I PUNTI DEL PROBLEMA(PER DEFINIRE LA DISCUSSIONE MARXISTICA)La discussione con Ermanno Bartellini, limitata da principio a due punti essenziali (il concetto delle crisi in rapporto alle rivoluzioni sociali, e il concetto di queste rivoluzioni e particolarmente di quella proletaria) é venuta, come suol sempre accadere nelle dispute, ad estendersi anche ad altri punti, sui quali si rivela l'esistenza di un dissenso, o la necessità di chiarimenti per mettere in luce fino a qual limite un consenso risulti e dove la divergenza cominci. Per avviare ad una conclusione la polemica col mio cortese contradittore (al quale sono molto grato delle gentili parole che ha per me e della serenità del suo discorso), credo utile fissare in tanti capi gli oggetti della dispute, che si sono venuti rivelando per via. 1) Il concetto generale del processo storico. Scrive il B.: "nell'economia della società umana, come in quelle individuali, gli sviluppi non possono avvenire che attraverso la linea di minor resistenza, poiché nessuna società vorrebbe affrontare un maggior dispendio di energie di quello strettamente necessario. Di questa legge assoluta occorre tener conto quando si studiano i fenomeni sociali". Io invece nego recisamente la legge del minimo sforzo nella storia. "Nella storia (ho scritto qualche anno fa, e torno più che mai a ripetere oggi) dove non vige il principio di economia o legge del minimo sforzo, il processo si svolge sempre con moti oscillatori, a zigzag, per via di urti e di rimbalzi, raggiungendo solo attraverso una enorme dispersione di forze quei risultati, che un'azione ragionata avrebbe ottenuto più fecondamente e sicuramente, per vie più piane, semplici e diritte". Le prove di questa mia convinzione possono essere date da tutta la storia, senz'altro imbarazzo per noi che quello della scelta; ma a me basta, oggi, una confessione recentissima di Zinovieff, che leggo di questi giorni nell'Avanti! (del 12 aprile): "Il processo storico segue una linea a zigzag e non già la linea diretta, che noi nella nostra ingenuità o piuttosto nella nostra mancanza di esperienza storica credevamo che dovesse seguire. Dunque, compagni, bisogna sempre tener presente che le questioni del tempo, dello sviluppo e dell'itinerario della rivoluzione risultano assai più complicate di quello che noi tutti prima si fosse pensato". 2) Il concetto generale delle rivoluzioni. Riconosce il Bartellini che per rivoluzione si deve intendere "tutto l'insieme delle azioni e dei fatti che concorrono a modificare totalmente la struttura sociale"; pur soggiungendo che, di solito, parlando del movimento rivoluzionario, si vuol caratterizzare, anzi che questo insieme, il momento del trapasso del potere politico da una classe all'altra. Insisto per la distinzione precisa e netta fra rivoluzione e presa di possesso del potere. La rivoluzione é un processo storico, che matura lentamente in una continuità di sviluppo, che potrà anche presentare in apparenza un alternarsi di stasi e di salti: ma sotto l'apparenza si ritrova la realtà meno visibile, senza la quale la stessa apparenza non avrebbe possibilità di presentarsi. L'insurrezione può essere anche un fuoco di paglia, che si spegne come s'è subitamente acceso, per un concorso momentaneo di circostanze transitorie, quasi soffiar di venti sopra scintille in vicinanza di un mucchio di materie infiammabili. Certo, sono necessarie le materie infiammabili ma queste non sempre sono capaci di eliminare il fuoco duraturo e costante di una rivoluzione. La quale più che nell'atto clamoroso del colpo di mano si riconosce nella solidità permanente (anche se silenziosa) dei resultati: dove questa manchi, la rivoluzione non esiste. Ci possono essere i tentativi falliti, e ci può essere un rivolgimento politico durevole, senza che ci sia una rivoluzione sociale. Non mi dilungo su questo punto, nel quale il Bartellini concorda con me, ed é questione soltanto della più o meno sentita esigenza di distinzioni nette: solo osservo che anche guardando al "momento del trapasso del poter politico da una classe all'altra", di cui parla il Bartellini, ci si può trovar di fronte a un processo continuativo e lento, invece che ad uno scoppio subitaneo e clamoroso. Il concetto marxistico della rivoluzione in permanenza è capace anche del significato sopra detto. 3) La posizione dei problemi storici e la possibilità presente della loro soluzione. Il Bartellini ripete con Marx: "l'umanità non si propone se non quei problemi che essa può risolvere... i problemi non sorgono se non quando le condizioni materiali per la loro soluzione ci sono già o si trovano per lo meno in atto di sviluppo". Ho già spiegato nelle Orme di Marx (IIIª ed., capitoli aggiunti allo studio su Feuerbach e Marx) in che cosa tali proposizioni di Marx non siano accettabili. Pienamente valide come criterio normativo ossia come esigenza, affermata per guida all'azione storica consapevole e volontaria, sono, invece, da intendersi con molti grani di sale come constatazione storica, alla quale contradirebbe tutta la storia delle utopie. Bisogna specialmente attenersi all'ultima parte del passo di Marx: che le condizioni per la soluzione siano in via di sviluppo; ed aver presente che lo sviluppo storico si conta più facilmente a secoli che ad anni. 4) Il vario grado di sviluppo delle varie forme di produzione, inerenti ad una determinata società. Dove talune possono aver già raggiunto un tale grado di sviluppo, che in esse le forze di produzione entrano già in conflitto con le forme di proprietà e di distribuzione, altre invece, nella stessa società, possono trovarsi ancore ad una fase molto meno avanzata; sicché per le une giunge il momento delle socializzazioni quando per le altre non é ancora maturo. Su questo punto il Bartellini concorda pienamente con quanto io scrissi nel saggio sul Socialismo e il movimento storico presente e sulla risposta a Claudio Treves; quindi egli pure viene a concordare per lo meno nelle premesse di quella mia affermazione, che "non c'è bisogno che le rivoluzioni si compiano (come i semplicisti della storia sanno unicamente rappresentarsi) in modo schematico e per separazione assoluta dell'antica e della nuova società ". E questo si collega con un altro punto di discussione, che concerne 5) il momento di una rivoluzione e la maturità delle condizioni. Guardando nella rivoluzione l'atto esteriore della presa di possesso del potere, si può ammettere (come ho già riconosciuto) che questo atto insorga prima che la pienezza delle condizioni sia raggiunta. Ma, come dicevo nel precedente articolo, é questione di misura, nella quale è facile agli uomini coinvolti nelle lotte e nelle passioni del tempo ingannarsi, con le loro previsioni e aspettazioni fiduciose o pessimistiche; sicché il giudizio vero può esser dato solo dalla successiva esperienza storica. Marx stesso in più di una previsione si è ingannato; e le discussioni e le lotte ferventi del dopo guerra per buona parte hanno rispecchiato, in Italia, in Germania e altrove, le divergenze di apprezzamenti. Nella stessa Russia il dissidio fra Lenin e Zinovieff al momento della rivoluzione d'ottobre del 1917 documentava la possibilità di dispareri nel giudizio sulla maturità dei tempi. La pienezza dei tempi non significa pienezza compiuta delle condizioni materiali: significa possibilità che l'atto risolutivo abbia un risultato di fecondo acceleramento del processo di trasformazione in corso, invece che di rallentamento, di ostacolo, e magari di arretramento e successiva sconfitta almeno temporanea. Quelle possibilità sono condizionate da altre, che costituiscono un nuovo argomento di discussione: 6) le possibilità e la direzione dell'azione successiva alla presa di possesso del potere. Il Bartellini mi cita Marx; "il proletariato profitterà del suo dominio per togliere via via alla borghesia ogni capitale e per accentrare tutti gli strumenti di produzione in mano allo Stato" con un "dispotico intervento nel diritto di proprietà".Ma qui, precisamente, è il problema: se quest'azione risulti possibile e feconda nei fatti, la decisione della presa del potere ha dall'esperienza storica la sanzione della sua legittimità; il giudizio sulla pienezza dei tempi vien confermato esatto. Ma se invece, o dopo vani tentativi di attenersi alla norma su citata, o senza la precedenza di questi, l'azione della nuova classe dominante sia costretta a svolgersi nel senso di lasciar dominare le vecchie forme di produzione non riuscendo a sradicarle, ci significa che queste rispondono ancora ad una necessità storica non superata. E il loro mantenimento o il loro ripristino forzato difficilmente potrà conciliarsi colla permanenza al potere della nuova classe dominante, impossibilitata a sostituire le nuove forme sue proprie e quelle precedenti, proprie di altra classe dominante. Il Bartellini dirà che io qui, con le mie argomentazioni voglio puntare sulla Russia. Certo: ecco un altro punto di dissenso: 7) la rivoluzione russa. Ma su questo punto, che richiederebbe un discorso molto lungo e documentato, io debbo rimandar il Bartellini a ciò che ho scritto ampiamente altrove. Il Bartellini crede di trovare un forte appoggio a talune sue argomentazioni sulla necessità di comprendere (ossia di giustificare) la rivoluzione russa. Senza dubbio questa, come ogni fatto storico, deve essere compresa ossia giustificata: una visione storica, che non fosse capace di altro che di pronunciare su quel grande fatto una condanna (come tanta gente suol fare), dimostrerebbe con ciò appunto la sua insufficienza o erroneità. Ma io credo per l'appunto di aver dato della rivoluzione russa la vera giustificazione storica; e dal primo abbozzo di critica storica, che ne ho tracciato (dopo le polemiche iniziali) fin dal 1921 sulle colonne della Critica sociale sotto il titolo Significato e insegnamenti della rivoluzione russa, al rifacimento di essa in ampio studio documentato per la 3ª edizione delle Orme di Marx, fino al più recente mio articolo Sintomi premonitori in Russia, nella Critica sociale di questo gennaio, ho visto i miei giudizi e le mie previsioni pienamente confermate via via dai fatti, dagli orientamenti dell'azione dal governo dei Sovieti, dai riconoscimenti e dalle confessioni di molti che, o contro di me o senza pur sapere della mia esistenza, avevano dato giudizi affatto contrari al mio. La conferma dell'esperienza storica mi conforta a credere che nell'interpretazione della rivoluzione russa e del suo destino futuro io avessi veduto alquanto più addentro di molti altri, apologisti o avversari, che nella esaltazione o nella condanna non avevano colto l'essenza reale di quel grande fatto storico. Ma qui, evidentemente, non posso star a dimostrare come e perché la vera rivoluzione compiuta in Russia, sotto l'apparenza di rivoluzione proletaria comunista, sia una rivoluzione agraria piccolo-borghese; la quale solo nei modi e nelle condizioni in cui si è compiuta, aveva la possibilità di compiersi (il che giustifica pienamente il fatto storico), ma dalla sua natura effettiva ha tracciato il cammino delle sue vicende successive, sicché la Nep, con tutti i suoi ulteriori svolgimenti, non é che una necessità storica, come tale pienamente giustificata essa pure. Partendo da tale interpretazione io avevo potuto (facile profeta) prevedere gli sviluppi successivi, che l'esperienza storica sta confermando in misura sempre crescente. Ma qui non posso documentare; a chi si interessi dell'argomento non posso qui dire se non che credo di aver documentato altrove. Pertanto io non credo che la soluzione del problema: come e perché la rivoluzione si sia prodotta in Russia anziché altrove - vada cercata, come tende il Bartellini, fuori delle condizioni proprie della Russia. Non è una ripercussione di una crisi generale dell'Europa e del mondo capitalistico: la quale crisi nell'ottobre 1917 (in piena guerra e tensione della produzione di belligeranti e di neutri nel soddisfacimento della ansiosa famelica richiesta che la guerra generava) non s'era prodotta ancora, o per dir meglio non s'era ancora fatta sentire, pur preparandosi e svolgendosi nell'immensa distruzione di beni che la guerra produceva. E con questo argomento della crisi veniamo ad un ultimo punto di discussione. 8) Le crisi. Dice il Bartellini: la distinzione tra crisi di sovraproduzione e crisi di esaurimento non regge; le uniche crisi che si possono verificare in periodo capitalistico sono le crisi di sovraproduzione. E mi cita quel brano del Manifesto dei comunisti, in cui si parla della "epidemia della sovraproduzione" "La società si trova improvvisamente ricacciata in uno stato di momentanea barbarie; una carestia, una guerra generale di sterminio sembrano averle tolto i mezzi di esistenza: l'industria, il commercio sembrano annientati, e perché? Perché essa possiede troppa civiltà, troppi mezzi di esistenza, troppa industria, troppo commercio". Ora questo passo di Marx va chiarito. Nella sua rapidità sintetica presenta uno scorcio troppo abbreviato, tale da ingenerare confusioni, se non lo si distenda in una visione di fronte, che distingua i momenti, le parti, gli intervalli. Il primo momento è la crisi di sovraproduzione. Gli strumenti tecnici, il capitale accumulato, le forze vive han raggiunto una capacità produttiva che è in eccesso in confronto o alla capacità di assorbimento dei mercati aperti, o alla pronta disponibilità delle materie prime, o ad entrambi questi elementi di alimentazione e di sfocio della attività produttiva. Si ha allora un ingorgo dei prodotti non più sufficientemente assorbiti dai mercati, o una forzata inoperosità dei mezzi tecnici non più sufficientemente alimentati dalle materie prime: in entrambi i casi un arresto del funzionamento della produzione, con disoccupazione di operai e fallimento di industriali e commercianti. Disagio, rovine, miseria in conseguenza precisamente di un eccesso di civiltà e di industria e di bisogno di espansione commerciale. Ecco la crisi di sovraproduzione. Ma talvolta, prima che si arrivi al suo compimento, quando se ne profilano i sintomi premonitori, le nazioni interessate tentano di riversare sopra le nazioni rivali il danno della crisi, che sovrasta minacciosa a tutte quante del pari. Accaparramento di materie prime, conquista di territori e di colonie che rappresentino una sorgente di quelle e insieme uno sbocco per i prodotti, imposizioni di vassallaggi commerciali o distruzione e limitazione dei mezzi di concorrenza di cui le nazioni rivali dispongono, accaparramento di mercati e via dicendo: ecco i fini e i motivi di un conflitto armato, che tenta di prevenire per sé, a danno esclusivo altrui, il temuto pericolo di crisi industriali e commerciali. Il ferro dal bacino di Briey o della Lorena, il carbone della Saar o della Ruhr o della Slesia, il mercato orientale turco-persiano-indiano o cinese, i bacini petroliferi, le colonie africane o asiatiche, il dominio delle vie marittime, e così via, ecco tanti oggetti di feroce contesa. La immane guerra mondiale, che per cinque anni abbiamo vissuta e di cui portiamo ancora le ferite doloranti, ebbe i suoi più profondi motivi nel bisogno di accaparramento delle materie prime e di conquista dei mercati, in Europa, in Asia, in Africa. Figlia dunque di una crisi di sovraproduzione e dei conseguenti conflitti industriali e commerciali, a sua volta la guerra diventa genitrice di nuovi effetti. Una distruzione immensa di prodotti e di riserve, con una intensità quale mai per l'innanzi s'era vista; il mondo intero ne risulta fiaccato in un esaurimento non più sostenibile di forze, di uomini, di mezzi. Guerra di logoramento, pace di esaurimento. Solo quando l'esaurimento è giunto ad un grado insostenibile per una delle parti belligeranti, s'è arrivati alla fine dal conflitto; ma se Messene piangeva Sparta non rideva; e Sparta non erano solo i vincitori, ma gli stessi neutri, che per cinque anni avevano lavorato e prodotto sopra tutto per la guerra, e quindi avevano essi pure logorate e distrutte le loro riserve di materie prime e di mezzi di sussistenza. Il travaglio e i sussulti, che nelle nazioni vinte hanno raggiunto il massimo grado di intensità, si son risentiti anche nelle nazioni vincitrici e nelle neutrali, tutte spossate dall'immane sforzo teso per cinque anni, tutte gettate in una depressione dalla quale è arduo ed aspro il risollevarsi. Tanto arduo, tanto aspro che, come nota giustamente il Bartellini, siamo ancora ben lontani dall'intravedere il ricupero della sanità, e della vecchia energia. Dunque abbiamo tre momenti successivi: crisi di sovraproduzione (che si veniva delineando) - guerra di sterminio - crisi di esaurimento e sottoproduzione. "L'industria ed il commercio sembrano annientati", ripeteremo con Marx; ma alla domanda, che egli soggiunge; "e perché?" noi risponderemo distinguendo i momenti. "Perché la società possedeva troppa civiltà e troppa industria" al momento iniziale, che non possiede più (e deve ricostruire) al momento finale. La crisi postbellica non è più quella di anteguerra, anche se ne sia conseguenza: e ben diversi sono anche i suoi effetti. Essa ha, certo, esasperato per un momento le tendenze rivoluzionarie; ma non ha cresciuto le possibilità di trasformazione. Anzi le ha diminuite perché le forze innovatrici si trovano a dover affrontare problemi preliminari, che le deviano dalla direzione dei loro programmi, e sono per esse inevitabile elemento di debolezza. Lo stesso moltiplicarsi delle scissioni in seno ai partiti proletari è un effetto di questa tragica antitesi fra le aspirazioni, esasperate dal crescente malessere, e le possibilità, diminuite dalle stesse cause, onde il malessere si genera. Concludendo, che è ormai ora: questa discussione ha rivelato punti di consenso e punti di dissenso, più numerosi che non apparissero forse da principio. Ma è stata ben qui la sua utilità chiarificatrice; per la quale, nel chiudere per parte mia il dibattito, non ho che a compiacermi di averne accolto l'invito, tanto più che mi veniva da così valente e sereno avversario. RODOLFO MONDOLFO
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