Turati

    Dal pubblico affollato nell'attesa che un oratore d'opposizione inizi il suo dire, parte un applauso caldo. È chiaro; entra l'onorevole Turati. La figura tozza e bonaria del deputato milanese passa sorridendo tra i plaudenti e rispondendo con lepide barzellette agli amici i quali, con una parola confidenziale, con un saluto più cordiale, con un gesto procurano di metter bene in mostra l'intimità dei rapporti particolari che li legano al beniamino della folla.

    Nessuno però dei numerosi ammiratori mostra d'esser geloso di questi sfoghi ingenui della altrui vanità, perché Turati è di tutto il pubblico, di tutto il suo pubblico. Lo si sa pronto a rispondere con perfetta giustizia distributiva alla cortesia da chiunque gli venga rivolta; lo si sa rassegnato e sottomesso alle noie inevitabili della popolarità.

    E quando l'oratore ufficiale si è spicciato, sorge sempre una voce insistente e subito raccolta e ripetuta; Turati, parli Turati.

    Il deputato non si schermisce a lungo, mai; con un sorriso indulgente che scivola dalle labbra carnose nella barba brizzolata, sale, meglio, viene issato, sul tavolino più prossimo - par che ve ne sia sempre uno pronto alla bisogna - e, premesso di voler esser breve per non sembrare indiscreto e scortese verso il pubblico, parla. Di solito si riallaccia con felice improvvisazione a quanto l'oratore ha detto; si ferma volentieri nel vago, nell'indistinto, nel generico; condisce il discorso di qualche parola scherzosa che solleva dall'uditorio un riso cordiale e pulitamente educato; ma giunge sempre con sincero e malcelato accento di commozione al felice spunto finale che strappa al suo uditorio l'applauso caldo, il grido d'entusiasmo.

    Intorno a lui sempre un'atmosfera calda di simpatia e di consenso.





    Pure Turati politicamente non sa dirci nulla di nuovo. E quando infatti tenta l'analisi politica della situazione, l'approvazione immancabile giunge solo dopo un attimo di esitazione. Successo di stima allora? No; ma v'è un vuoto che la sua costruzione logica non riesce a colmare e un istante involontario di perplessità.

    In questo caotico e difficile momento della politica italiana egli appare un trascinato non un trascinatore.

    La sua lunga carriera di riformista - il riformismo in lui è una seconda natura - il suo socialismo piccolo borghese e sentimentale esercitatosi in gran parte nell'atmosfera giolittiana, non hanno potuto plasmarlo per questa dura, aspra, ardua vigilia di una democrazia liberale. Turati è stato il precursore che a tanta parte di un popolo bamboleggiante e impreparato ha insegnato paternamente i rudimenti politici; non può però essere il creatore di un novus ordo nel quale l'autogoverno sia base fondamentale, poiché la vita moderna che vuol essere conquista ed austero esercizio del dovere politico per l'affermazione dei propri diritti, impone una spietata forza volitiva che chi agisce solo per impulsi sentimentali generalmente non possiede o non sa dare.

    Pure, ripetiamo, intorno a Turati aleggia indistrutto il favore della folla. Il suo ottimismo facile, spontaneo, insopprimibile, ne è la causa prima. Le frequenti riserve incidentali che non mancano mai nel suo discorso, non riescono a soffocare il soffio della speranza, della convinta fiducia che ne scaturisce. La sua grande fede nel popolo ch'egli vede traverso la sua persona, l'onestà e la profonda candida ingenuità dell'animo suo gli fa scorgere, anche nei momenti più oscuri, nei quali il dubbio più forte stringe l'uomo d'azione, il sorgere di un bene prossimo, vicino; gli fa talvolta sopravalutare il cammino percorso. I disinganni frequenti non son riusciti a mutare questa sua natura.

    Tutto ciò piace alla maggior parte del popolo italiano; perché il popolo italiano è tutto permeato di ottimismo.





    Non sa reggere alle lunghe vigilie; non sa la bellezza dell'aspro cammino contro corrente; ha bisogno di sentirsi lieto, di non aver il cervello e il cuore ingombri di preoccupazioni soverchie. Non per nulla il mito scherzoso dello stellone trova tanti entusiasti assertori. Abituato a trovare fuori di sé (anche se contro di sé) la soluzione dei più difficili problemi della sua esistenza storica, spera sempre nel meglio e l'attende quasi con fatalismo orientale; nell'attesa fiduciosa trova la quiete ambita facendo conto specialmente sul suo grande spirito di adattamento. Questo lo rende incapace di un volontario impeto di ribellione, gli vieta di assurgere alle sfere infocate del dramma di che è intessuta l'esistenza di una moderna democrazia, lo costringe a baloccarsi col riformismo, col paternalismo, con lo statalismo, con tutti gli ismi oppiacei che son stati sino a ieri base principale del suo alimento culturale economico e politico.

    Un mutamento forse è in atto, ma sarà necessariamente lento. Oggi il popolo nostro con aria ancora trasognata sta sperimentando come libertà, potenza, prosperità, sian frutto di una riconquista senza fine, non doni; riconquista difficile, sanguinosa, cosciente; come popolo e Stato sian tutt'uno, come solo in se stesso possa e debba cercare forze nuove e con esse valide condizioni per la sua ascesi storica.

    Sono i primi incerti passi, le prime incerte mosse in un campo d'azione sino a ieri sconosciuto. Ma occorron nuove guide, nuovi condottieri. I vecchi rimangono nel folto dell'esercito marciante come simboli di un passato che non si può e non si deve rinnegare, legati ai nuovi da un vincolo di affetto indissolubile.

    Verso di essi sale ancora venerazione e riconoscenza, ma essi non possono più darci il comando, non possono più indicarci la mèta lontana che sfugge al loro sguardo statico, non però al cuore e al desiderio.

RICCARDO BAUER.