EROICA

    Io sono stato un fascista della prima ora, potrei dire, anzi, dell'ora antelucana. Fu intorno al 1905, il partito fondato dall'on. Mussolini non esisteva ancora, nemmeno nella mente del suo autore, e io avevo quattordici anni. Nessuno può, dunque, contestarmi un diritto di primogenitura: ma poiché, forse, più di un Italiano non sarebbe alieno dal gradire questo titolo, mi accingo a rivendicarlo, con prove irrecusabili. Quanto alla tessera ad honorem, chi sa? Nutro fiducia.

    Oggi, che la fuggente malia della storia ha fatto luogo, nell'anima, a religioni più veraci, comincia a essermi grato rievocare quegli anni, e il loro incanto, come, trascorso il "giovanile errore", è grato tornare, col ricordo, ai primi amori. Per fascista, lo sono stato in pieno, fascista di buona lega, francamente reazionario e forcaiuolo; fascista tanto, da diventare perfino anti-italiano. E valga il vero. Dacché sono sulla china, tanto vale che dica tutto, e mi sgravi la coscienza, in una pubblica confessione ai miei simili, di misfatti che da più lustri l'aggravano. Ebbene sì, nella mia nera anima, un tempo, ho divisato di smembrar l'Italia per ridar Roma al Papa: ho abbattuto la Repubblica in Francia, stroncato, in vari Stati, il Parlamento; ho esteso in Europa lo ezarismo, ho preso contro l'Inghilterra, dalla tenebrosa Spagna la rivincita della Invincibile Armata; ho lanciato contro la Massoneria, più occhiuto, misterioso e potente, atroce derivazione gesuitica, l'Ordine del San Gral. - Queste sono le mie origini politiche, c'è da diventare Presidente del Consiglio; l'on. Farinacci è enfoncé. Ma sono passati venti anni, e quali anni! a essere cattivi, oggi, non c'è più nessun gusto: nel 1905, invece, il secolo era bambino, io ero adolescente, tutti erano buoni. Come si spiega questo fenomeno di precocità sinistra? Se dell'infanzia si è potuto dire: cet âge est sans pitié, l'adolescenza, per comune consenso, è generosa, aperta ai più nobili ideali; com'è provato anche dagli studenti secondari, e dalle loro imprese, benché da qualche tempo, incorporati nei Balilli, facciano parlare meno di sé come Goliardi. Il bello è che mi credevo generoso anch'io, a profondevo il naturale entusiasmo dell'età nello sviluppo di un caro, ampio disegno, che animò quegli anni di un marziale émpito eroico, originando un'avventura senza esempio, per quanto so e lessi, negli stessi annali plutarcheschi.





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    Accadde, cioè, che la passione con cui evocavo la storia e seguivo, pei giornali, la politica, non si appagò più, a un certo momento, dell'arido leggere, né del morto passato, né del tardo presente, ma volle, avida, viverle; impaziente, continuarle, anticipando l'avvenire in una vicenda, anzi, in una serie di vicende fantastiche di cui, per anni, con diletto indicibile, fui protagonista. (Duolmi anzi a questo punto dover dire come, scrivendo "Enrico IV", il sig. Pirandello abbia commesso plagio, fermandosi però nell'abbiccì del mio sistema). Trascorsa l'età infantile della palla e del cerchio, raggiunto il bivio da cui l'adolescenza si riversa, gioiosa, al sole per la gran via dello sport, e si accinge, esteriorizzandosi, ad incretinire, mentre altri pochi salgono, per scale muffite, in biblioteca - io avviai la mia cara solitudine di figlio unico per una stradina appartata, che doveva ben presto schiudermi favolosi reami. È da quel tempo che, più sono solo, e meno lo sono, i miei pensieri seguendomi, per strada e in casa, in una compagnia che era, spesso, allora, varia e splendida folla. I miei pensieri erano, allora, conestabili, baroni, segretari, ministri. Dapprima mi accontentai di ripetere: conte di Savoia, in Chambery e in Val d'Aosta, visitavo castelli e castellani, ordendo cabale contro Ginevra. Fu per me il surrogato del teatrino e delle marionette. Così pure risale a un primo tempo il mio gusto di fingermi un generale: ma per la trafila militare sono passato anch'io, e con tanto piacere che a ripensarvi, ora, intendo come ciò sia sintomatico. L'infanzia è bellicosa, lo spirito pacifista ed evangelico non è naturale nei ragazzi. A otto anni tutti giocano ai soldati, proletari e borghesi; a quindici tutti adorano Napoleone, e fin qui poco male: il guaio è che molti lo adorano anche a trenta, e questo è grave; una specie di rachitismo intellettuale; ma notate che di questo male soffriva anche il democratico Heine. La fanfara, la parata, la manovra, la bandiera conservano un fascino immenso: contro di esso l'avversione alferiana, libertaria, alla caserma può poco, ed è, del resto, bellicosa anch'essa. Guardie rosse, se non sono guardie bianche. È un profondo istinto umano, che precede i propri pretesti logici, non escluso il dovere patriottico. L'intristire della propaganda pacifista, della Società delle Nazioni, trova in questo dato non logico, e non etico, della nostra natura una spiegazione capitale. C'è poco da dire, al popolo piacciono i soldati. La poesia militare, specie in tempo di pace, è succosissima, benché svilita e corrotta da quei suoi traduttori-traditori borghesi che sono il tenerume alla De Amicis, la facezia alla Courtéline (pacchiana in Cuttica), la retorica degli inviati di guerra e dei nazionalisti. Lasciando anche da parte l'epos, essa è, invece, fiabesca, shakespeariana se, la domenica mattina, dopo messa, in abito da festa, il buon popolo assista al Cambio della Guardia; avventurosa nei giuochi dei boys scouts; religiosa e mistica quando, in uno degli episodi sintomatici del primo Novecento, il nipote di Renan, e parente di France, rompendo la tradizione familiare, esalta, e pratica, la "milizia" ascetica in colonia. Per questo sono tornati tamburi, pifferi, uniformi e marescialli. Se l'Esercito non esistesse bisognerebbe inventarlo, ad uso interno, e pittoresco.





    Sotto la tenda, ai miei giorni di guerra, io, ricevendo i generali, speculando sulle carte le vie dell'avanzata, sentendo fervere intorno, come un brusio d'api, la gran vita del campo, rivivevo con gioia le intuizioni dei capi. Più degli episodi culminanti amavo le soste degli assedi, l'operoso indugio dei quartieri d'inverno; la guerra più della battaglia, la politica, poi, più della guerra. Se, talvolta, somiglianza di luoghi, affinità di casi accendevano l'estro - da un poggio, fra cespugli e pace di natura ignara, affacciarmi al nemico, come da Superga, Eugenio di Savoia spiar Torino: il binoccolo in mano, dietro, i cavalli e lo Stato Maggiore: ed ecco, (splendendo nuvole antiche in un cielo di battaglia) la pianura brulicante, una e varia nel bel viver la guerra: sparsi bivacchi, arcieri a spasso, presso bombarde globi di fumo, quà a là fuochi di fazioni, intorno a terrapieni un accorrere, a capo di drappelli con stendardi cavalcare Filippo d'Orléans - quanto illustre passato a potenziarmi! La natura, e il mio errarvi, erano sempre pieni di fantasmi; né il silvestre veniva affatto disturbato dall'epico; il corno di Siegfried suona bene nella foresta. Quel fondere la storia nel paesaggio, l'azione personale nella storia, era un incanto. Lo stesso incanto della complessità organizzata che, delle intuizioni dei capi, mi faceva vivere insieme il lato pittoresco ed il dialettico. L'elemento decorativo, alla d'Annunzio, l'esteriorità fastosa, non fu mai per me che un accessorio: non che non mi piacesse, ma non mi bastava. Io amavo proprio sedere al tavolo dei plenipotenziari, discutere articolo per articolo condizioni di resa, o di pace, o di alleanza: giungere all'osso della concretezza. Il fumo delle battaglie era un bel fumo, poi veniva l'arrosto dei trattati. La strategia è un avviamento alla politica. La poesia dell'azione ha un'essenza specifica (estesa fino al progettare dell'ingegnere), che i pratici non hanno tempo, né, spesso, capacità di esprimere, mentre i poeti, in generale, la tradiscono, per la loro natura retorica e svagata. Guardate d'Annunzio a Fiume, e nello Statuto del Carnaro. Per questo i capi, che son maschi, trattano da femmine i poeti: sta a costoro mostrare che son maschi più di quelli, che esprimere è la quintessenza del vivere. Però, se i richiami dell'espressione non mi avessero attratto, quanto mi sarebbe piaciuto il negoziare!





    Così, per naturale estensione, quasi direi da guerra a pace come dall'eccezione alla regola, man mano che il mio angolo spirituale si accrebbe, le possibilità militari non mi bastarono più, e, pur restando una pedina importante e piacevole nel mio gioco, questo si fece più complesso, una maggior copia di elementi mi compiacqui di muovere e disporre. La vita dello Stato, di cui iniziavo, motu proprio, la multipla esperienza, come il giovane figlio di un re fa tirocinio pei vari rami dell'amministrazione, mi apparve a poco a poco nella sua totalità, mi offrì il suo posto centrale, mi additò il deus ex machina, il ministro. Che ne direste dunque se, in base a questi dati, s'istituisse una gerarchia dei gusti umani che, trascurando l'inerzia degli iloti e l'opaca cupidigia di Shylock, salga dallo sportivo al militare al diplomatico al politico, termine oltre cui non stanno, più se non cose demiurgiche o divine? - Di ministro, se la fantasia mi offrì la carica, gli eventi politici di quegli anni mi tracciarono il programma. E qui, entro in un fresco, profumato ambiente di ricordi adolescenti in cui, strano a dirsi, la politica ha qualcosa perfino di sessuale: forse perché sul gusto fantastico s'innestò per la prima volta una passione, forse perché amai in quegli anni il modernismo e il Papa insieme con una morbidità fogazzariana. Certo, una frescura come di palme ventilate in chiese aperte di giovedì santo è nel ricordo (così, forse, per Chateaubriand, il Genio del Cristianesimo, e il museo dei manieri feudali dopo l'arsura del Terrore). E primavera, chiarità di secol nuovo, è polvere marziale per le vie di un'Europa giovine e antica, un tornare di miti e di visioni. Si combatteva in Francia la lotta contro le Congregazioni religiose, si votava la Separazione. Combes, la politica bloccarda, mi ebbero avversario fierissimo: marchese di Rosambeau, capo dell'esigua Destra legittimista, tuonavo in Parlamento; cavaliere d'Herblay, a Parigi e in Bretagna, combattevo e cospiravo, stringendo accordi fra tutte le Reazioni, per tutte le sognate Restaurazioni. Sul gusto dell'avventura e dell'intrigo quale fiorire di poesia, quale onda, in parte, anche di fede! Contro la platitude democratica, ed il materialismo socialista, quali conati di un ritorno cattolico ed eroico! Disgusto dei miti che si avverano, fastidio e noia della lunga pace. Lo squillo che, da Tangeri, suonò la prima diana all'Europa, trovò in me echi potenti. Così, nella psicologia individuale, si preparano i mutamenti della storia. Con quale ardore spiai, prevenni, i primi segni di rinnovamento, scandalo delle fiches, dimissioni di Andrè; i primi nomi non bloccardi, Doumer, Barthonu conversione di Millerand (l'astro di Poincaré non era sorto). Tutti gli uomini politici francesi mi ebbero intrinseco, in una famigliarità coi casi gallici che perfino oggi dura. Solo per quel diavolo di sornione di un Briand una simpatia, di natura demonica, mi vinse, superata poi solo dall'affezione per Giolitti.





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    Fu a questo punto che grandeggiò l'ultimo mito di quella mia vicenda fantastica, la Spagna. Ivi mi fissai definitivamente quando diventai ministro; ma da quanto tempo non mi ci avviavo idealmente, da quanto tempo non amavo la Spagna! Quasi più che il Papa ed i Gesuiti. Non era solo posa adolescente, né semplice curiosità dell'inconsueto. La Spagna fu per la mia ideologia del tempo ciò che per il cuore ed il senso fu Ginevra. Questa penisola meridionale d'Europa, parte integrante dell'Occidente, e pur da secoli straniera, preclusa ad esso dai Pirenei, come un castello da fossati e torri: uscitane una sola volta nella storia, col suo Filippo, col suo Ignazio, col suo Chisciotte, per dir parole grandi e cupe; poi, incompresa, ritirarsi e tacere! Grande silenziosa, così diversa, così segreta, detentrice di un principio, il solo, inconciliabile con la modernità, di cui sentivo il senso austero e eroico, distaccato dall'utile: calvinismo cattolico, severo. L'unica, fra le Nazioni d'Europa, veramente refrattaria, veramente antitetica. Io mi assunsi di redimerla, contro Parigi, Londra, Nuova York facendo di Madrid un nuovo centro politico e polo ideale; e fui don Diego di Raheita, marchese di Villaverdemarchese, Primo Ministro dei re Alfonso e Filippo. Grande di Spagna per la nascita, il titolo di Altezza Serenissima e la Guardia del Corpo li ebbi poi, dopo l'attentato. (Giuro che l'idea non è rubata ai Moschettieri di Mussolini, e che né lui né io discendiamo da A. Dumas padre). Con un decennio (1906-1916) di riorganizzazione interna, poi con due grandi guerre, la prima di restaurazione monarchica in Francia, la seconda di restaurazione cattolico - austriaca in Germania, cambiai faccia all'Europa.

    Quando, pochi anni dopo, verso il '10, un'ondata di spagnolismo traversò la cultura europea - spirito chisciottesco, spirito "castizo", Unamuno, lanciato in Italia dalla "Voce" - io non mi stupii, dissi: ci siamo. Quando i camelots du roi prima, il fascismo dopo la guerra diedero corpo agli ideali della Reazione, dissi ancora: ci siamo. Ma il mio animo era ormai staccato da quei miti. È naturale che gli uomini dello spirito abbiano una sensibilità di strumenti premonitori delle bufere ideologiche; è anche naturale che essi siano sempre all'opposizione. Risentono con la più viva fantasia il fascino, difendono con la più esercitata coscienza etica le ragioni di ciò che il presente calpesta e irride. Politica a parte: essi sono oggi, in Italia, intimamente liberali e democratici. Nel moto pendolare della storia essi fanno da bilanciere. (Mai come oggi, infatti, sentimmo quanto i Principi dell'89 ci siano cari). Equità e generosità, per essi, non sono nemmeno un merito, fanno parte del mestiere.

    Io non mi peritavo di stabilire fra le mie due vite i più audaci rapporti. E, certo, era curioso dover licenziare il Duca d'Ossuna, che mi riferiva sulle mene monarchiche in Portogallo, per andare a lezione di matematica. Sforzavo il senso dei temi d'italiano per poter rendere conto, a professori e compagni, dei progressi della mia politica. Un successo di costernata stupefazione ebbe l'elogio funebre che di me, defunto verso il 1940, pronunciai davanti alla Corte di Spagna. Lo spirito di Bossuet aleggiava intorno. Quell'epicedio fu l'ultimo documento di una vicenda in cui si erano colati gli ideali e i sogni di un ragazzo borghese agli inizi del Novecento.

FILIPPO BURZIO.