Democrazia e politica monetariaLe correnti democratiche non hanno finora assunto nessuna nitida posizione intorno al problema monetario. È questa una gravissima lacuna. Essa attesta, in un certo senso, una notevole inattualità della cultura politica delle democrazie tradizionali; e ciò a differenza, ad es., di quelle correnti, pur esse democratiche, che si enunziano nel nome del partito unitario. In seno a questo si è, infatti, nell'ultimo Congresso, vivamente disputato intorno alla deflazione e all'inflazione, e si sono delineate, se pur un po' vagamente, due correnti. Sono apparsi così, con qualche riserva, gli inflazionisti. La loro tesi principale era che, quando sia salvaguardata la libertà di organizzazione, i lavoratori possono seguire il deprezzamento della moneta con l'incremento del salario. Lateralmente poi ne affacciavano un'altra: e cioè che la classe operaia come tale si sarebbe avvantaggiata di quel più intenso sviluppo industriale, che consegue a una svalutazione della moneta. Era questo, nel suo complesso, il punto di vista rigorosamente operaistico. Di fronte ad esso si è profilato il programma deflazionista. Esso moveva da questo principio: che la rivalorizzazione della moneta non avrebbe nociuto alle masse salariate, quando queste avessero avuto la forza di opporsi a ogni riduzione del salario nominale. E, inoltre, affermava che, accanto alla classe operaia vera e propria, vi erano larghi strati di popolazione, per cui il riapprezzamento della lira avrebbe significato aumento generico di vita prevalentemente piccolo-borghese. Ora, se questi due punti di vista (che sono poi i soli che si possano presentare) hanno potuto fare oggetto di dibattito in seno alla democrazia unitaria, per la stessa ragione debbono essere valutati dalle altre correnti democratiche. In realtà, all'infuori delle denominazioni, non vi è tra queste e quella, sul terreno concreto delle conquiste liberali e delle realizzazioni popolari, nessun considerevole divario. Entrambe si muovono in una sfera sociale intermedia, e di entrambe fanno attivamente parte alcuni strati della classe operaia, ossia dei lavoratori nel senso puro della parola, e vaste zone della classe media che, pur essendo produttrice, si presenta prevalentemente in veste di consumatrice. La questione si propone perciò, salve le interne proporzioni, in maniera assolutamente analoga. E la democrazia, posta di fronte all'ormai inderogabile problema deve, in concreto, decidere: a beneficio di quali classi deve andare quell'enorme rimaneggiamento di ricchezza, che è, sempre, implicito in ogni e qualsiasi politica monetaria. ***
La politica inflazionista sostanzialmente seguita, pur senza eccessi, dal Governo, è stata in minor misura dettata da una necessità, e, in misura di gran lunga maggiore, da un deliberato proposito. Rientra nella prima la consapevolezza di dover raggiungere il pareggio del bilancio. E ciò non avrebbe potuto in nessuna guisa farsi se si fosse seguito una politica di deflazione: poiché questa si sarebbe risolta in un accrescimento proporzionale delle spese consolidate e, viceversa, in una imponente diminuzione delle entrate ordinarie. Fa parte, invece, di una espressa volontà politica l'intento di incrementare la produzione. L'inflazionismo governativo è tutt'uno col suo produzionismo, né, in realtà, può negarsi che il credito aperto in ragione di miliardi alle industrie non ne abbia, dal punto di vista tecnico, vigorosamente agevolato lo sviluppo. Questo è pervenuto a tal punto che vaste e crescenti correnti di esportazione, più propriamente industriali che industriali-agrarie, hanno potuto prendere le mosse verso i mercati esteri, e, sopratutto, verso i grandi mercati a valuta pregiata. Ma come hanno potuto determinarsi tali efflussi mercantili? Bisogna guardar bene: perché essi sono, in gran parte, figli d'un vero e proprio inflazionismo industriale. L'aumento indefinito del credito, trattandosi di credito uscito dai torchi degli istituti di emissione e non dalle riserve del risparmio privato, ha, naturalmente, precipitato il processo di accrescimento dei prezzi all'interno: ossia ha emunto i consumatori, e, più direttamente, ha eroso il salario reale dei lavoratori. In sostanza questi si sono trovati, tranne alcune ristrettissime categorie di specializzati, a prestare l'opera propria a un prezzo reale inferiore a quello stesso che entrava nei calcoli dei costi di produzione dell'impresa, o, che è lo stesso, si sono trovati a costituire a vantaggio degli imprenditori un soprareddito secco e crescente. Di qui è venuta, in grandissima parte, la eccezionale capacità esportativa dimostrata, quasi improvvisamente e senza accompagno di ritrovati tecnici speciali, dai nostri ceti industriali. Ma di qui proviene anche il carattere notevolmente artificioso e, pertanto, precario, della situazione in cui si trovano alcune fra le principali e le più audaci delle nostre industrie. Le quali vedranno via via crescere le difficoltà di penetrare liberamente nei mercati esteri più remunerativi; e che dovranno, perciò, subire tra breve uno sforzo di adattamento ad altri mercati più magri, e, in ispecie, al mercato interno. In realtà la politica monetaria seguita dal fascismo, quando la si metta in rapporto con la compressione esercitata dal fascismo stesso sui lavoratori, appare non già come una politica della produzione, ma come una politica della speculazione o, genericamente, della plutocrazia. Fra la prima e la seconda vi é un divario profondo. La prima ha per sua caratteristica essenziale che, essendo essa fondata su processi produttivi normali, può continuarsi indefinitamente, appunto perché, nel suo stesso svolgersi, essa crea gli elementi della propria durata. Ogni politica plutocratica, al contrario, si contraddistingue pel fatto che, non avendo essa che scarsi contatti coi fatti della produzione materiale vera e propria, manca, a lungo andare, di forza riproduttiva, e deve perciò, come ogni operazione economica di rapina, esaurirsi in sé stessa. Ora tale è appunto la posizione in cui l'inflazionismo ha posto notevoli gruppi di industriali. Questi, posti di fronte al proposito del ministro De Stefani di iniziare una politica di deflazione, hanno dichiarato che tale politica verrebbe ad aumentare in maniera incalcolabile le loro passività, e che, messi al bivio, essi sarebbero costretti a serrate più o meno estese. Non si può in realtà negare lo stato di disagio, in cui vengono a trovarsi delle industrie, che sono state lanciate con l'eccitamento di un credito artificiale, e a cui improvvisamente si chieda di continuare il proprio cammino coi mezzi normali; questa è appunto la dura logica dell'inflazionismo, e, in effetti, l'on. De Stefani ha dovuto arrendersi. Ma l'eventuale disagio futuro non toglie i vantaggi enormi conseguiti per il passato e che possono essere quando che sia, anche se con scarti notevoli, realizzati. Una rivalutazione della lira, più o meno prossima che sia, verrebbe certo a danneggiare le nostre classi capitalistiche nella loro qualità di imprenditrici (nel senso che verrebbe a spezzarne ogni ulteriore slancio) ma permetterebbe però loro di avvantaggiarsi nella loro qualità di risparmiatrici. Esse verrebbero a trovarsi, in un certo senso, in posizione identica, solo che capovolta, a quella in cui si trovarono nelle industrie di guerra. Allora la politica della inflazione le danneggiò come risparmiatrici e le favorì come imprenditrici; ora, al contrario, la politica della deflazione le danneggerebbe come imprenditrici e le favorirebbe come risparmiatrici. Ma, comunque, il risultato sarebbe questo: il realizzarsi di un loro arricchimento all'infuori e contro gli interessi delle grandi masse del paese. Frattanto l'abbondanza del credito artificiale fatto alle industrie le ha condotte in una singolare situazione. Essendosi il fascismo inspirato ai principii del nazionalismo economico attivo, che ha per sbocco necessario l'espansionismo, ha eccitato in molte branche della nostra produzione la tendenza all'esportazione; ma, poiché questa viene ad essere conseguita mediante il dumping del lavoro sottocosto, il tentato espansionismo sta per convertirsi in un preoccupante isolamento. È questa una delle esemplificazioni tipiche del fatto: che una invincibile solidarietà stringe tra loro l'economia dei varii paesi che vivono nello stesso sistema di produzione e di scambio; e che strutture politico-sociali troppo radicalmente diverse, nell'orbita d'uno stesso ambiente economico generale, non sono a lungo andare compatibili. La politica di compressione, che il fascismo esercita sulla classe lavoratrice e sulle masse popolari, è stata la ragione ultima che ha permesso alle nostre industrie di utilizzare per l'esportazione all'estero l'inflazionismo monetario: perché è appunto quella politica, che ha impedito che i costi industriali si facessero più elevati attraverso una ripartizione più larga dei profitti. Ma ora contro tale politica muovono, direttamente e mediatamente, in guerra le economie egemoniche. Il protezionismo sempre più pronunciato, a cui ricorrono tutti i grandi paesi produttori a valuta di pregio, apparentemente è rivolto contro le incursioni esportatrici dei paesi a moneta svilita, ma, in realtà, è diretta contro quella loro politica reazionaria antioperaia che, eliminando dal gioco dei costi l'elemento lavoro, spiana la via alla pratica dell'esportazione sotto costo in permanenza. La guerra di secessione americana fra l'economia schiavistica del Sud e la economia libera del Nord, ha presentato aspetti di questo genere. Anche nella propaganda del liberismo inglese, che diffondeva insieme i principii di libertà economica e internazionale e di libertà politica interna, si potrebbe trovare più di un tratto che ricorda tali fenomeni. In realtà oggi contro l'economia italiana, così come è configurata dai rapporti politici dominanti, si vanno delineando due movimenti. Uno, di difesa diretta, che consiste nella elevazione di barriere opposte alla importazione di prodotti, ottenuti con mezzi non conformi al fair play industriale. L'altro, di difesa indiretta, che si sostanzia nel diffondersi di rapporti internazionali, fondati sul tipo uniforme della moneta aurea; e che allontanano da sé tutti quei processi di scambio avventurosi, che si appoggiano sul fenomeno del "valuta - dumping". ***
È in queste circostanze che la democrazia è chiamata a prendere posizione. Essa non si occupa dei ceti industriali in sé e per sé, perché questa funzione, in quanto è legittima, incombe ai partiti liberali-conservatori, ma si occupa invece delle industrie, come fatto tecnico di produzione e di circolazione. E allora le si presenta un bivio. O le industrie continuano a godere della loro attuale situazione di relativo privilegio sopratutto per l'esportazione, e ciò non è possibile che con la crescente menomazione dei lavoratori e dei consumatori. Oppure esse vengono private di questa situazione monetaria di favore, e, in tal caso, non potranno sopravvivere nella loro attuale efficienza che quando trovino dinanzi a sé un mercato interno capace di assorbirne i prodotti. Ma la prima via è nettamente preclusa alla democrazia: la quale cesserebbe di essere quello che è se (come troppe volte ha fatto per il passato) dimenticasse che il suo compito specifico è proprio quello di difendere gli interessi e gli sviluppi delle grandi masse che lavorano. E non resta pertanto che la seconda via. La funzione particolare, che incombe alle correnti democratiche, è infatti quella di ricostituire, contro il fittizio espansionismo della nostra plutocrazia che conquista i mercati internazionali col sangue e la miseria della gran massa dei cittadini, un solido e sano mercato nazionale di consumo. Si tratta, in sostanza, di mettere gli strati più numerosi della popolazione in condizione di assorbire una maggiore quantità dei beni che essi contribuiscono a produrre, ossia di ripartire a loro beneficio una più larga parte del reddito sociale. Così facendo, cioè sostituendo in parte ai ricchi mercati esteri il più magro mercato interno, si perviene, dal punto di vista della produzione, a questo risultato: che essa tenderà a trasformarsi da produzione di beni a carattere di lusso in produzione di beni a carattere popolare. Dal punto di vista del consumo, invece, la conseguenza, evidente, sarà questa: che il tenore di vita delle classi popolari tenderà in tutte le sue manifestazioni a espandersi rapidamente. Sotto entrambi gli aspetti questa è la democrazia che si realizza, poiché rappresenta un incremento di benessere e di potere direttivo sulle industrie da parte delle classi minori; ma essa costituisce anche una salvaguardia e una ulteriore posizione di resistenza per le nostre industrie stesse, a cui gli sbocchi esteri fortemente remunerativi si fanno sempre più difficili. Ma a tali obiettivi non ci si può avvicinare, restando sul terreno della politica monetaria, che mediante un costante processo deflazionistico. Man mano che esso sì verificherà, i salarii, come anche gli stipendi, andranno naturalmente diminuendo nella loro espressione nominale, perché, se così non fosse, si perverrebbe rapidamente ad una situazione assurda e insostenibile. Peró la velocità di diminuzione nominale delle remunerazioni delle classi lavoratrici sarà, in conformità al ben noto principio della vischiosità dei salarii, inferiore alla velocità di aumento del loro valore reale, e, in conclusione, si avrà, nella nuova congiuntura, un vantaggio secco per le classi salariate. Molto, senza dubbio, dipenderà dalla libertà di movimento economico di cui saranno munite: poiché, in via di ipotesi, si può anche ammettere che esse seguano passo passo e anche, magari, anticipino la rivalorizzazione reale del salario; ma questa è appunto una semplice ipotesi, e il risultato concreto sarà quello che si è detto. Conviene, anzi, aggiungere un rilievo. Essendo anche questa questione dell'incrocio della ascesa del salario reale con la discesa del salario nominale una questione di limiti, la democrazia (né più né meno del socialismo che non sia sovversivo, ossia volutamente ignaro di ogni problema di limiti economici) ha i suoi propri criterii per stabilire dove questi limiti debbano venire fissati. E il limite è la sopravvivenza delle industrie: la sopravvivenza, si intende, nell'attuale ordinamento, che presuppone la remunerazione del capitale. Non di tutte le industrie così come oggi sono, beninteso; bisogna, al contrario, persuadersi che lo sviluppo fittizio dell'inflazionismo del dopo guerra deve avere, avrà e sarà bene che abbia le sue vittime, come le ha avute quello dovuto all'inflazionismo bellico; ma delle industrie, nel regime e nella logica capitalistici, sí. Ora un limite, delineato in questo termini, non può evidentemente fissarsi a priori; muterà, invece, da industria a industria, come analogamente, cioè caso per caso, si pongono tutti i problemi dei costi di produzione, dei quali il salario è appunto un coefficiente. Però, in via generale, si possono prevedere questi due risultati: squilibrio e decremento nelle industrie a mercato estero, e crescente sviluppo nelle industrie a mercato interno; e il tutto in tale misura che si risolverà in un vantaggio per l'insieme della economia produttiva. Non molto diversamente si pone il problema per la grande classe dei consumatori, che, in senso letterale, comprende, evidentemente, la collettività interna, ma, in senso economico, rispecchia solo l'insieme delle categorie di cittadini a reddito fisso o poco elastico. Queste si troverebbero arricchite della rivalorizzazione della moneta, poiché non è dubbio che, per un fenomeno in parte simile a quello della alta coagulabilità dei salarii, i loro redditi non si contrarrebbero che lentamente. Ma qui sorgono appunto le difficoltà della politica deflazionistica per la democrazia. Questa può, in via principale, trascurare gli spostamenti abusivi di ricchezza che si verificano tra i privati a beneficio dei creditori e a danno dei debitori, ma non può non prendere in considerazione i problemi dell'economia pubblica, propriamente statale, che sgorgano dal deflazionismo. Nel crescente benessere del consumatore, la democrazia ravvisa uno dei proprii obiettivi, ma essa non vuole che, per ciò, lo Stato pericoli; e, poiché lo Stato è, dal deflazionismo, minacciato nelle sue entrate tributarie che calano e nelle sue uscite consolidate (interessi del debito pubblico, sopratutto) che crescono, così due limiti si impongono. Il primo limite viene posto dalla necessità che i cespiti che lo Stato trae con le imposte, tasse, ecc... dall'economia del paese non vengano, per la diminuizione generale dei prezzi, assottigliati prima che lo Stato stesso abbia potuto provvedere a ridurre le proprie spese. E il secondo limite riguarda queste spese stesse. Alla democrazia, che è corrente politica esaltatrice delle virtù attive, utili e rinnovatrici della economia, contraddice di farsi propugnatrice dei percettori di interessi del debito pubblico, che esprimono, tipicamente, la figura del rentier inerte e passivo; e, oltre a ciò, diminuendosi le entrate, lo Stato sarebbe posto nella impossibilità di far fronte al servizio del debito pubblico e cadrebbe rapidamente in dissesto. Ma il dissesto dello Stato, ossia il riaccentuarsi dello sbilancio finanziario, si convertirebbe ancora in quella svalutazione della moneta, che è la rovina appunto delle grandi masse: e, pertanto, la deflazione a favore del consumatore, ossia il basso costo della vita, deve trovare un limite nella capacità dello Stato a mantenere in pareggio l'azienda finanziaria. Il che non può poi forse, praticamente, farsi che a un patto: di mandare avanti, di pari passo, l'aumento dei valore della moneta e la riduzione dell'interesse del debito pubblico, che è da considerarsi, come in gran parte è, alla stregua di una vera e propria manomorta civile. ***
Ma, oltre a questi effetti interni, una politica deflazionistica non resterà senza ripercussioni, sulle nostre posizioni nell'economia internazionale. Il risanamento monetario ci impedirà, senza dubbio, di continuare nella concorrenza privilegiata sui mercati a valuta pregiata, ma, nello stesso tempo, varrà a stabilire rapporti di scambio più normali, pacifici e solidi con tutti i paesi. Rivalorizzando la lira usciremmo da quello stato di guerra economica, a carattere aggressivo, in cui ci troviamo, e si entrerà in uno stato di pace internazionale alimentata da scambi spontanei. In questo trapasso da una economia internazionale di guerra a una economia internazionale di pace, avverranno, inevitabilmente, dei dissesti di alcune industrie e dei più fortunati assetti di altre industrie. Ma, nel suo insieme, il bilancio delle variazioni non può esserci che favorevole, perché queste mutazioni avvengono nel senso della maggior libertà internazionale di produzione e di scambio, ossia in accordo al principio dei costì comparati. Ed è anche per questo che la democrazia vi rivolge le proprie preferenze. Essa ha tra i proprii postulati la crescente solidarietà da nazione a nazione, ma tale solidarietà sarebbe erronea e caduca quando non si fondesse sui rapporti dell'economia, e tali rapporti, alla loro volta, non sarebbero stabili se non poggiassero su un sistema monetario sano e non avventuroso. Ma, mentre si liquida il periodo postbellico della carta moneta, appare sempre più evidente che l'oro ridiventa lo strumento della circolazione da paese a paese, e il contrassegno dei paesi, che partecipano seriamente alla società economica internazionale. Non v'è differenza, su questo punto, fra popoli vincitori e popoli vinti, e la differenza è, piuttosto, fra paesi ricchi e paesi poveri. Inghilterra e Germania marciano sulla stessa via; la loro moneta, con diversi sistemi, rivalorizzata e posta accanto all'oro, ha, nello stesso tempo, accresciuto il benessere delle grandi masse interne e normalizzato tutti i rapporti internazionali dei due paesi. L'Europa economica sta rinascendo sulla base dell'oro, ed è verso questa politica, che si inizia con la rivalorizzazione della lira, che la democrazia rivolge, per ragioni realistiche e ideali insieme, i proprii sforzi. N. MASSIMO FOVEL.
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