Appunti sull'impresa fiumana
LA CRISI DEL DOPO GUERRA
Il bolscevismo fu - nell'immediato dopo guerra - segno di una immensa debolezza caratterizzata dal verboso rivoluzionarismo, ma insieme indizio ben chiaro che una nuova classe e una nuova epoca sorgevano alle porte della storia - la caratteristica espressione della crisi gravissima portata in Italia dalle classi popolari che, assenti da secoli alla vita nazionale, da plebi organizzatesi in popolo sotto il mito del proletariato, tentarono forzare con prorompente ed incauta baldanza i limiti stessi posti dall'ancor debole e fragilissimo vincolo che le univa in una organizzazione affrettata.
Questo insorgere e prorompere trovò l'Italia singolarmente impreparata ed abbiamo lo strano spettacolo di una vecchia ed esausta classe dirigente che, dimostratasi inferiore non solo a tutti i problemi posti dalla guerra, ma alla condotta stessa della guerre, esprime da sé, a propria accusa e a propria difesa, un movimento politico che si afferma quale critica veemente ai risultati della guerra, quale esasperazione per la non ottenuta pace, e che pur si limita e si conchiude in una verbosa impotenza, per essere figlio di quella stessa falsa classe dirigente che la guerra aveva condotta con disastrosi sistemi e, cocciuta, aveva a Parigi non ottenuta la pace ed esclusa l'Italia dalla politica europea.
Il "collaborazionismo" per cui la vecchia classe dirigente veniva incontro alla nuova nel tentativo di porre almeno le premesse per cui dal generale travaglio uscissero i lineamenti di un moderno Stato italiano, reso vitale dall'adesione delle masse, era il pallido sogno di pochi intellettuali.
Le classi dirigenti vivevano in Italia l'atmosfera della sconfitta sotto l'incubo di una minacciata imminente rivoluzione.
Tra l'azione incerta di una diplomazia che aveva trascinato l'orgoglio di un popolo vittorioso nell'umiliazione di chiedere agli alleati di guerra, e vedersela rifiutare, la propria pace, come un vinto può chiederla ai vincitori, e l'incubo di un movimento rivoluzionario che, arditissimo nei comizi di piazza, arretrava poi pusillanime, di fronte alla tante volte proclamata rivoluzione o dinnanzi alle responsabilità del potere - in questa paurosa ed esasperante atmosfera era naturale il sorgere quasi da un fenomeno di disgregazione della classe dirigente, piena di esasperazioni e di paure, di desideri di rinnovamento e d'incapacità, di un movimento di ribellione che trovava nei precisi problemi di politica estera la sua apparente giustificazione.
Una dolorosa eredità faceva su di noi le sue vendette: i secoli di servitù del nostro popolo, che mai era stato libero e già aveva spento la libera fioritura dei Comuni in un sorgere per tutta la penisola di mille tirannie, tutti questi secoli così penosi per chi studi la nostra storia e la compari con le civili glorie di Francia e di Inghilterra e della stessa Germania, portavano il loro doloroso contributo al movimento di ribellione e gravavano sulla nostra impotenza.
Lo si sentiva e se ne era ancor più esasperati. Si proclamava la riunione ideale alle tradizioni del Risorgimento: in realtà era l'opera del Risorgimento, "eroico sopruso di pochi", che rivelava le proprie deficienze, era lo Stato moderno, di cui appena si incominciavano ad intravvedere le linee, che soccombeva al sostenuto sforzo dell'atrocissima guerra: già si preparava la frettolosa ritirata verso schemi ed idee che si credevano per sempre superati.
In modo più specifico: quella classe che, anche se anti-giolittiana per contingenze politiche, aveva per dieci anni trovato in Giolitti il suo esponente, piegava e - rinnegando le ragioni che l'avevano fatta strumento di solidità e di ordine in Italia - si ribellava alla sua stessa incapacità ad esprimere, confusamente ancora, la sua volontà di vendette.
Il problema di politica estera denunziava una gravissima crisi interna, per cui invano nuove classi sorgevano e il servaggio di sette secoli accennava a scomparire di fronte a una rinnovata Italia.
La guerra aveva portato alla luce quasi un miracolo che si era lentamente compiuto e d'improvviso si schiudeva: un popolo che per secoli aveva dimenticato cosa fossero le armi impugnate a difesa della patria minacciata, un popolo che si era costituito a Stato passando di sconfitta in sconfitta, quel popolo aveva sostenuta e vinta una lunga durissima guerra. - Più ancora (la guerra è stata un fatto troppo complesso e universale perché dall'averla perduta o vinta se ne possano trarre sicuri giudizi) sorgeva una nuova classe capace di rendere effettiva l'unità della patria e richiamare all'Italia i valori della civiltà. Il sogno di Mazzini pareva avverarsi attraverso il verbo di Marx, il sogno di un popolo che non fosse più servo di spagnoli e di austriaci, di francesi o di oligarchie interne; i "negatori della patria" si apprestavano a ricondurre l'Italia sulle vie della storia.
Ma troppo difficile era il compito, troppo contraddittori erano gli sforzi perché anche questo nuovo ascendere di classi non mostrasse palesi le proprie debolezze e, incapace a risolvere con un colpo di forza la crisi politica, non finisse per dare armi e vigore a un'apparenza di giustizia ai propri avversari.
LA "PASSIONE ADRIATICA"
Grande era stata la delusione e amara la sofferenza dei fiumani e dei dalmati nel vedere o escluse addirittura le proprie terre dai confini segnati dal patto di Londra, per raggiungere i quali ufficialmente eravamo entrati in guerra, o minacciata l'annessione dalle trattative di pace.
La guerra aveva esasperato in essi il sentimento d'italianità, e la lotta che essi avevano condotto sotto l'impero austriaco ad affermazione e difesa della propria nazionalità, li aveva posti contro lo Stato austriaco non solo, ma contro le altre nazionalità oppresse che si ridestavano e che oggi trovavano nello Stato jugoslavo la loro consacrazione.
L'elemento slavo che da secoli era stato commisto e sottomesso all'italiano e che la secolare dominazione veneta non era riuscito a far scomparire, forte del numero si era ribellato, dalla campagna, alle città che, come erano state prima le roccaforti della Dominante, oggi erano destinate a difendere l'italianità sull'altra sponda. Il fenomeno dell'urbanesimo può spiegare così, più che l'opera snazionalizzatrice dell'Austria, il progressivo cadere dei comuni italiani nelle mani degli slavi. La lotta di due civiltà, che si pone come ribellione del contado contro la città, e sopratutto poi come lotta nel seno stesso della città, per la conquista del comune, si caratterizza con tutti i personalismi e strettezze di visione di una lotta municipale.
Questa contraddizione di essere i rappresentanti di civiltà che lottano fra di loro con tutto il pathos che danno secoli di storia - lotta tra l'elemento slavo insorgente con la forza del numero e con la vigoria della giovinezza e l'elemento italiano erede di una storia - e di essere costretti poi ad una battaglia per il pollice di terra, per l'uomo opposto all'uomo, e il sopruso opposto al sopruso, che fa perdere di vista alla fine gli scopi stessi per cui si lotta, pare fatale a tutte le zone mistilingui dell'oriente dove alla lotta già aspra per se stessa sovrasta un'azione statale di arbitrio.
Era convenienza dell'Austria dare la prevalenza al mondo slavo sugli elementi italiani più colti e sicuramente ribelli. Così gli slavi apparvero gli eredi dell'Austria e una guerra, dalla quale poteva sorgere una comprensione reciproca di due popoli liberi, parve persa dall'Italia per non aver potuto ricacciare e sterminare l'elemento slavo vivente da secoli al di qua delle Alpi e delle Dinariche.
Delegazioni di umani e di dalmati si portarono a Parigi per sostenere il proprio diritto ad unirsi alla madre patria; delegazioni venivano in Italia per scuotere il popolo e chiedere che non rimanesse insensibile al grido di dolore levato dai fratelli dell'altra sponda. Quasi in ritardo di mezzo secolo nei confronti del resto della penisola che, risolto il problema dell'unità e dell'indipendenza vedeva sorgere dinnanzi a sé il problema della propria capacità ad essere effettivamente una grande potenza - i profughi fiumani e dalmati venivano a parlare il linguaggio del Risorgimento ad un popolo che già sentiva il travaglio della lotta di classe.
Nobile, tenace, ma troppo a lungo chiusa nei confini della propria minore patria era la voce degli irredenti perché interessasse il popolo. Essi parlavano una lingua che il popolo non intendeva e troppo dura per loro era stata la lotta perché si rassegnassero all'opinione di chi, aprendo lo sguardo ad una più ampia visione, sosteneva che anche all'Italia vittoriosa spettavano (appunto in nome della vittoria) sacrifizi; in questa arretratezza storica, in questo porre una lotta di nazionalità che in fondo l'Italia ormai più non sentiva, sta la loro tragica posizione: essi finiscono per portare tutta la loro disinteressata ed ingenua passione a sol beneficio di una fazione più disposta delle altre ad accogliere (non ad intendere) le loro voci.
LA MARCIA DI RONCHI
La "voce di dolore" fu raccolta dai nazionalisti e la "passione adriatica" fu non tanto la causa quanto il simbolo della ribellione esasperata. Quella che doveva essere la bandiera di tutti gli italiani (anche di quelli che in nome del principio di nazionalità chiedevano fosse rispettato il volere delle maggioranze slave) rimase l'arma di una sola fazione. L'essenza del popolo preparava il mito dell'anti-nazione. Quella che doveva essere la base per una grande e alta politica veniva limitata non solo a fattore di grettezza nazionalista all'estero, ma sopratutto a strumento di partigianeria piccolo-borghese all'interno.
Si preparava l'ambiente che doveva condurre alla spedizione dannunziana di Fiume, non tanto episodio ai limiti di una trattativa diplomatica infelice, quanto espressione di una caratteristica situazione italiana; in Fiume poterono fondersi gli elementi diversi che, all'infuori della lotta di classe ormai già quasi esaurita in Italia, e detriti di questa, andavano affiorando nel torbido dopo guerra alla vita politica; il mito di Fiume e della Dalmazia parve dare ad essi unità di indirizzo e di azione.
L'esasperazione nazionalista, uscita da quella stessa classe contro cui insorgeva violentissima e che pretendeva abbattere, incapace per questo suo peccato di origine a portare qualcosa di nuovo nella vita politica italiana, postulava come unica via d'uscita da questa insanabile contraddizione la rivolta militare. Il mito della "vittoria mutilata" non poteva lasciare indifferenti le classi militari; e non tanto l'ufficialità effettiva quanto quei reduci che privi ormai del comando che la guerra aveva dato loro e non ancora restituiti (o incapaci di restituirsi) alle opere di pace, trovavano nella propria incertissima situazione, materiale e psicologica, il naturale incitamento ad una politica di avventure. Sorgeva così l'altro mito dei "combattenti" e delle "medaglie d'oro".
Questo incrociarsi di ideologie confuse e di esasperazioni, diverse per origine, ma dal comune sostrato psicologico, portava ad una situazione rovente di stati d'animo - facenti presa nell'arditismo dei reduci non solo, ma sopratutto fra la gioventù figlia di quella borghesia che appariva abbandonarsi alla deriva ora che si trovava ad aver spezzate nelle mani, dal pur brevissimo esperimento di lotta di classe, le vecchie armi di conservazione giolittiana. Si era alle origini, e il movimento poteva ammantarsi dei più seducenti colori romantico rivoluzionari e rivendicare a sé quasi una decisa volontà di rinnovamento nel corrompersi delle vecchie classi e dei partiti.
E così - mentre intorno al sentimento d'italianità degli adriatici si polarizzavano le ideologie patriottiche, mentre una critica superficiale faceva dichiarare funesta, in nome di coalizzate opposte ideologie, la lotta di classe - antichi mal sopiti rancori risorgevano e riprendeva vigore una atmosfera che la guerra aveva suscitato e la pace (ancora incompiuta d'altronde) non aveva spento.
Avevano facile presa gli appelli al patriottismo: la patria è in pericolo. "Chi poteva essere avaro del suo sangue dopo Caporetto? Chi può essere avaro del suo sangue oggi, dopo un'onta più grave, più oscura, più lunge di quelle?". Si venne alla marcia di Ronchi. Non è azzardato dire che se a capo della piccola spedizione armata partita da Ronchi la mattina del 12 settembre '19 non fosse stato Gabriele d'Annunzio, tutto si sarebbe ridotto ad un'avventura militare brevemente liquidata.
Fu d'Annunzio che diede risonanza nazionale alla spedizione, fu d'Annunzio che, suscitando adesioni ed entusiasmi, tenne in vita per più di un anno la rivolta armata.
Intanto mentre altri reparti dell'esercito regolare (pochi in verità) seguivano l'esempio dei primi occupanti, in un'atmosfera di simpatia e di quasi adesione da parte delle truppe rimaste "governative" e degli stessi alti comandi, incominciò l'affluire dei volontari da ogni parte del regno: ufficiali di complemento che abbandonavano la vita grigia dei depositi, qualche interessato a risolvere così un non confessabile problema materiale di esistenza, giovani, giornalisti, spostati intellettuali e letterati dannunziani. D'altronde sceverare i vari elementi che composero quello che già s'incominciava a chiamare "esercito legionario" non ha importanza di fronte al tono unico che era dato all'impresa.
Ragione immediata che portò alla marcia di Ronchi fu la minacciata occupazione da parte di truppe inglesi e la proclamata necessità di salvaguardare con la forza la volontà di Fiume di annettersi alla madre patria. Ma il programma iniziale, dalle adesioni che aveva trovato, dalle opposizioni suscitate e dalle necessità di allargare le basi della quistione per consolidare l'occupazione della città da parte di truppe raccogliticce e volontarie, in brevissimo tempo veniva a mutare d'aspetto. Altri scopi erano ormai dichiarati, altre voci si levavano: non basta l'annessione di Fiume all'Italia: sarà dalla Città di Vita che noi procederemo all'annessione dell'Italia a Fiume.
Il semplice episodio militare veniva così ricondotto alle sue origini politiche e psicologiche.
DALL'INFATUAZIONE NAZIONALISTA
ALL'ESASPERAZIONE SOVVERSIVA
Se il tono immediato ed esteriore lo si poteva leggere nei bollettini del Comando, di schietto sapore dannunziano, il tono vero ed interiore dell'impresa lo si cercherà nelle ragioni che ad essa avevano condotto. Bisognerà cercarlo nel tentativo disperato di insorgere contro l'immaturità dell'Italia senza uscire dalle premesse che quella immaturità confermassero, nel groviglioso accumularsi di passioni cacciate tutte in una via senza uscita, nella tragica situazione italiana posta tra il disfarsi di una vecchia classe dirigente e l'immaturità di una nuova.
La marcia di Ronchi non era stata solo il tentativo armato di imporre una determinata soluzione del problema adriatico, di forzare la mano insomma alla imbelle conferenza, di affermare in ogni modo il buon diritto di Fiume e dell'Italia, le sue origini erano più profonde, e radicate in tutto il sistema di vita politica italiana. Non era solo la quistione adriatica di Fiume che andava risolta, eravamo ad una svolta della crisi italiana; e invano l'impresa legionaria cercava trovare in se stessa una ragione vitale: "noi siamo venuti qui non per la questione del territorio, ma per la causa dello Spirito"; invano si postulava l'universalità dell'azione legionaria e il nazionalismo voleva gabellarsi come motivo mondiale per "raccogliere intorno alla bandiera di Fiume gli oppressi di tutto il mondo". Tentativo di dare al problema di Fiume un carattere universale era quello di chi, come Bissolati, sapeva poi "rinunziare" a Bolzano, e non quello di chi parlava prima in nome delle nazionalità oppresse e poi, giocando sull'equivoco di un'Italia protettrice di libertà, doveva ribellarsi all'abbandono di Vallona. In queste condizioni la spedizione di Zara non era che un diversivo, la progettata Lega di Fiume doveva risolversi in un poetico confusionarismo, e i legionari rimanevano serrati fra la logica delle proprie origini e l'impossibilita di ulteriori sviluppi.
Si giunse così alla crisi del primo Natale. Dopo le trattative Nitti-Reina e di fronte alle proposte di Nitti la doppia anima legionaria si rivelava a se stessa.
Le ragioni immediate che avevano condotto i legionari a Fiume trovavano un'accettabile soluzione. La "cause del territorio" era risolta nell'assicurata difesa dell'italianità di Fiume e il Consiglio Nazionale Fiumano che aveva chiamato Gabriele d'Annunzio e a lui rimesso i pieni poteri, accettava il compromesso col governo, vedendo in esso una sufficiente difesa del buon diritto della città.
Si è accusato Nitti di doppiezza e di ipocrisia, ma di fronte alla doppiezza dei suoi avversari il suo contegno fu piuttosto di ingenuità. Prevedendosene l'esito favorevole all'accettazione, il plebiscito prima ancora si aprissero le urne, fu dichiarato nullo; cacciati o partiti volontariamente i favorevoli al compromesso, rimase a Fiume "un pugno di uomini devoti al Comandante". Sulle ragioni immediate aveva il sopravvento la "causa dello Spirito", cioè il groviglio di esasperazioni e di ribellioni che in Fiume aveva trovato un comune punto di appoggio.
Si può dire che siamo di fronte ad una seconda marcia di Ronchi in cui questa volta prevalgono gli scopi rivoluzionari. La rivoluzione a cui si mirava era quella naturalmente che poteva sorgere da una confusa ideologia espressa da verbosa irrequietudine.
Anche questa volta d'Annunzio come nella notte di Ronchi fu il fattore decisivo; il movimento andava stringendosigli intorno, impersonandosi in lui. Egli chiamava il popolo ai "colloqui notturni", accompagnava i legionari nelle marce su per le erte colline carsiche in faccia al mare azzurro. Le sue parole limpide e sonore passavano sulle folle e le agitavano di consensi. Nel crogiuolo delle frasi sonanti si mescolava tutto l'estetismo decadente della sua arte minore con la retorica più abusata; e, d'improvviso, prorompeva una insospettata sincerità, in un bisogno represso di confidenza e d'intimità. Egli poteva radunare cosi intorno a sé la esasperata nervosità dei legionari e l'entusiasmo ingenuo, e un po' stupito di quello che accadeva dei fiumani; la sua sincerità di poeta non era intesa e nella sua insincerità verbale trovava appagamento l'ufficialità piccolo-borghese che lo circondava e a cui la "morale eroica" sonava come disgusto e stanchezza per la piccola e meschina vita quotidiana a cui le opere di pace l'avrebbero costretta.
Sorgevano così i colpi di mano, le beffe audaci e le ardite imprese, che trovavano poi nell'elogio del Comandante le proprie patenti di nobiltà.
I lunghi mesi di ozi e di attesa logoravano gli uomini, si formavano cricche di palazzo, piccole invidie e piccole congiure: per qualche giorno la truppa ignara e la popolazione vivevano in un'atmosfera di allarme e di sospetto, poi tutto abortiva e la piccola sedizione si risolveva in un allontanamento improvviso di capi noti e di qualche gregario; la voce chiara e metallica del Comandante chiamava a colloquio i fedeli e disperdeva le nebbie.
E' difficile sceverare tutta questa parte, un po' coreografica e molto decadente e abbastanza meschina, dall'ingenuo prorompere di passioni veementi che travagliano l'impresa. Sotto il linguaggio artificiale e stonato si brancola alla ricerca di una via d'uscita. A poco a poco ci si sente staccati dal resto della penisola: "il popolo è tradito dai capi imbelli, l'Italia è tradita dagli alleati e dal proprio governo". Si è parlato di "una causa più vasta", si tenta ora concretare una più precisa ideologia. Bisogna liberare il popolo dai demagoghi, restaurarlo alla libertà e al senso dei valori eroici, chiamare alla ribellione tutte le razze oppresse. Ma l'ideale di libertà a cui ci si appella é un ideale amorfo, buono per eroi mancati. Invano si fa un'affermazione di devozione e di sacrificio: la volontà di sacrificio si prova non in un eroismo decorativo, ma nella rinuncia e nella lotta di ogni giorno - e la lotta chiede non irrealità sognanti, ma previsione di propositi e di mete. L'"eroismo" preso come mito perde ogni valore eroico. NeI pseudo sindacalismo operaieggiante si cela inconscia una mentalità schiavista, l'antiparlamentarismo è un segno di stanchezza: illusione di anticipate lotte nuove e fondamentale inerzia di chi, adoperando fraseologia violenta e dinamica, per l'incapacità di affrontare una seria lotta, si rifugi in forme politiche sorpassate. L'ostentato disgusto per il parlamento non era certo ribellione di una severa moralità personale, era debolezza e impotenza politica - quella debolezza e impotenza che faceva rifiutare a questi "amici del proletariato" le forme sincere della lotta di classe, per innovare un paternalismo retorico e una falsa solidarietà patriottica. E' la via per cui si incamminerà il fascismo. "Il cardo bolscevico fiorirà in rosa italiana" è la parola d'ordine; l'affermazione anti-inglese sarà l'eco in tono minore e senza risonanze - tentativo mazziniano senza lo spirito di Mazzini - della reale opposizione dei Soviet; la proclamazione della Reggenza Italiana del Carnaro sarà l'ultimo tentativo di risolvere la contraddizione interna che tormenta l'impresa di Fiume. Alla "città di vita" viene chiesto un "atto di vita", sul territorio conteso si vorranno gettare le fondamenta di quello che dovrebbe essere "l'ordine nuovo".
L'ultimo dissidio col Consiglio Nazionale rimasto fedele all'aspetto puramente adriatico dell'impresa è risolto con la proclamazione dei nuovi ordinamenti fatta a voce di popolo nel prima anniversario della marcia di Ronchi. Ma ormai Fiume era isolata e straniata alle stesse forze politiche e allo stesso stato d'animo da cui la spedizione aveva avuto origine. I consensi giungevano ancora e i telegrammi di plauso e di entusiasmo, ma come saluti che si mandano ad un assente.
I legionari erano prodotto di una caotica e veemente situazione fatta di esasperazioni e di entusiasmi. Oramai erano chiusi nelle loro formule e nella retorica dannunziana come in un cerchio magico e, mentre cercavano innalzare e allargare la loro visione, perdevano contatto con la loro stessa realtà. A Fiume i legionari ne avevano la oscura sensazione e si sentivano come staccati dal paese, come viventi in un altro mondo; i fattori politici dell'impresa cadevano: spoglio di superstrutture politiche non rimase che il fondo sentimentale e psicologico che all'impresa aveva dato origine.
Ritornarono allora le parole infiammate dei primi giorni, si riproposero abbandonate pregiudiziali politiche, il sovversivismo legionario invoca la rivoluzione; "purché sia una rivoluzione"; ma la disperazione malcelata che anima questo nuovo sovversivismo ci rivela come agli stessi protagonisti apparisse il senso di irrimediabile incapacità politica che era nella loro azione. Siamo ad una svolta della storia. Se il socialismo si é risolto in sterile bolscevismo, cui seguirà - espressione della incapacità delle vecchie classi politiche - il fascismo, il sovversismo fiumano non potrà uscire dalla insanabile situazione, cui d'altronde aderiva per tutte le sue origini psicologiche, e sarà un altro episodio della penosa incapacità italiana.
"Così noi pochi - ma senza numero - ci leviamo contro la cecità di due continenti; e ne avremo ragione", ma queste - nella bella frase sonora - rimarranno parole.
Come punto di misura del nuovo sovversivismo si potrà prendere l'incapacità a penetrare la tragica serietà del movimento proletario. Sotto l'apparente meschina e pettegola campagna socialista contro l'impresa di Fiume c'è un senso profondo e sicuro della realtà: il sovversivismo fiumano poteva servire al più come massa di manovra rivoluzionaria, arma d'altronde a doppio taglio, ma le tendenzialità repubblicaneggiante e socialista non potevano illudere. Lo sdegno e la disillusione di molti legionari per l'incomprensione socialista erano abbastanza ingenui e indizio di una ben più grave incomprensione: il movimento operaio vive di realtà precise e s'impone attraverso la lotta severa. Le ribellioni sdegnose, i grandi sogni confusi e precipitosi conducono non alla rivoluzione ma al colpo di Stato. Gabriele d'Annunzio che per un momento è parso l'outsider della rivoluzione, ha lavorato per altri. La rivoluzione non è fatta di colpi di mano e la rivolta ideale scaturisce dalla lotta e dalla tenacia quotidiana, dal combattimento di ogni giorno, anche per conquiste materiali: solo attraverso questa disciplina, fatta di necessità materiali e morali insieme, si vincono le battaglie dello Spirito.
Eppure i legionari potranno illudersi per un momento di essere - quasi eredi del socialismo - i rappresentanti della nuova era storica; la fallita occupazione delle fabbriche invece non solo segnerà l'arresto del socialismo: sarà il segno all'inizio della reazione.
LA REAZIONE GIOLITTIANA
Era sorta in Italia una forza nuova. Con pochissimi aderenti da principio, mentre Fiume si isolava nel suo fragile sovversivismo, il fascismo si era ingrossato e si preparava a dilagare per tutta la penisola.
Sorti dal medesimo stato d'animo da cui uscì la spedizione dannunziana, a questa dapprima i fasci di combattimento si affrancarono, riunione ancora di pochi uomini, e nelle elezioni del '19 la lista delle "teste di ferro" raccoglieva solo qualche migliaio di voti.
Ma l'opera reazionaria era fatale alla logica del fascismo. Storicamente il fascismo non appare come espressione di una marxista lotta di classe che armi il capitale contro il lavoro, ma quasi fenomeno di decomposizione ai lati del socialismo, provocato dalla mancanza nel socialismo, di una moderna concezione di vita e di lotta in un clima storico immaturo. Mancava una seria volontà e una intransigenza nei due campi in lotta e il movimento fascista - dominato da pochi uomini di battaglia, agitanti un mito confuso e contraddittorio, ma preciso di poche formule - poté dilagare in quelle masse il cui affollarsi dietro il mito socialista non era frutto di una cosciente adesione, ma espressione di uno stato d'animo sedizioso e sovversivo. Passata la clamorosa ondata rivoluzionaria, tutto questo sovversivismo che prima aveva urlato, non comprendendolo, il mito di Lenin, poteva svelare finalmente sotto le formule fasciste la sua vera essenza reazionaria, e si poneva contro le ultime organizzazioni proletarie che, perduranti nella lotta anche dopo la doppia sconfitta, mantenevano ancora vive le premesse per una futura seria e vigorosa rinascita proletaria.
Fiume era stata un episodio di questa crisi gravissima che minacciava in Italia il crollo di tutta l'impalcatura dello Stato e l'annullarsi delle stesse basi per una vita civile in un pauroso insorgere di forze faziosamente sovversive: ora rimaneva da una parte isolata. La ribellione di cui Fiume era stata l'episodio armato, se era sorta agitando in apparenza una bandiera di patriottismo e di libertà, in realtà preparava la ribellione delle vecchie classi dirigenti che a egoistiche difese insorgeranno e si armeranno piene di odi e di paure. Di fronte al cedere del socialismo la baldanza aumentava, scomparivano gli ultimi pudori: anche le istituzioni e gli ultimi uomini che apparivano destinati alla difesa dello Stato moderno, si preparavano a gettare i ponti, a dare armi al nemico.
Sulla scena politica tornava Giolitti. Giolitti era il rappresentante della tradizione italiana quale si era formata dopo Cavour, tradizione di burocratica e paternalistica dittatura, corruttrice politica di uomini, dissolvitrice di partiti che impongono la responsabilità di troppo precisi problemi politici, ma non priva di benemerenze per la tranquillità economica, l'ordine e la prosperità del paese; e la definizione di "uomo dell'ordinaria amministrazione" che era stata data per accusa a Giolitti potrebbe rivolgerglisi a lode. Ma se, spinte dall'esempio del socialismo, forze nuove decisamente politiche parvero scendere in campo, per questo solo si annullava la possibilità della vecchia politica giolittiana. Giolitti non poteva che trovarsi contro queste forze nuove, e presentarsi come alleato del movimento di rivolta che avevano suscitato. Ormai anche la vecchia tradizione d'ordine che Giolitti pareva rappresentare era spenta, travolta nella crisi grandissima: le vecchie classi del tutto esautorate erano solo capaci di esprimere da sé rancori e incapacità.
Il "taumaturgo" ritornò quasi per riportare il paese stanco alla rimpianta tranquillità di prima della guerra; in realtà, con lui il fascismo ha porte aperte e causa vinta: sarà il giolittismo violento del dopo guerra. Le riforme sociali non avevano stroncata la volontà di rinascita e di azione politica del proletariato: verranno le squadre d'azione che inquadreranno contro le istituzioni proletarie lo stesso sovversivismo fazioso che queste avevano accolto.
Ora che i tempi erano maturi ed era gettata la maschera, l'alalà dannunziano andava di buon diritto a Giolitti e l'impresa fiumana, aspetto esteriore e patriottico della ribellione delle classi dirigenti contro le nuove che sorgevano - proletarie e (le più odiate) borghesi - era ridotta ai suoi fragili elementi di politica estera. Una politica estera vaga e imprecisa, fatta non di forza ma di debolezze, che si risolvono in odi ed in sospetti. In realtà di fronte ai vasti problemi della politica mondiale d'Annunzio ci si presenta come un "rinunciatario" e Nitti, diremo, come un intervenzionista; ma Nitti uomo di Stato in un'Italia immatura era stato impotente di fronte all'impresa fiumana.
In Italia il male non si cura che, giolittianamente, col male. La soluzione che Sforza presentava col trattato di Rapallo era risultato di una visione europea di problemi italiani, nella convinzione che solo una politica di liberi accordi potesse dare all'Italia prestigio morale di grande potenza; ma il trattato di Rapallo non fu nemmeno discusso a Fiume e forse non sarebbe stato neppure accettato anche se avesse dato l'annessione di Fiume e di tutta la Dalmazia. I legionari si erano posti ormai su di una strada da cui solo con le armi - in una disperata partita - potevano uscire. Il conflitto sarebbe stato nella logica delle premesse quando contro la ribellione dannunziana stava Nitti, ma oggi se d'Annunzio è ancora capo della rivolta armata e dall'altra è Giolitti a capo dello Stato, le forze faziose e sovversive sono dall'altra parte, e non più con d'Annunzio. Le cannonate del Natale fiumano daranno il sanguinoso annunzio della situazione cambiata: il fascismo si preparava alla conquista del potere e Giolitti, attirate a sé quelle forze da cui l'impresa fiumana aveva avuto origine, poteva isolarla e, ridottala nei suoi elementi di politica estera, presentata una soluzione, soffocare con la forza gli oppositori.
Fiume rimarrà un episodio isolato nel tragico capovolgimento di valori. Legionarismo e fascismo erano due faccie della medesima situazione storica, due aspetti del medesimo stato d'animo, e il fascismo non poteva vincere che a patto di annullare la lotta esterna - la "passionc adriatica" - e l'iniziale mito di libertà; solo a patto di abbandonarlo nell'ora tragica il fascismo poteva raccogliere l'eredità del fiumanesimo.
I caduti nelle giornate di Fiume - morti invano - sono il pegno tragico di questa vittoria. I ribelli di Fiume saranno stati i precursori del fascismo e con la loro resistenza avranno aperta la strada alla reazione fascista. Giolitti, mascherato di impassibilità piemontese, apparve il dominatore e il restauratore dell'ordine. In realtà il vecchio uomo di governo lavorava per il sovversivismo di destra.
MARIO LAMBERTI
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