LA LIBERTÀDINO BONARDI: Le fonti della libertà, con prefazione di C. Treves. Editrice la Libreria de "La Giustizia" - Pag. 156 - L. 4. Nessun dubbio che i principii dell'89 siano da considerarsi come le fonti genuine della libertà, se è vero che, in nessun periodo della storia, tutti i più svariati elementi (di carattere filosofico, politico ed economico) si sono trovati così concordi in un irresistibile anelito verso la libertà come esigenza assoluta, come indispensabile premessa per l'affermazione della personalità umana. E che ciò sia, è dimostrato dal fatto che - sia pure per un istante - correnti opposte e finalisticamente discordi confluirono su un comune piano di azione. "Dalla fusione degli elementi di carattere economico e materiale, con altri elementi di carattere puramente passionale e spirituale" sorse infatti, come valore assoluto, il concetto di libertà. La "Dichiarazione dei diritti dell'uomo", vera e immortale formulazione di quel concetto, nacque dunque sotto la duplice, concorde pressione di due aspirazioni contrastanti: quella eminentemente idealistica e spirituale del proletariato nascente alle libere competizioni politiche, e quella più calcolata e consapevole, esercitata dalla borghesia non ancora costituitasi in classe, ma conscia della propria importanza nella forza economica del Paese. In questo senso il B. giustamente afferma che il concetto di libertà rappresenta il punto di contatto sul quale poté essere possibile un compromesso fra le due classi che cercavano la propria formazione e che insieme negarono e smantellarono le superstiti manifestazioni degli antichi istituti feudali, inadatti ormai soprattutto al progresso economico raggiunto. Scarsa risonanza, o, quanto meno, non decisiva, ebbero invece le influenze intellettuali. Le cause storiche che condussero alla rivoluzione dell'89 esistevano già o andavano determinandosi praticamente: "I fatti, come tali, procedevano per sé soli e di per sé soli avrebbero raggiunto il loro fine positivo". L'opera dei filosofi coordinò le cause disperse, dando ad esse la coscienza del proprio valore e rendendole perciò stesso più feconde di più vasti e notevoli effetti. Grande fu, in tal senso l'influenza dell'Enciclopedia. Diderot, l'artefice di questo magnifico movimento, distinguendosi dal Rousseau, la cui influenza si era limitata ad una determinazione di modo, spazia in orizzonti più ampii e con un senso veramente universalistico ed umanistico, giunge ad una concezione unitaria della coltura, ossia "ad un'idea armonica dello spirito umano e dei suoi compiti". Perché questo concorde afflato si concretasse in una effettiva reazione alla "ingombrante mole delle statuizioni medioevali", fu necessario opporre ad esse "un ordine insito nella natura dell'uomo quale essere ragionevole" ed enunciatore di un super-diritto eterno ed immutabile, in opposizione ai diritti o sub-diritti nascenti nell'ambito di una contingenza. Perciò tutta l'azione si basò sul diritto naturale, l'unico terreno su cui potessero scendere, di buon grado, le differenti forze che operarono la formulazione degli umani diritti. Con tali direttive, fra il 20 e il 26 agosto 1789 nacque la "Dichiarazione dei diritti dell'uomo", divenuta poi il vero codice, lo statuto di fondazione e di trasformazione di quasi tutte le costituzioni moderne. Dei due punti di vista dai quali le Dichiarazioni si possono considerare (o alla stregua di sterminatrici del passato, ovvero di edificatrici dell'avvenire) Bonardi sceglie, per coerenza di assunto, il primo. Il valore di negazione dei principii dell'89, rispetto a tutto il vecchio mondo al quale - in certo senso - essi si sostituivano, vi è quindi profondamente studiato. Ma gli effetti oltremodo complessi di quei principii non possono scindersi secondo una suddivisione astratta: essi hanno al tempo stesso una forza edificatrice che parla da sé e che s'intreccia con ciò che vi è in essi di negativo, o da quello scaturisce, potentissima e ineluttabile. Bene lo ha avvertito il B. se egli stesso finisce col farsi vincere la mano e consentire alla indagine sua naturali straripamenti, trasportandola su un piano di maggior attualità. Né questo nuoce all'armonia della trattazione, ché, anzi, giova più che mai alla comprensione di concetti i quali, per la loro stessa naturale preesistenza ad ogni contingente concretamento, portano in sé caratteri di eterna continuità nel passato e nell'avvenire. E bene è stato anche da un altro punto di vista: ché, appena il B. riguarda quel movimento sotto la specie dei suoi effetti rispetto all'avvenire, di colpo la sua fatica esce dalla rievocazione e dalla ricostruzione, per assumere la forma di vera e propria costruzione. Così è, per tacere di altro, la sua interpretazione del come il concetto di libertà si sia affermato, grado a grado nei vari Stati; sotto l'aspetto cioè di limite, di reciproca garanzia per tutti gli uomini alla cui osservanza presiede lo stato liberale. Ma alla comprensione diretta di questo limite debbono giungere essi stessi, gli uomini, sicché il senso estrinseco di limite si muti in una esatta visione di auto-limite. A ciò deve portare, da una parte la stessa evoluzione sociale che agisce spontaneamente "chiamando sempre nuove categorie di individui alla dirigenza della cosa pubblica", e dall'altra il fatto della cultura, il cui bisogno è sentito da zone sempre più vaste di popolo. Con infusioni sempre più permeanti di cultura, intesa nel senso più lato, bisogna accelerare questo moto, sì che, in un tempo non lontano i principii dell'89 possano giungere al loro ultimo scopo, "consentendo le condizioni per la forma di un vero governo rappresentativo delle maggioranze". "L'autogoverno e l'auto-limite sono dunque i punti di arrivo che finalisticamente le Dichiarazioni dei diritti tendono ad acquisire alla pratica degli umani ordinamenti. Il che è quanto dire che il gigantesco rivolgimento storico, politico e giuridico iniziatosi nell'89, ben lungi dall'essere in procinto di esaurirsi, tende invece a dare alla società umana una costituzione degna della più alta dignità: quella che abbia come mezzo il sapere e come fine il reciproco rispetto di tutti gli uomini". Il reciproco rispetto di tutti gli uomini: non è da oggi che Bonardi ci manifesta come questo concetto sia centrale nell'ordine del suo pensiero politico. Egli vede, come molti in quest'ora triste, che, ove manca la libertà, ogni altro mezzo per raggiungere il progresso perde la sua migliore e più valida efficienza e che, ove sia calpestata la premessa liberale, la stessa personalità umana viene mortificata, umiliata e calpestata. "Non appena la rigidità di quella premessa si allenta, sullo sfondo reso immediatamente cupo, si delineano torve e furiose figurazioni di cinismo, di cupa medioevalità, di violenza. Ecco il primo dovere di tutti i cittadini ed ecco la promessa che deve essere rinnovata: salvare e tener su altissimi gli insegnamenti del liberalismo, egualmente nei tempi della sventura, come in quelli del trionfo... Dove finisce il liberalismo, l'arbitrio e il crimine cominciano. Questo il senso dell'insegnamento che, da Stuart Mill a Cavour, i più sicuri interpreti dell'idea liberale vennero diffondendo". "La premessa liberale vuol essere considerata come un patrimonio di tutti i partiti e da ciascuno dovrebbe essere salvaguardata alla stessa stregua dei più indiscussi valori morali". ETTORE LATRONICO.
All'articolo di Prometeo Filodemo sullo stesso argomento, che era sopratutto una critica assai fondata del Partito Socialista Unitario, facciamo seguire questo del Latronico che vuol essere piuttosto una recensione ricostruttiva che mette in luce quello che vi è di accettabile nel libro del Bonardi per un rivoluzionario liberale. In sintesi accettabile è in parte l'interpretazione del Settecento: quando questa interpretazione si vuol presentare come una correzione di certi indirizzi politici, noi rimaniamo con Marx. Allontanandosi da Marx il Partito Socialista Unitario non incontrerà le classi medie: non incontrerà niente.
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