Antonio LabriolaHo visto in parecchi pregevoli articoli di Rivoluzione Liberale riesumate ed illustrate alcune fra le figure centrali del nostro Risorgimento, opera invero preziosa per noi Italiani che per lunga sequela d'anni abbiam dimenticato ogni serietà di studi storici perdendoci in una retorica agiografia e rifiutandoci ostinatamente a vedere, in un prolungato accesso di infatuazione garibaldina, i profondi difetti di cui mostrasi non immune il nostro Risorgimento. Ripensamento critico, dunque, per studiare, attraverso quei pensatori, la formazione spirituale del nostro popolo; e in questo ripensamento è parso a me che possa, anzi debba trovar posto, s'anco cronologicamente vissuto un pochino in qua degli anni del riscatto, la figura di Antonio Labriola. Il quale sta proprio a cavaliere fra due periodi di storia italiana. Formatosi appunto nell'epoca degli entusiasmi nazionali (era nato nel 1843), egli anticipa nell'intimo travaglio suo l'Italia del secolo XX, quella Italia nuova che sentiamo ormai in noi, e per la quale lavoriamo. Io non dirò qui dell'opera sua di filosofo, per cui a me piace raffigurarlo come il vero padre spirituale dell'Italia nostra; io non dirò come fosse lui a raccogliere il vecchio hegelismo napolitano, depurandolo traverso l'implacabile critica marxistica e sottraendolo alla dilagante marea positivistica, sinché da lui lo ripigliò il Croce che poi lo fece trionfare (1); io non dirò nemmeno com'egli per primo in Italia, sulle orme di Marx, richiamasse a serietà gli studi storici e ne mostrasse l'intimo contenuto filosofico, onde non a torto il De Ruggiero lo chiama il teorico di quella scuola ch'ebbe poi illustri rappresentanti in Salvemini, Volpe, Ciccotti, ecc.; né infine m'indugerò a illuminare la sua opera veramente grandiosa di esegesi marxista, alla quale esclusivamente forse è dovuto se il marxismo non degenerò in un piatto e volgare materialismo, ma anzi ritornò, come negli anni giovanili di Marx, alla sua fonte idealistica, risultando come un inveramento di Hegel. Per chi non si soffermi solamente alle parole, che in lui, attaccato ancora alla terminologia marxistica e troppo amico dell'Engels (e questo fu forse il suo principale difetto), potrebbero ingannare, apparrà ben chiaro come il marxismo sia da lui presentato in veste idealistica (si ricordi l'accanimento con cui si oppose alle degenerazioni positivistiche e a certe affrettate combinazioni Darwin-Spencer-Marx di ferriana memoria), onde è merito suo se in Italia, più che altrove, fiorí questa interpretazione: hegeliana del marxismo che ci dette, oltre i saggi critici del Croce e del Gentile, gli studi pregevolissimi di Rodolfo Mondolfo e di Arturo Labriola, intenti tutti a sviluppare le premesse che il nostro aveva poste. E sorvolando ancora sulla singolare personalità dell'uomo, ben lumeggiata dal Croce, e sulle sue straordinarie doti di insegnante e di polemista che pur meriterebbero un'ampia trattazione, io mi limiterò qui ad esaminare il Labriola politico. Come tale pure egli merita di essere considerato il nostro padre spirituale, poiché, precorrendo i tempi suoi (e per questo appunto piombò di poi nell'oblio) additò in uno sviluppo industriale, promosso dall'intransigente lotta del proletariato, la sola via del nostro progresso. Mette conto di riferire innanzi tutto l'acuta e concisa diagnosi storica sulle condizioni del nostro Paese, diagnosi che, s'anco poi sviluppata e diluita fin che si vuole, resta sempre fondamentalmente la stessa: "Istruttivo è, senza dubbio, il caso dell'Italia. Questo paese, data che ebbe già in su la fine del Medio-Evo l'avviata all'epoca capitalistica, uscì per secoli dalla circolazione della storia. Caso tipico di decadenza documentata, e studiabile precisamente nelle sue fasi! (2). Rientrò in parte nella storia ai tempi della dominazione napoleonica. Risorta ad unità e diventata stato moderno, dopo l'epoca della reazione e delle cospirazioni, e nei modi e per le vicende che tutti sanno, l'Italia si è trovata di avere di recente tutti gl'inconvenienti del parlamentarismo, e del militarismo, e della finanza di novello stile, non avendo però in pari tempo la forma piena della produzione moderna, e la conseguente capacità della concorrenza a condizioni eguali. Impedita di concorrere coi paesi d'industria avanzata, per la mancanza assoluta del carbon fossile, per la scarsezza del ferro e per la deficiente preparazione delle operosità e delle attitudini tecniche, aspetta ora, si lusinga che le applicazioni della elettricità le dian modo di riguadagnare il tempo perduto, come si vede per gl'indizii dei varii tentativi da Biella a Schio. Uno stato moderno in una società quasi esclusivamente agricola, e in gran parte di vecchia agricoltura: ciò crea un sentimento di universale disagio, ciò dà la generale coscienza della incongruenza di tutto e d'ogni cosa! "Di qui la incoerenza e la inconsistenza dei partiti, di qui le facili oscillazioni dalla demagogia alla dittatura, di qui la folla, la turba, l'infinita schiera dei parassiti della politica, e poi dei progettisti, dei fantastici e degli inventori d'idee. Rischiara di luce vivissima questo singolare spettacolo, di uno sviluppo sociale impedito, ritardato, intralciato e perciò incerto, l'acuto ingegno, che se non è sempre frutto ed espressione di molta e vera coltura moderna, reca però in sé, per vecchio abito di millenare civiltà, l'impronta di un raffinamento cerebrale quasi insuperabile. L'Italia non fu, per ragioni ovvie, terreno proprio di una autogenetica formazione di idee e di tendenze socialistiche. Filippo Buonarroti, italiano, da amico già del minore dei Robespierre, divenne il compagno di Babeuf e fu più tardi il rinnovatore del Babuvismo nella Francia di dopo il 1830! Il socialismo fece la sua prima apparizione in Italia ai tempi della Internazionale, nella confusa e incoerente forma del Bakuninismo; e non come movimento di massa proletaria, ma anzi come di piccoli borghesi, di déclassés e di rivoluzionari per impulso e per istinto (3). Di recente, in questi ultimi anni, il socialismo vi si è andato fissando e concretando in una forma che riproduce, con molta incertezza però, il tipo generale della democrazia sociale. Ebbene, in Italia, il primo segno di vita, che il proletariato abbia dato di sé, è consistito nelle sollevazioni dei contadini di Sicilia, alle quali altre dello stesso tipo ne tenner dietro sul continente, ed altre assai probabilmente ne succederanno in seguito. Non è ciò assai significativo?". Da queste premesse egli deduceva quale avrebbe dovuto essere la via del proletariato italiano (via, purtroppo, non seguita sin qui), "la pressione costante del lavoro sul capitale" non solo per il vantaggio del proletariato, ma anche per contribuire a formare in Italia una vera classe capitalistica al posto di quella borghesia stracciona che egli vi scorgeva con rammarico. Ma questa pressione implicava uno sviluppo organizzativo allora soltanto sperato, uno sviluppo in senso nettamente classista e intransigente, che non degenerasse nelle forme di un insurrezionismo barricadiero o di un riformismo puramente parlamentare. Uno dei lati più interessanti e meno studiati del Labriola è appunto la tenacia con cui combatté quelle due forme di politica operaia e insiste sulla necessità di un'organizzazione "per la formazione del proletariato nuovo nell'ambito della grande industria e nello stato moderno". Contro i semplicisti dell'insurrezione aveva già ammonito: "Ma la banca, atta ad irretire per molte vie il lavoro, non si porta al patibolo come Luigi XVI. Ma la legge ferrea del salario non si espugna come costello o palagio. Ma l'organizzazione sociale del lavoro non s'improvvisa come la guardia nazionale. Ma gli operai non si riducono in falangi serrate di cooperativa con l'entusiasmo che spinse al confine nel '93 i proletari, preparatori alla patria di infide glorie militari di Napoleone, e a i proprii figliuoli della mala sorte dei salariati. Qui non c'è retorica girondina o audacia giacobina che basti! Si tratta di un lavoro immane e multiforme; si tratta del lavoro che si conviene per rigenerare tutto intero il corpo sociale". E altrove: "Ma chi è più ora al mondo, che creda che cotesta trasformazione si operi con comizi, con sbandierate e con tumulti? Ci vuole il partito operaio forte e organizzato, ci vuole il senso vivo d'un proletariato capace di resistere e di progredire, perché quei concetti, uscendo dal vago della teoria astratta, s'impongano come nuove forme della convivenza sociale". Questa sua sicura convinzione gli faceva già antivedere come compiuto un processo ch'era di là da venire, ed egli descriveva l'organizzazione proletaria siccome in fatto esistente. "Come la compilazione dello stato moderno fa apparire insufficiente la improvvisata occupazione di un Hôtel de Ville, per imporre ad un intero popolo il volere e le idee di una minoranza, sia pur essa coraggiosa e progressiva, così dal canto suo la massa proletaria non istà più alla parola d'ordine di pochi capi, né regola le sue mosse su le prescrizioni di capitani, che possano, se mai, su le rovine di un governo di classe o di consorteria, crearne un altro dello stesso genere. La massa proletaria, là dove essa si è svolta politicamente, ha fatto e fà la sua propria educazione democratica. Cioè, elegge e discute i suoi rappresentanti, e fa sue, esaminandole, le idee e le proposte, che quelli per anticipazione di studio o di scienza abbiano intuito e presagito; e se già, o comincia almeno ad intendere, secondo i varii paesi, che la conquista del potere politico non deve né può esser fatta da altri in nome suo, sia pure da gruppi di coraggiosi antesignani, e che sopratutto quella conquista non può riuscire con un colpo di mano. Essa, la massa proletaria, insomma, o sa, o s'avvia ad intendere, che la dittatura del proletariato, la quale dovrà preparare la specializzazione dei mezzi di produzione, non può procedere da una sommossa di una turba guidata da alcuni, ma deve essere e sarà il resultato dei proletari stessi, che siano, già in sé, e per lungo esercizio, una organizzazione politica". Ma guai a credere che questa organizzazione politica, questo partito operaio, di cui egli discorre, debbano esaurirsi nell'ambito parlamentare. Marxista vero, quale dopo Marx forse non se n'ebbe altro né in Italia né altrove, egli denuncia l'irrealità dell'uguaglianza politica, in cui vede solo un mezzo per mettere in crudo risalto l'asservimento nella fabbrica, "il contrasto vergognoso che la democrazia politica ha messo in essere, facendo degli stessi uomini e cittadini e servi a un tempo", e far di conseguenza nascere nell'operaio il senso della dignità umana che poi lo spinga a nuove lotte per l'affrancamento da questa servitù ("I socialisti non domandano concessioni, ma conquiste; e considerano le libertà politiche come molla ed impulso a nuovo lavoro e moto"): arma rivoluzionaria, dunque, e non strumento di pacificazione o compromesso. Ma egli temeva che la partecipazione socialista alle lotte elettorali potesse produrre questi effetti degenerativi e non si stancava di mettere in guardia contro "la frode e l'inganno dei Parlamenti", contro la bugia che "nell'elettorato consista la salvezza dei popoli e il progresso degli Stati". E tracciava al proletariato questo rapido programma: "Mai più i proletari correranno dietro alle vane promesse delle fazioni politiche, perché queste, levate su dal favore popolare, preparino le amare delusioni parigine del giugno 1848; mai più chiederanno ai governi borghesi quell'insidioso diritto al lavoro, che è poi facile istrumento al Cesarismo; mai più cederanno alle lusinghe di consorterie e di potenti demagoghi". "Occorre per ciò un vivacissimo spirito di classe, scuola pratica di resistenza, e addestramento alle future vittorie". La quale resistenza, egli notava, e mi piace ricordarlo anche in relazione a recenti polemiche, dev'essere "resistenza organizzata", ma di veri operai, non mescolati a caso ai radicalucci e ai piccoli borghesi, di veri operai non ingannati dai politicanti, non fuorviati dai mestatori, non confusi coi turbolenti senza scopo e coi figuranti di dimostrazioni". E altrove egli invitava il proletariato a confidare "solo nei suoi proprii mezzi e nelle sue proprie forze". Ma per il formarsi di questo spirito classista, è necessario anzitutto che il proletariato senta la voce della propria dignità. Il Labriola ha ben visto sotto questo aspetto la funzione educatrice della fabbrica, e nelle agitazioni del Primo Maggio ha salutato "la dignità umana che si riafferma nella limitazione delle ore di lavoro". Questo suo concetto di dignità lo portava ad opporsi alle "inutili rivolte e ai vani lamenti"; non si tratta di piatire o di mendicare, ma anzi di conquistare colla potenza dell'organizzazione. Epperò al Mandré, che gli aveva presentato un libro di poesie socialiste intinte d'un vago e malinconico sentimentalismo, egli scriveva: "Ma voi, mesto proletario e socialista di sentimento, voi non scrivete ancora la poesia dei proletari. La nota ribelle scatta sì, qua e là, dai vostri versi; ma riman poi sopraffatta dalla malinconia che vi vince di cantare di quello soltanto che voi stesso attrista, non di quello che agita i petti e gli animi di tutto il gran popolo dei proletari. Condizione cotesta, la quale, a vostra insaputa, dimostra come il nuovo popolo sia in Italia appena in sul nascere, e come all'arte proletaria nuovissima manchi tuttora da noi il sostrato reale della pensata e viva lotta di tutti i giorni. Possiate voi scrivere molte poesie come il "Canto Novo", che sian voce, grido, promessa e giuramento del proletario armato e pronto alla riscossa". Tutte queste riflessioni gli fanno legittimamente concludere che il partito socialista non potrà prosperare "se non a patto: di non ricadere nella fatuità dell'anarchismo; di non cristallizzarsi nella goffa idea del legalitarismo parlamentare, che poi in avvenire può ben risolversi in una nuova requisizione del bestiame volante; di essere, di voler essere, o di saper essere ispirato sempre al principio della rivoluzione pratica e progressiva, usando modi non preconcetti ma sperimentati di organizzazione, e forme tali di propaganda quali le richiedono la condizione del paese e il temperamento degli uomini. Fuori di ciò è il delirio o la viltà: di qua da tale linea nasce, e vegeta poi, la setta, la consorteria, ma non sorge e vive il partito". Come ognun vede, Antonio Labriola era un rivoluzionario, nel senso nostro della parola. V'è in lui la coscienza viva delle antitesi congiunta alla volontà tenace di superarle. Ma non certo di superarle per adagiarsi nella quieta beatitudine dell'Assoluto conseguito: il Labriola non poteva avere e non aveva cosiffatte utopie. Egli non afferma di contro alla realtà borghese un astratto ideale. Non insegue vane chimere. Marxista anche qui, si tien stretto alla realtà e in essa vede l'antagonismo e la necessità della rivoluzione. Per questo, egli dice: "Il comunismo critico non moralizza, non predice, non annunzia, né predica, né utopizza: ha già la cosa in mano, e nella cosa stessa ha messo la sua morale e il suo idealismo". E poco più oltre: "Il Manifesto non ha retorica di proteste, né reca piati. Non lamenta il pauperismo per eliminarlo. Non spande lagrime su niente. Le lagrime delle cose si sono già rizzate in piedi, da sé, come forza spontaneamente rivendicatrice. L'etica e l'idealismo consistono ormai in ciò: mettere il pensiero scientifico in servizio del proletariato. Se questa etica non pare morale abbastanza ai sentimentali, che sono il più delle volte isterici e fatui, vadano a chiedere l'altruismo al gran pontefice Spencer. Ne darà loro la sciatta, e insipida, e inconcludente definizione: e di ciò si appaghino". Il suo programma, che ben potrebb'essere il nostro, è quello d'un partito socialista saldamente organizzato (4), nettamente classista e intransigente, che conduca a fondo la lotta contro lo Stato borghese, plutocratico e militarista, anche se paludato sotto le forme del democraticismo. La sua critica, come di consueto espressa colla massima concisione, è la critica anticipata del Fascismo, e val la pena di riferirla. "Ma ecco a nascere dal fermento delle nuove idee (del XVIII secolo) e dall'attrito spaventoso tre nuove piaghe sociali. Dalla liquidazione frettolosa della vecchia proprietà sorge il capitalismo; dallo slancio patriottico nasce il militarismo; l'elettorato politico dà la stura alla ciarlataneria dei demagoghi. Il nostro secolo ne ha ereditato tre bugie. La prima è: che padroni tutti di concorrere, il vincere la gare è merito. L'altra è: che l'onor militare sia la misura delle virtù delle nazioni. La terza è: nell'elettorato consistere la salvezza dei popoli e il progresso degli Stati. La prima serve a mascherare il capitale spadroneggiante; giova la seconda a mantenere il predominio della forza bruta sul lavoro pacifico; la terza spinge nelle prime linee della vita pubblica i professionisti, gl'intriganti, gl'intraprenditori di popolarità, lusingatori delle masse nei comizi, schiavi poi del capitale e magnificatori del militarismo quando entrino nei Parlamenti. Questa finora la principalissima nota di merito del socialismo: d'avere, cioè, scoverta e descritta la vera natura del nuovissimo nemico, il capitale, e d'aver messo alla gogna i ciarlatani, gl'ipocriti e i demagoghi del liberalismo". Il sito compito però non è finito. Esso deve continuare a promuovere lo spirito classista, perché "cotesto spirito... sarà l'arma morale ed economica per combattere l'invadente militarismo, miraggio patriottico per alcuni, bandiera dinastica per altri, ma in fondo poi istrumento dei capitale e della grossa industria: vincitori o vinti che gli Stati escano dalle guerre, la festa è sempre allo stesso modo la stessa, per aggiotatori e banchieri!". Chi pensi che tutte queste parole contro la retorica, contro la demagogia elettorale, contro gli sbandieramenti e i tumulti, le conventicole, il facilonismo barricadiero, il riformismo parlamentare, gli ibridi connubii, le degenerazioni cooperativistiche e via discorrendo, in favore di un partito organizzato, serio, intransigente, che conducesse a fondo la lotta cosciente e rivoluzionaria contro lo Stato plutocratico-militarista e corruttore, furono scritte più che trent'anni fa, quando il socialismo era demagogia di spostati o bamboleggiamento di utopisti, quando non usciva dallo stadio cospiratorio della setta o dall'isterismo sentimentale degli umanitari, quando non sapeva che predicare l'odio cieco e distruttore o invocare dalla democrazia la realizzazione della Giustizia e dell'Eguaglianza, può facilmente comprendere come quelle parole dovessero cadere nel vuoto. Antonio Labriola fu in Italia un secondo Marx: come questi fu messo in soffitta, perché il suo sguardo linceo troppo avea visto lontano. Ma oggi che noi sentiamo rivivere fra noi lo spirito di Marx, e a lui volentieri ci richiamiamo, dobbiamo raccogliere anche il retaggio di Antonio Labriola, dobbiamo ristudiare i suoi scritti, dobbiamo meditare ancora e a lungo i suoi insegnamenti. PROMETEO FILODEMO.
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