Storia di un secoloVecchia di una esperienza otto volte secolare, la dinastia piemontese si presenta alla soglia del decimonono secolo priva di regno. Anche degli ori e dei gioielli della Corona era stato privato l'ultimo re del Piemonte dai luogotenenti del Buonaparte; e ridotto a scontare in terra d'esilio la propria personale miseria, ed il peccato d'appartenere ad una razza logora, cerca invano consolazione nelle povere parole della sua santa moglie Clotilde. Tradito da tutti e giocato, come avviene coi deboli, Carlo Emanuele IV nel 1802 è costretto ad abdicare ed a cambiare l'ermellino reale colla funerea veste del novizio gesuita, per rimaner tale fido al 1819 e languirvi, "cieco, senza denti, con poco fiato e meno giudizio", com'egli stesso scriveva al San Marzano nel 1815. Dalle mani d'un notaio ed in presenza di due testimoni convenuti nelle stanze d'una privata dimora romana, Vittorio Emanuele I riceve la Corona reale; e si ritira giù in Sardegna, fra pastori e caprari, in umile silenzio, da buon uomo qual era. Era costui il padre dell'Italo Amleto ed il fratello del quarto Carlo Emanuele. Altra aspirazione forse non avrebbe avuto che di rimanere fra i suoi isolani Sardignoli; se alla caduta di Napoleone le Potenze occidentali alleate non avessero avuto bisogno del Piemonte quale d'un muro da frapporre all'avanzata della Francia verso i nostri mari, e quale un cuneo da porre tra Austria e Francia per tenerle in iscacco entrambi. Fu in grazia di ciò che Vittorio Emanuele I diventò di fatto Re della Sardegna e del Piemonte; ma di fatto per modo di dire, poiché dietro il paravento della sua Corona stavano effettivamente l'Austria e l'Inghilterra, a cui le terre dell'ex-repubblica Cisalpina dovevan eventualmente servire quale luogo d'accantonamento d'armati, e campo di battaglia. Il vizio di tale origine non poteva non pesare sul nuovo Regno, e renderlo fragile ai primi urti che fosse per ricevere; nel tempo stesso che la coscienza di tale sua fragilità non poteva non mettere negli animi del suoi sudditi. La congiura del 1821 e la relativa abdicazione di Vittorio Emanuele I bisogna spiegare con ciò: al modo stesso che bisogna con ciò spiegare la parte avuta dal principe di Carignano negli avvenimenti. Forse un eccesso di impulsività ed un abbandono all'odio contro l'Austria che umiliava la Sua Casa fu lo stato d'animo del Principe, che non per altro che per utilità accettò l'invito dei liberali, forse sperando di poter ricavare dalla loro propaganda per l'indipendenza e l'unità, i cardini sopra i quali far girare i suoi desideri d'espansione nel Lombardo-Veneto, che rimase la preoccupazione precipua della sua vita. Il fallimento dell'impresa viziò per sempre il già vacillante temperamento del Principe; che finì per essere inviso tanto ai liberali che ai Principi ed alla Corte, dalla quale fu sbandito fino alla morte di suo zio il Re Carlo Felice (1831). Da questa data fino alla sua abdicazione l'attività politica di Carlo Alberto fu caratterizzata dalla lotta contro l'Austria per la Lombardia, in ciò aiutato dal tacito favore dell'Inghilterra, e dal consenso dei liberali che in lui volevan soltanto vedere l'elargitore dello Statuto ed il riformatore che aveva compiuto il trapasso dalla feudalità alla Costituzione. Effettivamente a questa come all'unità e da supporre che credesse poco; se no, di più avrebbe curato il suo esercito, che avrebbe continuato a guidare anche dopo la sconfitta di Novara (che forse non sarebbe avvenuta); ed il suo Regno, che nonostante il rovescio militare gli era rimasto fedele. È probabile che Carlo Alberto abbia elargita la Costituzione perché altri due Principi Regnanti l'avevano elargita: Ferdinando di Napoli e di Pio IX; i quali non meno di lui erano preoccupati di smontare con riforme e pannicelli caldi, i bollori rivoluzionari della parte rumorosa del popolo e della borghesia urbana, la cui passione si voleva e si credeva di poter sfruttare. Messisi fuor di contesa Pio IX e Ferdinando, non rimase sul campo a raccogliere i frutti e gli allori che Carlo Alberto, il quale però fu schiacciato dagli avvenimenti e dovette anche lui soccombere, abbandonando al figlio ed al liberalismo che nella sconfitta militare aveva trovato la propria vittoria politica, il Regno e la Corona. È a questo punto che appare sulla scena politica Cavour per imporre alla Dinastia ed agli italiani i principii liberali e la Costituzione; mentre stavan scivolando nella penombra Carlo Alberto e Gioberti, il cui federalismo era stato sconfitto. Dopo il 1848 la nostra storia è la storia della dittatura liberale in Italia, della sua fortuna e della sua utilità: divisibile nelle parti che in essa vi hanno esplicato i vari ministeri, e giudicabile nelle caratteristiche che v'hanno impresse i suoi ministri. Non dobbiamo parlare qui né dei meriti di Cavour, né degli errori di Crispi, o di altri ministri; poiché ciò esorbita dai nostri propositi, ma dobbiamo invece dire come tale dittatura, che non fu espressa da una radicale e profonda rivoluzione di popolo, fu sin dal principio bisognosa degli appoggi delle Potenze estere; di modo che la formazione della nostra unità nazionale è più un risultato dell'abilità diplomatica di pochi uomini, e di politici compromessi con le nazioni occidentali: il che spiega la gran parte che in essa vi ha esercitata il Cavour, a detrimento di quella che vi avrebbe potuto esercitare il Mazzini; che in quell'epoca non ebbe quasi altro scopo che di fornire nuclei di arditi enunciatori e di volontari, sempre utilizzati, se non diretti, dall'uomo di Stato Piemontese. Questo non toglie però che quel tanto di maturità politica attraverso essi si esprimeva, non avesse i peculiari caratteri dell'autonomia del repubblicanesimo, solo valentesi delle istituzioni monarchiche, quale concreta oggettivazione e di essa maturità e di esso repubblicanesimo. La Monarchia insomma era un principio, era un idea; che andava rispettata e che doveva essere conservata, poiché era uno dei pochi punti fermi sopra i quali gli Italiani erano chiamati a raccolta, e dal quale erano educati e legati; mentre per l'Estero era non soltanto una garanzia. In questo senso la Monarchia ha avuto una funzione politica e pedagogica. Quando a questa ha voluto aggiungere la funzione redentrice per mezzo del socialismo monarchico e della politica riformatrice di Giolitti, le cose sono radicalmente cambiate. Si può anche ammettere che tale politica fosse dovuta alla necessità di rimediare gli errori della politica megalomane e demagogica del Crispi, tragicamente finita com'è finita; ma il nuovo indirizzo se in parte riuscì a conseguire gli scopi che s'era proposto, col migliorare la condizione sociale e politica degli operai, impedì tuttavia l'irrobustirsi dei partiti col trasformismo. La guerra europea ci ha sorpresi così, e noi siamo corsi ad essa, senza sapere perché; e privi di nostri particolari scopi. L'irredentismo adriatico era troppo vago quanto capziosa era la finalità rivoluzionaria della guerra predicata dagli improvvisi illuminati. Senonché la guerra era sul serio un fenomeno rivoluzionario e democratico; e lo si è subito visto allorché s'è imposta la necessità di chiamare cinque milioni di italiani sotto le armi, e tutta la nazione ha dovuto resistere al cozzo non soltanto d'un esercito nemico, ma di quello di più nazioni anch'esse al completo mobilizzate ed attrezzate per la guerra. Non indaghiamo qui se il congresso di Versaglia dei nostri giorni sia stato più equanime di quello di Vienna del 1815, né se la democrazia vi abbia presa parte. Questo appartiene ad un altro ordine di fatti. Conveniamo piuttosto che a guerra finita le vecchie oligarchie politiche degli Stati belligeranti han dovuto far largo alle masse dei combattenti, le quali come una fiumana si sono riversate sopra le vecchie istituzioni, finendo per stritolarle. Vecchie e gloriose Corone sono andate così in frantumi; non meno di quattro fra le principali dell'Europa; mentre in tre stati già da esse governati, le suddette masse han tentato, con efficacia soltanto in una, d'attuare i postulati estremi ed immediati delle loro aspirazioni. Che è avvenuto in Italia? Non parliamo del periodo che fu detto bolscevico, né di quello che gli è succeduto; il nostro popolo, dopo la guerra, ha aggiunto all'avito scetticismo la stanchezza che gli derivava da quattro pesanti anni di trincea. D'altra parte le richieste che un'altra parte di esso (la parte agricola avventizia) formulava per avere la terra in proprio dominio, non era che un'eco della propaganda che a base di demagogia s'era fatta nel '915 da parte degli illuminati e dei Salandrini; mentre le elezioni colla proporzionale erano effettivamente il battesimo politico di molti strati sociali sin allora rimasti nella penombra discreta della sudditanza. Come le vecchie e chiuse oligarchie del liberalismo abbiano allontanato dalla vita politica della Nazione queste giovani energie, è ancora oggetto della cronaca spicciola; e non ancora materia per uno spassionato giudizio. Sta di fatto tuttavia che il rapporto di forze e di maturità tra Monarchia e Popolo non è mutato. La conclusione di questa storia di un secolo è per questo aspetto ancora lontana. A. CAVALLI.
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