suoi istinti di violenza e prepotenza. Una civiltà che per obbedire a questi istinti giunse fino a negare le sue stesse ideologie ed a distruggere il contenuto stesso di ciò che, pure apparentemente, formava l'oggetto della sua lotta; che volle, in un delirio cieco di superamento, oltrepassare ogni limite, negare ogni misura ed abbattere ogni legge, e che cadde, perciò, sotto la sanzione ferrea ed inevitabile del Fato giustiziere, precipitando nella catastrofe tragica e necessaria.

    Ed è dileguato, così, anche il presupposto sottinteso del nostro problema, che consisteva nel considerare la guerra come un fatto di cui la nostra civiltà potesse avere avuto fin dall'inizio coscienza chiara e distinta, come un evento a cui essa sia discesa volontariamente, colla piena consapevolezza dei suoi moventi, dei suoi risultati finali, e colla possibilità di scegliere fra due alternative opposte.

    Col dissolversi dei suoi elementi contraddittori anche il problema da essi generato scompare, senz'altro, e svanisce nel mondo dell'irreale, come un fantasma al primo canto del gallo. Ma è questo, in fondo, il solo modo con cui si possa risolvere in maniera sicura e definitiva qualunque problema, mostrando, cioè, ch'esso, in realtà, non esiste.

SALVATORE VITALE.