La penuria granariaCon questi rapidi cenni io non intendo affatto sostituirmi, nella lotta per la discussione e soluzione del nostro problema agronomico, ai tecnici particolarmente competenti, ma intendo soltanto, con la più fervida cordiale propaganda, aiutare - o come oggi si dice "fiancheggiare" - i tecnici in questo, che è fra i più veri apostolati per la risurrezione dell'agricoltura italiana in genere e meridionale in ispecie, che é tanta parte, poi, della nostra resurrezione economica, morale e... politica. La penuria granaria che ha colpito quest'anno gravemente il mondo e più gravemente l'Italia, che, purtroppo, non é stata la prima e, con qualche intermittenza di sollievo, minaccia di non essere l'ultima, non deve passare senza fruttuosi insegnamenti per noi e sopratutto senza infonderci il deciso proposito di risolvere il secolare tormento, riportando ancora una vittoria contro quella natura che è arcigna ed avara soltanto con i neghittosi. In verità anche in Italia gli studi agronomici si vengono sempre più intensificando; ce ne dà prova ampia e sicura il recente libro d'interesse davvero capitale, che il prof. Rivera della R. Università di Bari pubblica (Libreria ed. di Scienze e Lettere del dottor Bardi, Roma) su Il problema agronomico nel Mezzogiorno d'Italia. Ed altra prova ancora ce ne dà il recentissimo volume terzo degli Atti della Società Agronomica Italiana, pubblicati a cura dello stesso prof. Rivera, socio-segretario della medesima. Come per tutti i problemi, così per questi agronomici, molti e differenti sono le opinioni e le proposte di soluzione. Vi sono quelli che insistono perché sieno destinate al grano assai più terre: o bonificando le zone acquitrinose o sommerse dalle acque dolci o salse, o dedicando esclusivamente a grano tutte o gran parte delle terre da prato e da pascolo specialmente invernile; altri, infine, vorrebbero, più che estendere la coltura granaria (che nel nostro Paese è anche troppo estesa), intensificarla, lavorando meglio la terra, meglio concimandola, ecc. Sta bene - scrive il Rivera - ritogliere alle acque e agli acquitrini quanta più terra sia possibile (sono queste quasi sempre le migliori terre per grano); ma sta male, peró, fare la propaganda per il grano dovunque, perché è il modo più certo di aver meno grano. Quando una terra è tenuta a pascolo o a prato per due o tre anni, al quarto anno, seminata, dà grano al doppio, oltre il bestiame che il pascolo dà nei primi tre anni; ciò che, tutto sommato, costituisce un reddito complessivo superiore a quello di quatto annate di semina continuata a grano. Ecco quindi il ciclo più produttivo: "bestiame-grano"; il ciclo, la formula, che ha reso possibile il sollievo dell'agricoltura inglese e... di tutto il mondo. "Io non ho mai compreso - aggiunge il Rivera - perché da parte dei dirigenti tanta propaganda sia stata fatta per il grano e così poca per il bestiame che del grano è industrialmente il più potente fattore di incremento". Questa incomprensione, o domanda, egregio prof. Rivera, non è di oggi! Purtroppo! Sarà certo più di un buon quarto di secolo che il nostro amico Francesco Saverio Nitti ha ripetuto in cento pubblicazioni, compresa la sua Relazione sulla Inchiesta Parlamentare sulle condizioni delle classi rurali nel Mezzogiorno e Sicilia, che ha ripetuto, dicevamo, le stesse cose, e cioè che occorre diminuire, per alzare le sorti di questa bassa Italia, i campi di grano, per aumentare i boschi, i pascoli, il bestiame; ossia il binomio, appunto, "bestiame-grano". Nel Mezzogiorno d'Italia l'abbondanza o la penuria del raccolto granario dipende, prevalentemente, dall'andamento stagionale, dall'avverso clima mediterraneo, e solo secondariamente da metodi colturali. Vi sono annate nelle quali le Puglie dànno una media di quintali 5,6 (1912) ad ettare, ed annate nelle quali si raccolgono, in media, quintali 12,4 (1913). Queste oscillazioni sono pure la causa di un altro deplorato, ma fatale fenomeno economico-sociale e cioè dell'accentramento in poche mani della proprietà fondiaria; nelle mani di coloro i quali, disponendo di più forti mezzi economici, possono arrischiare per più anni consecutivi la coltura anche a perdita, in attesa di anni favorevoli, che ne li compensino sufficientemente. È per questa ragione che la ripartizione di grandi zone colturali deI Sud tra piccoli coltivatori diretti in genere fallisce e la terra, divisa, finisce quasi sempre per riunirsi in grandi unità colturali nelle mani dei più abbienti. Tutta l'opera annosa, diligente, sperimentale del prof. Rivera, compendiata nel suo volume sul Problema agronomico del Mezzogiorno, è appunto una forte dimostrazione e documentazione della influenza dell'avverso fattore climatico sulla nostra agricoltura e sulla granicoltura in particolare. È la grande predominanza dei fattori climatici sopra le fortune del raccolto, che ostacola nel Mezzogiorno la introduzione della così detta coltura intensiva, con la quale si vengono naturalmente ad arrischiare somme maggiori. E a questo punto non possiamo fare a meno - per un vivo senso di doverosa giustizia sociale - dal riportare la mesta difesa che il Rivera fa del nostro coltivatore; una difesa che pur noi, con minore competenza, abbiamo sempre fatta, specie contro le denigrazioni che in ogni tempo son cadute su di noi sudici da chi, più fortunatamente, vive nella Italia più Alta. "Abbiamo anzitutto il dovere - scrive testualmente il Rivera di scagionare l'agricoltore del Mezzogiorno dalla accusa di inettitudine e di incompetenza, che troppo alla leggiera gli vien fatta. Chi conosce certe risorse tradizionali dei nostri coloni contro avversità antichissime, ma sopratutto la laboriosità, talora leggendaria, delle masse campestri del Mezzogiorno, non può oramai non sorridere di un'accusa così grave. L'ignoranza dell'alfabeto, così impudicamente strombazzata pel mondo, è rimpiazzata dalla sapienza multiforme con la quale, per secolari accorgimenti, il nostro rozzo colono sa combattere le infauste vicende di questo suolo e di questo clima così vario. La insufficienza è piuttosto dalla parte delle classi così dette dirigenti!". Che il più delle volte, aggiungiamo noi, non dirigono affatto, o non sanno dirigere un bel nulla! Come stanno ora le cose, è più che logico, naturale, che l'agricoltore del Sud, di fronte al rischio di un'annata disastrosa, preferisca arrischiare nella coltura la minor somma possibile, facendo soltanto lavori superficiali, senza appropriate concimazioni. Specie quando si consideri, come largamente documenta lo stesso prof. Rivera, che sono le coltivazioni più accurate (e dispendiose) e le piante più ingentilite, quelle che finiscono col pagare il più largo contributo alle avversità del nostro clima: mentre che le piante coltivate con metodi primitivi presentano una conformazione organica più vicina al tipo selvatico, cioè cuticola più spessa, statura minore, tessuti di sostegno più abbondanti, radici più sviluppate insomma, maggiori resistenze climatiche. Sono questi i fatti che ci spiegano veramente (altro che ignoranza e neghittosità meridionale!) la grande rapidità della diffusione di sistemi agricoli più accurati nei paesi a più alto reddito e la grande difficoltà ad accogliere gli stessi sistemi nei paesi a basso reddito. Ci spiegano pure questa certa inesorabilità dello scarso rendimento e della miseria agricola di queste zone, che sono le più lontane dai paesi a più alto prodotto e che sono costrette a persistere, per ragioni economiche e tecnico-agronomiche, nella coltura della "poca fortuna". Per quello che riguarda in particolare il frumento nelle nostre zone aride, sarà certo sempre opportuno e conveniente fare propaganda per una migliore lavorazione del terreno e una razionale concimazione, incoraggiando a perseverare in quelle zone e in quelle terre nelle quali alle prime prove (ed è in parecchie) si siano avuti risultati economicamente convenienti. Ma è invece un grave errore insistere ad imporre, o quasi imporre, la introduzione di metodi e di mezzi più costosi, quando già alla prova queste pratiche abbiano dato un aumento di resa che copra appena, o che addirittura non copra, il di più del danaro speso. In agricoltura, così come in ogni industria, è ovvio che i metodi antieconomici ammazzano le iniziative, distruggendo rapidamente le risorse dell'imprenditore. In conseguenza - prosegue il Rivera - oltreché vano non è neppure patriottico continuare ad insistere perché gli agricoltori di ogni parte d'Italia si uniformino ad uno schema unico, quasi a un'unica ricetta e ad un'unica medicina. Con cotesti concetti non riusciremo mai a sradicare nelle zone più povere d'Italia (che sono poi in maggioranza quelle aride del Mezzogiorno) il malessere agronomico, economico e... sociale, che tiene queste genti ad un basso tenore di vita e che costringe i più validi e i più generosi a trovar fuori della Patria le fonti per la propria esistenza. Solo la scienza agronomica moderna può salvare la situazione sempre angustiosa delle nostre zone povere, indicando per queste i metodi della rinascenza agricola che sono poi quelli della floridezza economica e dello elevamento morale. Ma fino a quando la organizzazione scientifico-agronomica, che si stenta a promuovere in Italia, non avrà date le vere, precise, sicure direttive nuove per sollevare dalla miseria il nostro Mezzogiorno, la esperienza empirica degli agricoltori meridionali rimane la sola in grado di fornire qualche dettame meno incerto. È infatti la esperienza del Sud che dice che l'antica regola del prato, dovunque, non è solo la base del benessere agricolo del Nord, ma anche del Sud, poiché quivi pure il taglio primaverile di medica o di prato si fa e si fa eziandio abbondante; in più c'è, qua a là, la possibilità di una utilizzazione a pascolo invernile, che è ricchezza in più per l'agricoltore e per la intiera Nazione. E' la esperienza del Sud che ci prova come dove sia possibile l'ulivo, l'uliveto quasi sempre riveste a nuovo l'agricoltore, mentre il grano, il più delle volte, lo spoglia e spoglia la Nazione. È la esperienza del Sud che ci dimostra come, al pari dell'ulivo, anche molte altre piante legnose, il mandorlo, il carrubbo, il fico e la vite (questa coltura purtroppo ora trovasi angariata dal fisco e angustiata dalla sovraproduzione) sieno capaci di fare entrare l'agiatezza nella casa del contadino (e per esso dell'Italia), mentre l'ampliamento della coltura granaria, specie nel Mezzogiorno, troppo spesso ne la scaccia. Sono verità semplici, chiare, facili a comprendersi - non è vero? -. Ma andate a farle capire in alto, ove le vertigini... dell'altezza svisano la realtà di tutte le cose, di tutti i problemi. Occorrono gabinetti, laboratorii, esperimenti, che sono compiti eminentemente di Stato; ma lo Stato oggi è troppo forte per comprendere queste... debolezze: é troppo in excelsis, per scorgere esattamente le bassure di questa misera terra! GIOVANNI CARANO-DONVITO.
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