La crisi del 1922

vista da un popolare.

    Sugli anni 1919-1924 un giovane scrittore popolare, V. G. Galati, ha scritto un saggio politico che sta per uscire presso la nostra Casa Editrice con prefazione di A. Anile. Prima che il libro sia pubblicato, offriamo ai lettori queste pagine caratteristiche con uno sforzo di comprensione storica. Il volume, Religione e Politica, si può avere contro vaglia di L. 10.


    Quale la causa fondamentale della sconfitta del '22 che congloba liberalismo e democrazia in una responsabilità, che la storia giudicherà severamente? Lo storico futuro potrà meglio studiare nella crisi del dopo-guerra il dissolversi di certe forze prima dominanti nella politica italiana. Ma anche a noi è possibile vedere con chiarezza il punto vulnerabile della disfatta demo-liberale del '21, che si ripercuote nel '22, e che peserà lungamente sul paese. Quale, infatti, era stato l'atteggiamento del liberalismo italiano in quella questione sociale, che è il centro verso cui gravitano chiaramente o inconsapevolmente le forze politiche dell'Europa, dall'oriente all'occidente? Scosso dall'improvviso e impetuoso apparire dell'Internazionale e del marxismo, il liberalismo europee assunse posizione difensiva e repressiva, opponendosi sistematicamente all'incedere delle forze proletarie nella vita pubblica. Quando, poi, l'aggressività proletaria si fece più minacciosa col crescere della sua organizzazione, dove vi furono acuti calcolatori politici, si venne ad una modesta politica di concessioni a carattere economico (come sotto Napoleone III), che si risolveva non a indebolire la compagine della classe dominante, ma a rafforzarla. La lotta del liberalismo si fece inflessibile contro il socialismo politico, più che contro quello economico, che poteva rendere buoni servizi alle classi al potere.





    In Italia giova ricordare che, sin dall'ultimo quarto del secolo scorso, vi furono uomini pensosi, come il Minghetti, dei nuovi problemi sociali, i quali tentarono avviare a delle soluzioni progressive e di compromesso, lodevoli in chi del liberalismo era tenace sostenitore. Su questa via, più che per convinzione, mosso dal desiderio di mantenere il potere, si pose anche il Giolitti. Ma, come più volte ho notato innanzi, senza la totale visione di quella che realmente è nel mondo attuale, ed era sin dalla seconda metà del secolo XIX, la "questione sociale". La quale non nasceva dall'artifizio di teorici come il Marx, l'Engels, il Bakounine ed altri, ma da uno stato reale di disagio materiale, che, ora, assumeva il carattere suo più pericoloso di disagio morale.

    La nuova struttura industriale favorisce enormemente la posizione proletaria nella lotta, sì che è da folli illudersi di poterla fronteggiare con gli antichi metodi repressivi, anche perché lo spirito di equità, diffuso in tutti gli strati sociali, considera il proletario come cittadino integro nei suoi diritti di fronte a tutti i cittadini. Il progresso civile e morale, raggiunto nell'età moderna, che pur sembra definitivamente perduto nell'irrompere degl'istinti bestiali della collettività, è tuttavia vivo nelle coscienze e insorge quando più sembra perduto.

    Di fronte a questo formidabile problema, che mette in forse il dominio delle vecchie classi e forza i traguardi dei vecchi confini tra gli uomini, in Italia, e forse dovunque, non vi sono che due vie possibili ai dirigenti: o la lotta senza quartiere, negando qualsiasi diritto alle forze proletarie, o la limitazione delle loro pretese nell'ordine armonico della società. La prima via conduce al fallimento sicuro perché, per vincere le forze proletarie, bisognerebbe opprimerle; l'altra riconosce i giusti diritti - giusti in ordine progressivo di conquista - delle classi popolari, diminuendo il privilegio della borghesia.





    Nell'immediato dopo-guerra la questione sociale si presentò minacciosa sino alla integrale richiesta rivoluzionaria. Affrontarla e reprimerla sanguinosamente, sarebbe stato da folli; e fors'anche lanciare il paese nell'anarchia, con dubbia vittoria - nel 919-20 - dello Stato su le masse sovversive. Circoscriverla, fu un calcolo di buoni strateghi. Ma nei dirigenti mancò la forza potente della convinzione nei giusti diritti del proletariato. In fondo anche in Nitti, che calcolò più degli altri la logica dell'avvento delle forze popolari, sincera convinzione, che genera sincero amore, non vi fu mai. Il demoliberale di Basilicata fu un calcolatore, che cede per necessità, spessissimo per incertezza, molte volte per errore. Ed era inevitabile la sua sconfitta per la insoddisfazione di tutti. Giolitti invece, corroso dal suo sistema di governare, esigente una Camera addomesticata sino alla più squallida abulia, dopo aver provato la giusta strada della collaborazione, quando si accorse ch'essa costringeva a nuove concessioni, al riconoscimento di nuove capacità, cedette alla borghesia industriale e terriera, che si lanciava disperatamente con i miliardi male guadagnati durante la guerra, a difendere le posizioni raggiunte. La lotta di classe, sempre in atto, diveniva così rabbiosa e feroce. Il Bolscevico dell'Annunziata, che s'era abilmente lodato di voler portare i socialisti al potere, abbandonava agl'industriali, cui voleva confiscare gli extra-profitti, il suo povero cencio di ricatto rosso! E così la tragedia post-bellica assumeva lo spasimo disperato della guerra civile!

    Sorge qui la domanda: per quale ragione Giolitti cedette all'ingannevole calcolo di abbattere il socialismo? Innanzi tutto egli non misurò la portata della sua diserzione. S'illuse che il liberalismo avrebbe tenuto il fascismo come un figliuolo irrequieto, utile per impaurire gli avversari, e pronto a sottomettersi con poche carezze (leggi alcuni portafogli e sottoportafogli...) e qualche scapaccione. Poi, sempre per la sua organica malattia parlamentaristica, non comprese due fatti nuovi, i due fatti nuovi della vita politica italiana: la proporzionale e il partito popolare.





    Si ripete ancora, benché in tono molto minore, che la causa del disordine parlamentare del dopoguerra sia stata la proporzionale, rendendola responsabile delle difficoltà di formare una maggioranza sicura. Anche Giolitti fu di questo parere. Ma non è troppo semplicista attribuire la colpa si due grandi partiti organizzati - il popolare e il socialista - del disagio degl'infiniti gruppi liberali e democratici, che si contendevano il potere?

    Come - se socialisti e popolari nel 1919 possedevano 250 deputati - affermare in buona fede o in piena intelligenza, che se la maggioranza non si raggiungeva ne erano responsabili i due partiti organizzati e non gli altri gruppi che, per la loro organica malattia, non riuscivano a unirsi? Tanto più che i due partiti bersagliati non erano affatto d'accordo. Sì che in Parlamento il sovversivismo non contava che 156 deputati contro una massa di 379 costituzionali. La verità è un'altra, dunque, e sovra tutto è connessa alla valutazione errata che i vecchi partiti fecero del popolarismo. Il quale, portando una massa di 1.175.552 cattolici alle urne, nella vita parlamentare spostava irrimediabilmente le forze e gli obiettivi politici italiani; e il gioco liberale tenuto verso i socialisti non era possibile con i popolari per l'origine e le finalità opposte degli uni e degli altri. Il popolarismo, partito essenzialmente costituzionale - o legalitario conte direbbe Guglielmo Ferrero - s'inseriva senza forzare le sbarre nella compagine politica e direttiva del paese; il socialismo invece ne restava fuori per principi e per tattica. Questo voleva la rivoluzione, quello era sorto per frenarla e risolvere nell'ordine la crisi accelerata dal dinamismo della guerra. Entrambi antiliberali, si contendevano le forze su cui contavano la rivoluzione e l'antirivoluzione: il proletariato. In questa diversa conformazione spirituale non seppero vedere, o non vollero, i liberali. Nel popolarismo, che si affermava improvvisamente con 100 deputati, dietro i quali stavano potenti organizzazioni economiche e sindacali, videro il pericoloso rivale che li avrebbe scacciati dai sicuri collegi, lavorati con tanta cura. Piccoli uomini senza capacità sintetiche, dissertatori parolai e abulici della "grandezza" d'Italia nelle sagre e nelle lettere agli elettori, sempre più lontani dal tumulto dell'anima italiana, protesa per tutte le vie a nuove formazioni e conquiste, vagheggiarono il ritorno al "patto Gentiloni". Si erano infatti adagiati comodamente in quel compromesso, che alleava gli esaltatori della conquista di Roma e i deploratori; senza comprendere che in quel patto si quietava, non si risolveva una tragica crisi di coscienza dei cattolici, per la quale questi agivano nel campo organizzativo e si preparavano ai nuovi cimenti.





    Estranei e incapaci, i liberali godevano di una comoda situazione che favoriva i loro interessi e le loro vanità, ignari che la vita politica, anche quando più si svolge pacifica, è forza dinamica in elaborazione, che dovrà scoppiare. Con la mentalità e la preoccupazione del buon mercante che vede fallire l'affare, i liberali tanto meno potevano comprendere la "sostanza" politica del popolarismo, e si diedero ad abbatterlo inconsideratamente, mentre abbattevano sé stessi. È dei liberali il motto sovversivo: "Meglio i socialisti che i popolari!"; e nella spontaneità dello stile semplificatore, si rivela tutto lo spirito che li animò nella lotta politica del dopo-guerra. Più strano ancora il loro livore se si pensi che l'ostruzionismo parlamentare socialista fu affrontato e vinto dai popolari, che insorgevano - orribile dictu! - per difendere contro Lenin la Costituzione di Re Carlo Alberto. Evidentemente, più che del pubblico bene e della patria, i liberali erano pensosi delle loro clientele. Si trattava di bottega dove si ciarlava di patriottismo.

    In questa incomprensione e in questa lotta di clientele, la sostanza viva del popolarismo venne trascurata e diffamata. In fondo i cattolici, conscii della gravità dell'ora, più vicini al proletariato per l'appassionato e lungo studio della questione sociale, sorgevano provvidenzialmente per allontanare dall'Italia l'onda di fuoco che dalla Russia minacciava il mondo e l'Europa in ispecie. Ma per essi, ricostruire ciò che la guerra aveva distrutto, non poteva logicamente - e per coscienza - significare restaurare un ordine che riprovavano e che ricadeva in gran parte a danno delle classi umili; bensì, ristabilire l'armonia delle classi, dando a quelle più povere una condizione di vita capace di sviluppare le loro facoltà rigeneratrici. Non si trattava, insomma di una posizione conservatrice vecchio stile, ma conservando i cardini sociali, rinnovatrice ed antirivoluzionaria; dinamica per eccellenza. Il liberalismo era costituzionalmente negato a comprendere e ad accettare una via così chiara e sicura di rigenerazione. Il Luzzatti, che pure ha il grande merito di avere sparso il seme del cooperativismo in Italia, nel discorso al Quirino per i blocchi sacrificatori dell'ultima possibilità utile di governo del 1921, non fece che ripresentare il vecchio cliché del liberalismo, che si atteggia a custode e suscitatore di democrazia, ma uccide ogni riforma veramente capace di creare uno stato a regime democratico. In quella grande crisi, invece, urgeva una larghezza di vedute adeguata. Il còmpito non era di cantare le glorie patrie e di accennare a riforme, ma di concretare vigorosamente un programma di vero elevamento delle classi meno abbienti, recidendo i rami secchi della borghesia industriale e terriera, senza per ciò minimamente incidere il principio di libertà, che, per essere vero e uno, non può imprigionare e uccidere le classi. Urgeva, quindi, una fede nel divenire delle classi proletarie, che al liberalismo mancava.





    In Italia, dal '70 a oggi, abbiamo avuta una politica particolaristica e regionale, quando addirittura non provinciale, e quindi non nazionale nel senso di conciliare nelle vaste linee degli interessi collettivi quelli particolari delle classi e delle regioni. La struttura economica del paese è certo causa di questo organico male, che imprigiona la politica italiana; la quale trionferà soltanto se, ponendosi su le vie diritte dell'interesse nazionale, riuscirà gradualmente a superarlo. Chi volesse istruirsi su la esattezza di questo giudizio, potrebbe farlo agevolmente studiando la legislazione economica italiana dal '70 a oggi, e troverebbe questo costante fenomeno: che i varii governi - per mantenersi al potere - hanno dovuto modellare la loro opera legislativa ora su gl'interessi particolari degli agrari della Val Padana - demagoghi peggiori degli altri quando han credute utile agitare le masse per ottenere i privilegi inerenti alla valorizzazione del latifondo -; ora su quelli di questa o di quell'altra categoria d'industrie accentrata nelle regioni settentrionali: e così via di seguito. Unità, linea, son mancate sempre. E bisogna ricercarle. E ricercarle sovra tutto nella formazione di partiti nazionali, non personali e regionali: o si continuerà disperatamente a vivere nel carnevale delle fazioni, cianciando inutilmente di "grande potenza", e suscitando l'allegra risata degli stranieri.

V. G. GALATI.