RisorgimentoProudhon e l'unità italianaIl pensiero politico di Proudhon riguardo all'Unità italiana è quello comune dei federalisti. Come per loro, anche per lui l'Unità italiana era una cosa paradossale ed illogica, oltre che per la diversità geografica delle varie regioni italiane, per la diversità etnografica e storica dei vari popoli che da secoli le abitano. Era poi da condannarsi in considerazione del fatto che l'Unità doveva fatalmente sfociare nell'accentramento finanziario e burocratico: manifestazioni entrambi della duplice tirannia economica e politica connessa ad ogni regime borghese. Sin qui ed in ciò la parte negativa del suo pensiero. Nella parte positiva il fatto che nella lotta, secondo i Proudhon, ingaggiata in Europa fra il centralismo tirannico e corruttore ed il federalismo libertario, l'Italia avrebbe dovuto essere la bandiera di questultimo e l'inizio della rivoluzione moderna. Questa la sua missione: mancando alla quale per l'accettato unitarismo monarchico, ogni strale veniva ad essere giustificato. Da questo risentimento si vedono zampillare gli insulti a Mazzini, ai monarchici ed "all'avventuriero nizzardo, ondeggiante a debole di carattere". Bisogna lasciarli cadere col sentimento che li ha occasionati, senza indagare se siano stati e siano legittimi od arbitrari. Interessa solo sapere che il Proudhon opinava essere stata sempre l'Italia una composita formazione di libere municipalità, dagli inizi della sua istoria sino ad Augusto e nonostante il Papato; che secondo il P. non altro sono stati (sia l'Impero che la Chiesa sulle cui fondamenta s'è innalzata) che gli organi defensionali della federazione dei municipi, ognora sopravvissuti, e dopo il Medioevo novellamente rifioriti, nei magnifici tempi del Rinascimento che fu l'anticipazione, per altri, e per noi la vera Riforma. In questa storica nostalgia si ravvisi l'animus inspirandi comune del federalismo nostrano, guelfo e ghibellino egualmente, cristiano ed ateo, indifferentemente. In ciò alfine si veda il lato conservatore del federalismo repubblicano e del moderno anarchismo: non meno del neo-guelfismo giobertiano e rosminiano, romanticamente rettorici e "svevi" (direbbe l'Heine), in quanto più rivolti al passato che non all'avvenire. Come si risolse la polemica giornalistica col De Girardin è inutile dire: seguí d'altronde la sorte di tutte le polemiche congeneri, e non ad altra valse che a chiarire le idee dei contendenti. L'influenza politica esercitata dal P. in Italia è stata nulla o quasi: giacché i rivoluzionari e gli anarchici - che non leggono - non lo conoscono, o lo conoscono male (neppure Pisacane, che lo cita, fa eccezione alla regola). Solo una certa notorietà ha avuto presso i federalisti e gli spiriti liberi di quei tempi, i quali furono, o suoi amici, come il Ferrari ed il Petruccelli della Gattina, o suoi ammiratori e scolari, quali l'Oriani. Ricordarlo perciò oggi, che anche l'eco della sua polemica è svanita nel nostro ricordo, sarebbe l'adempimento d'un puro dovere storico, se non ci fosse offerta l'occasione di rammentare agli italiani che pure il Proudhan sentì l'insufficienza politica del nostro Risorgimento nella storica constatazione ch'esso non fu il resultato d'una cruenta affermazione rivoluzionaria d'un popolo assurto ai fastigi dell'indipendenza, ma il resultato d'una interna camarilla governativa e d'un internazionale compromessa. Armando Cavalli.
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