Colloquio ultimo

    Per mio padre, io sono un uomo perduto. Con le mie idee, egli dice, non si fará mai niente nel mondo. Mi ha visto sempre all'opposizione: dai dodici anni in su, non gli è stato mai più possibile riacchiapparmi. Crede che una specie di demone mi possegga, e, tratto dal suo orgoglio di genitore a sopravalutare certe mie qualità, è preso - ogniqualvolta gli parlo - da un doloroso senso di rammarico, che egli esprime con uno sconsolato significativo moto del capo, e con una sola parola: "Peccato!". Opposizione, intendiamoci bene, non solo alle sue idee politiche, ma ad ogni atteggiamento della sua vita: quel che per lui è bianco, è per me, sempre, irrimediabilmente nero. O viceversa. Nonostante tutto, io andava di tanto in tanto a parlare con mio padre. E poiché con gli anni anche la mia "arte" era progredita, non provocavo più, negli ultimi colloqui, gli scoppi violenti d'una volta, e riesciva persino a parlargli lungamente, per qualche ora, e sugli argomenti più scabrosi e più scottanti. Ma le cose rimanevano sempre al maledetto punto di prima: un punto, cioè, invariabilmente morto. Evitavo, sí, i fulmini d'una volta, ma le convinzioni del mio contraddittore rimanevan sempre le stesse. Tutto al più, nell'anima del brav'uomo si accentuava la dolorosa commozione per questo figliolo, così ostinatamente deliberato a perdersi. Perciò proprio ier l'altro ho avuto l'ultimo colloquio con mio padre. E non ne avrò più: per rispetto di me e di lui.

    Difficoltà e contrasti comunissimi, voi direte. Eterno conflitto tra due generazioni, soggiungerete. Vera l'una cosa e l'altra. Ma così dicendo, non direte tutto. Né spiegherete tutto. Il contrasto che c'è tra noi due non è di statura identica a quello che mio padre ebbe, ai suoi bei dì, con mio nonno. Il dissidio nostro di oggi differisce non solo nelle forme, il che, mutati i tempi e gli schemi della vita, sarebbe naturale, ma proprio intrinsecamente, nella sostanza più profonda. Poiché credo che per la prima volta, in Italia, si sia arrivati a un vero urto di generazioni.





    Quando io parlava per ben tre ore, con tutta la calma possibile, con incisi patetici, cercando abilmente di muovere tutte le corde del cuore del mio contraddittore, e vedeva che d'altra parte (mentre tutto il discorso si svolgeva nel tono della più affettuosa sollecitazione da parte di un figlio che vuol comunicare con suo padre per sentirsi più veramente figlio) mi si opponeva una serrata barriera e un irrigidimento mentale che non avrebbe ceduto a niente, allora ho dovuto convincermi che non si trattava d'assenza di buona fede, di stima verso di me, o di difetto d'intelligenza - ché mio padre ne ha una vivacissima, naturale, che francamente gl'invidio - ma di ben altro. Noi si stava di fronte come se si provenisse da mondi diversi e lontanissimi. Come se la nostra organizzazione cerebrale fosse, nelle sue strutture più intime, desunta da razze tra loro non solo differenti, ma addirittura opposte nella loro stessa finalità biologica... Parlare di intesa tra due tipi destinati a così diversa funzione economica nella vita, sarebbe un assurdo. La conciliazione su questo terreno equivarrebbe, poi, alla colpevole rinuncia ai segni, del resto indeclinabili, delle nostre razze. Tra noi due non vi possono essere che i rapporti emotivi, caldissimi, derivanti dal sangue. Per tutto il resto, faremo bene ciascuno a navigare nella nostra orbita e a non incontrarci mai più. E non dovremo, nella disperazione della rotta desolata, più cedere ai dolci inviti che dal cuore incessantemente salgono a sollecitare un'impresa rivelatasi ormai disperata...

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    Mio padre è l'Italia di oggi. O meglio, lasciando l'astrazione, gl'italiani di oggi, parlo gli quelli che più rumorosamente calcano la scena, sono, grosso modo, dello stesso stampo di mio padre: i vecchi e i giovanissimi. E questa identità, stabilita dopo pazienti osservazioni di qualche decennio, mi denuncia con vivacissima crudezza la impossibilità materiale di certe conciliazioni, di certe intese, di certi paterecchi sussurrati dalla gente per bene e amante della pace.





    Non c'è argomentazione razionale che basti; non c'è moderazione di eloquio o buona educazione che possa servire; non vi sono miracolosi machiavellismi da escogitare: chi ha pigliato posizione in un senso o nell'altro, chi è nel mio mondo o in quello di mio padre, non l'ha fatto per capriccio o solo per motivi impuri. Ha obbedito sempre a una profonda vocazione. Dei sudicioni e degli arrivisti non mette conto d'occuparsi: non sono mai i detriti che costituiscono le realtà valide ed apprezzabili della vita.

    E allora: che fare? È forse necessario ritrarsi in buddistica contemplazione, aspettando i raggi d'un novello sole? Niente di tutto ciò. La scoperta della vanità di certi contatti dovrebbe produrre lo stesso effetto d'una bene intesa lezione d'economia. La colpa di quell'impossibilità di stare e di andare insieme, che abbiamo or ora denunciata, non è proprio di nessuno. Le cause di essa son molteplici, e si ritrovan tutte nelle trame della nostra storia. Frettoloso processo unitario. Servaggio politico e spirituale, gravante per secoli su tutti gl'italiani. Deficenza di cultura, di probità mentale. Vita offesa nel suo libero sviluppo dal peso di un opprimente problema economico. E tutte queste cause insieme, e mille altre, mille volte dette, han concorso a diffondere un'uggiosa grettezza e a produrre un'incapacità assoluta a crearci una vita veramente moderna.

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    Perché, alla fine, non riesco a intendermi con mio padre? La risposta ora è facile: perché mio padre non è un uomo moderno. E gli italiani, anche quelli che costruiscono le autostrade, che danno le loro mirabili energie al progresso materiale del Paese, sono - psicologicamente parlando - arretrati di secoli.

    Mio padre non è un uomo moderno, perché..., ad esempio, ricorda sempre le cose così, all'ingrosso. Per giudicare col rito più sommario d'un uomo, gli bastan tre o quattro particolari sulla vita del reo, e appresi sempre di quarta mano. Quando io interveniva a precisar date circostanze e fatti, mi diceva sempre che sofisticavo. Per lui, Nitti ha tutte le eccellenti qualità di questo mondo, ma... Nitti ha elargito l'amnistia ai disertori. Sforza è un abile negoziatore, forse il più abile che abbia la nostra diplomazia, ma Sforza, trattando con la Jugoslavia,... fece quel che fece. E così via. Mio padre non è un uomo moderno perché... non ha l'assillo della ricerca della verità. Se un giudizio su di una situazione gli viene ammannito dal giornale preferito, che legge sempre alla sera, in quel crepuscolo di coscienza che precede il sonno, il giudizio del giornale diventa suo, e neppure Domineiddio glielo leverà più di testa. Se poi quel giudizio è calunnioso, allora piglia per oro colato la calunnia, e mette in movimento tutti i suoi rumorosissimi sdegni.

    Mio padre non è un uomo moderno perché... non sa veder le cose con una certa prospettiva, non sa esercitare neppure uno zinzino di critica su quel che gli accade sotto il naso, e perché cinquanta volte al giorno ha sulle labbra il venerato nome della patria, e non vede in tutti gli altri popoli della terra che una combutta brigantesca di irreducibili nemici nostri, che ci salteranno addosso da un momento all'altro.

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    Lasciamo stare in pace questo povero Cristo di mio padre. Ma, ditemi: i contraddittori nostri d'ogni giorno, non sono tutti dello stesso stampo? Ne avete conosciuto uno solo capace di seguirvi con onestà in una discussione? Che abbia rinunciato a colpirvi con certi luoghi comuni, che avrebbero dovuto produrre il più sconcertante effetto? Che si sia pigliato la bega di veder bene sino in fondo chi sia Sforza, chi sia Salvemini, chi sia Sturzo? Che abbia evitato di andare in collera, quando ne poteva benissimo fare a meno? Che abbia il gusto di certe distinzioni? Che sia capace di una sintesi critica, di un serio giudizio storico? Che non si dica orgoglioso del "Borsalino" che porta, o della "Lancia" con la quale va a spasso, e non senta il rossore per tante vergogne autenticamente nazionali? L'italiano "antico" (lo chiameremo così anche quando ha vent'anni), si sente legato al suo paese da un indeclinabile dovere di omertà: l'italiano ha sempre le mani monde, e va sempre nudo alla meta, anche d'inverno. Egli fa e strafà. Se è negli affari (ho sottomano un tipo di questo genere), agisce empiricamente, e fintanto che le cose van bene ti ride in faccia se gli additi un precetto di scienza economica. Protesta per le imposte esorbitanti che gl'impongono non in modo aperto e diretto, rovesciando dal potere quelli che gliele applicano, ma subdolamente, frodando nel modo più sfacciato il fisco. Dubita sempre di chi ha un dubbio: vuole uomini senza perplessità, mandino pure con la loro disinvoltura tutto a catafascio. É questa presso a poco la materia molle sulla quale poi agiscono gli eroici mestatori.

    Allora è bene che gl'italiani di cui sommariamente s'è discorso sian lasciati vivere come vogliono. Che trascinino sino in fondo il loro destino. Che ognun che senta di aver qualcosa in comune con loro li pigli a braccetto e proceda con loro senza indugi. Noi abbiamo altro da fare. Ci sono, di fronte a noi, i giovani della nuova generazione. Ci saranno i giovani delle generazioni venture. Ebbene, è verso di loro che dovremo polarizzare il nostro lavoro e il nostro sforzo. Solo con loro potremo celebrare quella fraternità d'opere e di vita che è stata sin qui impossibile con gli altri.





    Checché si dica, noi vediamo nel fascismo gli uomini della vecchia Italia. Il nostro antifascismo non ripete la sua ragione essenziale dalla sola avversione agli uomini ed ai loro sistemi politici, ma sopratutto dalla convinzione che abbiamo d'esser diversi, d'avere altri occhi, altro cervello, altra anima. Quando poniam mente a queste differenze di struttura, certi livori passeggeri dileguano per cedere il campo a considerazioni più serene, e senza dubbio più degne. Ci appare di essere, allora, come decongestionati, più sciolti e più liberi dalle strette della passione d'ogni giorno. Il lavoro assume, fuori dei passeggeri risentimenti, forme e contenuto più proficuo. Ne guadagniamo, senza alcun dubbio, in decorso e in sostanza d'opere.

    Quella che abbiamo iniziato è una lotta di due mondi. Ciascuno se ne può stare serenamente al suo posto, senza impazienze. Se è vero che la meta lontana e il resultato integrale non escludono gli obbiettivi vicini, è altresì vero che non avremo vinto capovolgendo solo certi fattori esteriori della situazione. Potremo parlare di un resultato solo quando, e cinquant'anni potrebbero esser insufficenti, avremo creato stati d'animo analoghi al nostro, avremo cioè soffiato un pò di modernità vivificatrice nel corpo e nell'anima del Paese, che trascina oggi la sua vita in una asfissiante atmosfera provinciale e arretrata. Senza alcun dubbio, i migliori alleati in quest'opera li avremo negli avversari più intransigenti e più decisi. Malgrado le ferite che ci potranno essere inferte da costoro, essi hanno un più giusto titolo alla nostra stima ed al rispetto nostro.

    Inutile, quindi, ogni schermaglia polemica con gli avversari. Inutile ogni colloquio con un padre. Ciascuno rimanga al suo posto ben fermo. La lotta nella quale la nostra generazione s'è impegnata è lunga, perigliosa, difficilissima. La sopporteremo solo se sarà condotta fuori e lontano dal viscido terreno degli equivoci.

GIOACCHINO NICOLETTI