RisorgimentoLa politica di RosminiIl filosofo.Supponiamo sia noto che il R. concepiva platonicamente il mondo quale una successiva obbiettivizzazione di Dio, il quale e nel quale è ogni cosa. Dio, per conoscere e fare il mondo, riduce per astrazione l'idea sua a quella di essere iniziale: qui incomincia l'intuizione dell'uomo; poi immagina i limiti reali: e l'uomo li sente: Dio affermandoli compone i limiti reali con l'idea dell'essere iniziale che ha in sé: e l'uomo altresì, affermandoli, compone i reali che sente, con l'essere iniziale che intuisce in Lui. E come per il detto componimento Dio fa nascere in modo obbiettivo gli Enti, e insieme le idee ed i tipi; altresì l'uomo, componendo come s'è detto, fa nascere in modo subbiettivo gli enti e le idee, e però copia la creazione divina (Cfr. ACRI, Teoria del R. su le Idee e i Paradigmi in Videbimus in Aenigmate. p. 338). Secondo l'Acri il Dio di R. "potrebbe essere assomigliato a un artista, che, mosso da ispirazione vaga, e guidato da principii generali dell'arte, pone mano al pennello e dipinge: e, dipingendo, concepisce a un medesimo tempo dentro di sé il tipo di quel che dipinge; sicché a un tempo medesimo, comecché in modo diverso, dipinge fuori di sé su la tela, e dentro di sé nel campo della immaginazione" (ibid., p. 336). Dalle parole anzidette si deve arguire che pel R. il problema centrale della filosofia è quello dell'essere, dal quale deriva che il mondo obbiettivamente esiste. Citiamo ancora una volta l'Acri: - "L'essere ideale (Dio), ch'é obietto d'intuizione si termina, tuttoché non veduto, in un subbietto che da noi si conosce per raziocinio (forma reale): e come subbietto intelligente ha se stesso come obbietto inteso (forma ideale); e, intelligente, in quanto s'unisce a sé come inteso, si ama (forma reale)" (pagina 324). È questa la trinità dialettica dell'essere ideale rosminiana. Chi ha in mente la concezione trinitaria implicita nella "formola ideale" del Gioberti, potrà con noi convenire che l'astiosa polemica tra i due massimi filosofi italiani del secolo scorso non era in definitiva basata che su delle parole, ed animata da un cozzo di diversi stati d'animo. Ma non occupiamoci di ciò. A noi interessa sapere che il R. fondava la sua filosofia sull'idea dell'essere, incarnantesi e manifestantesi nelle forme della realtà empirica. Per il R. il mondo obbiettivamente esisteva nella forma che la Divina Sapienza gli aveva impressa. Era dunque fondato sui due cardini dell'Essere e della Sapienza, entrambi connaturati in esso e nelle sue espressioni. Quale conseguenza di codesta platonica concezione le Idee erano innate nell'uomo, e tutta la Creazione non era per il R. che un vasto panorama nel quale i pensieri di Dio erano oggettivati. Il suo mondo era perciò statico: od almeno il moto che in esso vi era non differiva da quello contemplato dal Gioberti nei momenti della sua "formola ideale"; anche pel R. infatti "l'essere finito e molteplice si formava per contrazione dell'essere iniziale" (involuzione, mimesi) a cui teneva dietro o si esprimeva parallelo il moto di distensione nell'infinito (evoluzione, metessi). Su questo punto però non era d'accordo col Gioberti, poiché per lui il Progresso non era l'esplicazione del secondo tempo della "formola ideale": "l'Esistente torna all'Ente" - ma la composizione secondo le modalità fornitegli dalla Ragione (Sapienza), di nuove combinazioni e forme. È questo ciò che noi abbiamo chiamato il riformismo di Rosmini: ed è il nucleo informatore del suo pensiero politico e della sua azione di sociale riformatore. Detto ciò, entriamo nel vivo della questione. Il diplomatico.L'attività politica pratica del R. si limita alla missione da lui esplicata nel 1848-49 preso la S. Sede, per incarico del Re di Sardegna Carlo Alberto. Lo stesso R. ne parla di proposito in un suo Commentario pubblicato postumo nel 1881 (ed. Paravia, Torino). Detta missione avvenne dopo la sconfitta di Custoza e la ritirata delle truppe sarde sulla destra del Ticino; nel frattempo che il Gioberti s'appoggiava agli elementi più riscaldati e facinorosi per acquistare il potere, e condurre di nuovo il Piemonte in guerra contro l'Austria. Gli intrighi del Gioberti colle "teste bruciate" (i rivoluzionari) sono noti perché sia opportuno indugiarvisi. Un accenno il lettore può trovarlo nel lavoro dell'Anzilotti e nell'articolo da noi pubblicato sul Gioberti (Riv. lib., 1924, n. 16). Lo scopo della missione rosminiana era, secondo il parere del Consiglio dei Ministri subalpino, di indurre il Papa a prender parte assieme al Piemonte alla nuova prossima guerra contro l'Austria. Il Rosmini dapprima rifiutò l'incarico, non tanto perché "nel Parlamento si erano pronunciate tante ingiurie contro il Papa ed il clero, e vi si erano commessi dagli atti arbitrari e offensivi alla giurisdizione ecclesiastica" coll'approvazione della legge Siccardi; quanto perché nel suo intimo "riteneva irragionevole pretendere che il Papa, padre comune de' fedeli, dichiarasse la guerra all'Austria pel solo motivo di costituire la nazionalità italiana, e una nazionalità così problematica; per lui ad ogni modo era impossibile che il Papa s'inducesse ad un tal passo". Pur tuttavia accettò, offrendosi di farsi patrocinatore presso il Papa per ottenere un Concordato basato su questi due punti: 1) libertà della Chiesa: 2) negoziazione di una Confederazione fra i diversi Stati d'Italia, di cui si garantisse l'esistenza, sotto la presidenza, almeno onorifica, del Papa; il che dissiperebbe dall'animo del Pontefice e degli altri principi il sospetto che il Piemonte pensasse al solo ingrandimento e forse ad assorbire in sé tutti gli Stati italiani". (ROSMINI, Comm.). Avute dirette assicurazioni dallo stesso Carlo Alberto, che il 9 agosto 1848 lo ricevé a Vigevano, dove trovavasi accampato contro l'Austria, il R. partì alla volta di Roma. Fu ricevuto con molta affabilità da Pio IX, il quale, udito il pensiero del Governo piemontese, sembrò in un primo tempo propenso a trattare per la conclusione del Concordato. Al Pontefice il R. non fece che ripetere quanto già gli aveva scritto sin dal marzo (1848) nell'occasione dell'invio del suo Progetto di Costituzione. Non si trattava che di metterlo in pratica, ora che l'occasione si presentava propizia. La Chiesa ne avrebbe guadagnato, ed il Papato si sarebbe consolidato nell'animo grato degli italiani. L'entusiasta Pio IX anche lui così la pensava, ed avrebbe voluto fare, pronto com'era a cedere agl'impulsi della passione e del cuore. Non avrebbe fatto d'altronde che ripetere quanto già nel marzo aveva fatto, lui assieme agli altri Principi italiani. Il lettore vorrà risparmiarci di rammentargli che nella primavera-estate del 1848, in seguito alle pressioni di piazza, quasi tutti i Principi italiani avevano concesso la Costituzione (il sogno di 30 anni degli italiani!), senza peraltro dimenticare che tale concessione fu ritirata non appena le circostanze che l'avevan determinata venivan ad esser lontane ed abbandonate. Aveva cominciato dapprima (15 maggio) il Regno di Napoli a rimangiarsela, ora lo stesso Pontefice stava rimangiandosela, mentre altri (e fra questi il Piemonte) la mantenevano a scopo di propaganda e quale centro di polarizzazione delle forze liberali italiane. Il R. era capitato a Roma mentre il processo di involuzione era già incominciato (29 aprile) anche da parte del Papa; il quale, debole d'animo e pauroso, ogni giorno di più veniva circuito dalla politica reazionaria e volpina del cardinale Antonelli, a doppio nodo legato all'Austria di Metternich ed ai Borboni. La breve parentesi del Ministero Rossi sembrò favorire il Rosmini ne' suoi progetti; ma tutto precipitò allorché avvenne l'assassinio del Rossi medesimo (15 novembre 1848) ed, in seguito ai tumulti popolari, il Papa dové fuggire a Gaeta ospite del Re di Napoli. Nell'esilio il Papa fu maggiormente padroneggiato dall'Antonelli, il quale diventò senz'altro l'arbitro, non solo della politica papale, ma di quella napolitana pure, che accentuò i suoi caratteri conservatori e reazionari nell'acerba lotta contro il Piemonte giobertiano, il quale non ancora aveva abbandonati i suoi propositi confederali; che voleva di nuovo far accettare col postulare il proposito di correre in difesa dello Stato pontificio a mano armata, contro le orde rivoluzionarie delle "teste bruciate". Ciò non ostante né Roma né Napoli abboccarono all'amo; vollero anzi troncare ogni rapporto diplomatico rifiutando (quest'ultima) di ricevere le credenziali dell'ambasciatore piemontese presso il Regno delle Due Sicilie, l'avv. Plezza, ingiustamente asserendo che nel Parlamento subalpino aveva costui pronunciate parole irriverenti contro il Re di Napoli. La cosa non era vera, ma agli effetti pratici ebbe gli stessi risultati, poiché né il Plezza né il Talleyrand (duca Dino di), altro inviato dal Governo piemontese proposto in sostituzione del Plezza, furono ricevuti. (Vedi la questione nell'ottimo libriccino dell'ANZILOTTI, La funzione del Giobertismo, Appendice). Noi crediamo che si debbano vedere in questo rifiuto le conseguenze dell'azione combinata del Metternich e dell'Antonelli; comunque lo stesso Gioberti era forse del nostro parere allorché annotava che "il Governo sardo era stato calunniato, attribuendogli il proposito di dividere il dominio della Chiesa" (ANZILOTTI, Funz., p. 54, nota). Colla disgrazia politica capitata alla missione ricevuta (alla quale, del resto, il R. aveva rinunciato sin dall'ottobre (11), 1848), andò parallela la disgrazia personale del Rosmini prelato, al quale fu negata la porpora che solennemente lo stesso Papa gli aveva promessa e per la quale il Rosmini aveva già fatte delle spese (una cinquantina di mille lire buttate all'aria!); mentre due suoi libercoli furon dall'Antonelli fatti mettere all'Indice. I due libercoli sono il Progetto di Costituzione e Delle cinque piaghe della Chiesa, e trattano questioni politiche civili e religiose. Ottenuto finalmente, dopo molte stupide traversie, di poter ritornare nella pace della sua Lombardia, il R. nell'agosto del 1849 partì da Caserta per stabilirsi nella sua diletta Stresa. In tal modo la sua missione diplomatica era finita, in uno colla sua attività politica. Forse non anco il suo sogno era finito, nonostante il rapido cangiar degli avvenimenti. Se il ricordo del breve tirocinio politico del Rosmini ci può ancor una volta offrire l'occasione di constatare l'incapacità liberatrice-unitaria del Federalismo, non per ciò dobbiamo dispensarci dal considerare il sistema politico a cui tale incapacità è conseguita; poiché forse in esso troveremo quella vita che qui abbiamo visto languire. Il pensatore politico.Le opere politiche vere e proprie del R. sono il trattato Della sommaria cagione per la quali stanno o rovinano le umane società (1837), il ragionamento sul Comunismo ed il socialismo (1847), ed il progetto di Costituzione secondo la Giustizia sociale (1848). In un altro senso anche il trattato Delle cinque piaghe della Santa Chiesa (1849) è un'opera politica in quanto v'è postulato il primitivo ordinamento democratico della Chiesa, col patrocinato rivendicamento del diritto d'elezione dei Vescovi al popolo ed al clero. Abbiamo visto d'altronde che democratici-cristiani italiani ed i modernisti non han esitato d'appropriarsi gli argomenti del Rosmini nel tentativo da loro fatto di rammodernare la vecchia Casa di Pietro. In questo senso tale libro ha avuto un'efficacia politica; nel senso di strappare ai Principi il diritto di nomina dei vescovi, la sua importanza è stata del tutto negativa, altrettanto che il patrocinato ritorno alle origini. Non occupiamoci dunque di questi tentativi falliti: anche se dobbiamo riconoscere la generosità e liberalità dell'anima che li ha concepiti. Possiamo inoltre fondere i due libercoli sulla Costituzione e sul Comunismo, inquantoché in essi è ancora una volta chiarita la concezione dal R. formulata nella Sommaria cagione, che fa loro da base. Consideriamoli quindi globalmente tutti e tre, prendendo come punto di riferimento il Progetto di Costituzione, come quello in cui le idee politiche del Nostro sono meglio formulate e dichiarate. Nella concezione rosminiana esistono tre società: 1) la Teocratica, riguardante la persona umana in quel che ha di più intimo e spirituale (Io, anima, Divinità); 2) la Famigliare, riguardante la vita fisica, la razza, gli interessi ed i bisogni degli uomini; 3) la Civile, che ha lo scopo di coordinare le due precedenti secondo i dettami della Giustizia. Subordinata inoltre la società famigliare così alla teocratica quanto alla civile, restano solo due realtà a costituire la società. Queste due realtà sono: 1) la persona umana; 2) la Giustizia. Su questi due piloni è fondato il sistema politico del Rosmini, ed il suo Progetto di Costituzione. In termini ancora più empirici la persona umana dà luogo alla proprietà, alla vita famigliare, alla vita politica delle comunità e dei Principati; la Giustizia all'ordinamento civile della società. Così, mentre la funzione di quest'ultima non si riduce che a creare delle modalità secondo le quali le divergenze d'interessi ed altre devono sboccare in una soluzione armonica; tutte le funzioni inerenti alla vita personale e famigliare devono "doverosamente" subordinarsi alla società teocratica, alla Chiesa, la quale per divino volere presiede ai destini dell'umanità, i cui voleri coordina ad un fine: quello della espiazione e della salvezza. Per l'illazione che spontanea da ciò scaturisce, il R. afferma che la società civile è basata sopra un contratto, i cui contraenti sono i padri (i proprietari); i quali s'uniscono esclusivamente per uno scopo: quello di conservare i loro diritti. Perciò solo ai padri è concesso il diritto di voto nel suo Progetto di Costituzione: e per padri intende non soltanto coloro che per sesso e per età possono essere elettori, ma tutti quelli che godono i benefici d'una proprietà, della proprietà. Poiché, secondo il R., solo i contribuenti hanno diritto d'amministrare lo Stato, inquantoché lo Stato non d'altro è formato che dal cumulo delle singole proprietà. Si veda pertanto in ciò un ricordo dell'antica società romana, colle sue tipiche divisioni di nobili, cavalieri, nullatenenti, liberti, schiavi; ed anche di quelle dei nostri Comuni medioevali, al cui tipo sembra che il R. sia rimasto. Inutile ci sembra d'aggiungere che il sistema politico realistico del R. necessariamente non sarebbe potuto finire che nella plutocrazia (nel governo della plutocrazia) colla postulata concentrazione dei maggiori proprietari nel Senato che, come la Camera bassa, avrebbe dovuto anche lui essere elettivo. Questo risultato non si sarebbe inoltre potuto evitare, qualora si fosse messo in pratica il postulato rosminiano dell'elettorato proporzionale basato sui contributi diretti pagati allo Stato, secondo i quali un solo cittadino avrebbe potuto auto-eleggersi; mentre i nulla tenenti, la grande massa degli operai e dei contribuenti non diretti non avrebbe neppure la possibilità di mandare magari un solo de' suoi rappresentanti in Parlamento, quantunque dal dovere sociale fosse tenuta a prestare e il servizio militare e le altre meno gravi prestazioni richieste a tutti indistintamente i cittadini. Strana concezione davvero del diritto codesta, che fa obbligo ai cittadini nullatenenti di dare sin la vita, mentre non si concede loro il diritto di voto: come se anche la vita non fosse una proprietà che viene colla morte annullata, e col dispensarla da un lavoro redditizio, diminuita nella sua capacità produttiva; - economicamente: nella sua ricchezza, nel suo valore! Invero tale disistima della grande massa discendeva non soltanto dalla sua "papale" concezione della vita, secondo la quale "la società civile inverso a tutti quelli che nulla contribuiscono non è, e non può essere altro che una società benefica"; ma anche dal suo misconoscimento dello Stato moderno quale era emerso e dalla rivoluzione protestante e dalla rivoluzione francese. In tutti i suoi scritti politici egli incita infatti gli italiani a darsi una Costituzione "italiana" e non francese: madre di tutte le sventure politiche del secolo e delle aberrateti eresie del comunismo e dell'anarchia. Tutto il suo Ragionamento sul Comunismo del 1817 è basato su questa idea corroborata dalla constatazione che la confusione allora fatta tra uguaglianza naturale ed uguaglianza civile sia stato il segnale d'inizio della nuova eresia. Tali, per sommi capi, sono pure sullo stesso soggetto le idee del suo amico e scolaro il marchese Gustavo Benso di Cavour (fratello del grande statista piemontese), il quale nel 1816 pubblicò un saggio sulle Idées communistes et des moyens d'en combattre. Notevole il fatto che tanto il Benso che il R., pur arrivando alla conclusione "papale" della soluzione mediante la beneficenza del problema sociale, ammettono la fondatezza delle teorie malthusiane, per incitare gli italiani a metterle, nella dovuta misura, s'intende, in pratica. Questo non induca nessuno in maraviglia: per i "papali" l'elemento popolazione è sempre uno dei maggiori nel loro sistema economico: essi hanno bisogno di considerare gli uomini quale una muta numerosa di "Pezzenti" inverso i quali è "cristiano dovere" esercitare la carità. Giova sottolineare di tale concezione i caratteri schiavistici, aristocratici e pagani, passati nella Chiesa quale eredità di Roma, e in essa rimasti, nonostante l'azione liberatrice dell'economia capitalista. Sull'eredità pagana sarebbe troppo bello e troppo lungo parlare: basta questo semplice richiamo. A tale eredità comune il R. aggiungeva i suoi sentimenti di possidente roveretano; sostenuti dalla solida impalcatura della sua filosofia spinta all'esigenza realistica ed intellettualista del "lombardo Antonio Rosmini" a stabilire leggi e gerarchie, che altro sono infatti le sue idee ed i suoi Tipi? Inutile aggiungere che tutto ciò menava dritto dritto al conservatorismo, il quale non cessava d'esser tale anche se chi lo sentiva si professava progressista e liberale. La sua concezione della vita non poteva non essere statica, negatrice com'era dell'importanza storica della massa, nelle sue varie espressioni di potenza produttiva, rivoluzionaria e militare; ed assertrice com'era della superiorità indiscussa dalle ragione: sapienza e giustizia; sulla passione: comunismo, eresia e barbarie. Giunti a questo punto bisogna far parola del secondo pilone del suo sistema politico: il pilone Giustizia, nel suo Progetto di Costituzione incarnato nella Suprema Corte di Giustizia politica avente diritto di controllo e di veto sulle deliberazioni dei due Parlamenti Confederali, ed espressione di una Dieta nazionale presieduta dal Sommo Pontefice. Ad essa avrebbero potuto ricorrere tutti, enti politici e cittadini, per ottenere quella giustizia che i Parlamenti e lo stesso Sovrano avessero eventualmente violata. È chiaro pertanto che tal Dieta sarebbe venuta ad essere il vero Parlamento ed il vero Governo del Paese, ed il Pontefice il vero Sovrano della Confederazione nazionale; in seno alla quale, come giustamente notava Pellegrino Rossi, i "buoni e generosi" Principi italiani non altra importanza avrebbero avuta nei loro Stati (che il R. voleva conservare nella loro struttura), che Prefetti e Vice-prefetti addetti al Governo d'una provincia o regione parte d'un Regno non più loro. Logica quindi appare la sconfitta che anche riguardo a ciò il Progetto del Rosmini dové subire. La realtà a cui tanto spesso faceva appello si vendicò della sua ideologia. Era questa la seconda sconfitta nel campo della politica del fondatore dell'Istituto della Carità, e la definitiva del neo-guelfismo, dopo quella diplomatica dall'Antonelli fatta infliggere al Gioberti dalla Corte borbonica. Anche pel R. "definitiva"? Non crediamo, se ancora oggi é possibile sentire nella lotta sostenuta da Sturzo e dai popolari contro lo Stato panteista e per l'autonomia degli Enti locali, l'eco di quella sostenuta dal Rosmini contro la Costituzione di tipo francese (accentratrice), in favore di quella Confederazione italiana basata sul voto reale e proporzionale, il quale in altro modo tanto sa pure della sturziana richiesta del giuridico riconoscimento delle classi, inizio di quello Stato sindacale diventato di recente oggetto di studio dei 18 Soloni. L'influenza rosminiana, meglio, punti di contatto tra il pensiero politico del filosofo roveretano, ed il programma del Partito Popolare si possono vedere nella richiesta da quest'ultimo avanzata del Senato elettivo, nonché della libertà della Chiesa, e del funzionamento del latifondo in favore della piccola proprietà agraria, base anche pei popolari di quella classe di piccoli proprietari rurali destinata ad essere la spina dorsale della nuova Italia, nonché la remora contro l'incipiente sfasciamento rivoluzionario della società (bolscevismo). Fugacemente accennata tale storica ed ideale continuità, dobbiamo alfine chiederci qual'è stata l'importanza del R. nel Risorgimento. Il nostro lungo ragionamento speriamo l'abbia in parte chiarita; certo non fu piccola, allorché si consideri che solo o quasi il R. ebbe l'ardire d'opporsi alla corrente di pensiero d'oltre monte; al comunismo ed alla barbarie, com'egli si compiaceva di dire, alla statolatria degl'idealisti e dei giacobini diremmo noi, ed alla violenta passionalità dei romantici della politica. Significativo il fatto che tale lotta sia stata sostenuta in nome dell'italianità e della "serietà lombarda", giacché se anche chi la sostenne fui sconfitto, la realtà sulla quale si basava non fu peraltro annullata. Nel R. era l'Italia che lottava; l'Italia "quale l'hanno fatta i suoi quattordici secoli d'invasioni straniere, di dissoluzione, d'individuale azione, di parziale organizzazione e d'intestina divisione"; era l'Italia reale "colla sua schiena dell'Appennino nel mezzo, colle sue maremme, colla sua figura di stivale, colla varietà delle sue stirpi non fuse ancora in una sola, colle differenze de' suoi climi, delle sue consuetudini, delle sue educazioni, de' suoi governi, de' suoi cento dialetti" (1); era in fondo il rappresentante d'una classe dirigente consapevole i cui uomini s'eran chiamati Manzoni e Verri, Galiani e Cuoco, che lottava contro la ideale sopraffazione dello straniero, per conservare integri i valori della nazione. In virtù di ciò è ancora permesso a noi suoi tardi nepoti d'onorarne col solo ricordo la memoria; oggi almeno in cui appare, nonostante la caducità dell'ideologia a cui aveva dato luogo, esatta e giusta la valutazione dell'Italia de' suoi tempi che è ancora un poco quella dei tempi nostri. ARMANDO CAVALLI.
(1)Una eloquente concomitanza di pensiero i può riscontrare riguardo a ciò in quanto ha lasciato scritto l'anti-unitario Proudhon nelle sue Nouvelles observations sur l'Unité italienne. Paris, Dentu, 1865. Si vedano specialmente i capp. I, II e III, nei quali gli argomenti geografici, etnografici e storici anti-unitari sono particolarmente trattati.
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