POLEMICHE SUL MEDIO CETO

La burocrazia

    Il "Risorgimento" - quotidiano democratico del mattino - trova nell'articolo di A. Monti in R. L. n. 14 un delitto di lesa democrazia nella svalutazione politica delle "plebi analfabete dei Mezzodì" e delle "plebi diplomate e addottorate degli apolitici della bassa burocrazia". Le parole di Monti sono indubbiamente forti, ma si tratta di vedere se sono vere.

    Cosa sono e cosa furono dall'inizio dello Stato italiano come classe o come ceto quelle 700.000 persone che, secondo i più recenti calcoli, traggono la loro esistenza dalla rimunerazione di servizi prestati allo Stato? E' una borghesia curiale, o un ceto sminuzzato e disperso che non troverà mai in sè un punto di equilibrio e di forza?

    Gli antichi Stati ben ordinati, come il Piemonte, ci avevano dato l'immagine e il tipo, prolungatosi poi nei primi decenni del nuovo Stato, di una burocrazia molto dignitosa, passabilmente ignorante ed estranea agli affari, generalmente onesta, accentratrice, metodica, misoneista, gerarchica nell'animo. All'esterno, di dichiarata nessuna capacità politica, nè volontà di esercitare parte politica, genericamente conservatrice, ma un conservatorismo apatico che non si impegna mai oltremodo per la difesa di quelle che dovrebbero essere le sue aspirazioni, con un sentimento di casta temprato da quello della propria nullità politica.

    Coll'allontanamento della capitale da Torino cessò in gran parte l'afflusso di nuove reclute di tale tipo nella burocrazia, e l'avvento al potere della sinistra, inteso momentaneamente come una conquista del governo da parte dell'antica, opposizione meridionale, cominciò a mutare profondamente i caratteri del ceto burocratico. Esso divenne lo sfogatoio meschino ma sicuro dei figli della pseudo-borghesia meridionale, il riparo contro la superproduzione e conseguente disoccupazione di laureati e di diplomati del Mezzogiorno. Se si sfoglia l'Annuario di qualsiasi Amministrazione - il Codice e la Bibbia della Burocrazia - o qualsiasi graduatoria di concorso si vede che i nomi sicuramente meridionali sono nella enorme maggioranza. Questo certo non è un bene perché può contribuire ad estraniare la burocrazia dalla massa degli amministrati, ma poteva avere i suoi lati utili in quanto conduceva o poteva condurre alla formazione di un ceto omogeneo non senza influenza sullo sviluppo della borghesia meridionale. L'uguaglianza delle origini e delle funzioni, l'esercizio effettivo di buona parte della sovranità spicciola dello Stato, la necessità difesa dell'unità statale, la conoscenza dei congegni interni dello Stato stesso, erano ragioni che dovevano contribuire a formare della burocrazia un ceto autonomo, faticosamente ritrovante la propria coscienza, con una propria politica, una vera borghesia insomma.





    Tutto ciò non fu. Prima causa, la insufficienza economica. La burocrazia non aveva quella indipendenza materiale, quella floridezza mercantilistica che avrebbe potuto toglierla dalla sudditanza dello Stato padrone, per farla partecipare al governo di quello Stato di cui fosse cittadina. Per essere politicamente ceto medio bisogna esserlo anche economicamente, ed economicamente la burocrazia nostra fu invece sempre ceto infimo o quasi. E come gli insufficienti redditi terrieri impedivano alla classe padronale del Mezzogiorno di poter cessare di essere un povero ed anacronistico ceto feudale per diventare borghesia, così la insufficenza salariale della burocrazia le impediva di esser qualcosa di più di un gruppo scontento di servitori dello Stato. E dalla insufficienza economica muovono gli altri malanni. Si vendeva la primogenitura politica per il piatto di lenticchie della gratificazione o del sessennio. Non potendo migliorare tutti insieme, ognuno cercava il proprio miglioramento nello scavalcare i colleghi, nei complicati giuochi degli organici, nelle sapienti e meditate proscrizioni, nel "gabinettismo" infine in cui tutti gli elementi meno belli e meno puri della mentalità meridionale si fondevano e si potenziavano con quelli più spregiudicati ed obliqui della mentalità burocratica. E taccio di altri e più gravi malanni che si sarebbe ritenuto dover la insufficenza salariale portare con sè come triste conseguenza, e che non furono mai tanto profondi ed estesi da intaccare la onorabilità della burocrazia italiana.

    Sicchè nulla poteva significare che un antico impiegato, il Giolitti, salisse alla maggior carica di governo e per venti anni riassumesse in sè la politica italiana. Giolitti non rappresenta affatto, nè il tipo, nè i sentimenti o le aspirazioni di una classe burocratica. Egli è un impiegato di troppo vecchio stile perchè i nuovi vi si rispecchino, e la burocrazia meridionale, povera e intrigante non ha nulla di comune col piccolo proprietario piemontese impiegata all'antica, se non forse un certo senso di frammentario problemismo nel considerare le condizioni della vita italiana.





    La burocrazia italiana, o almeno la parte più attiva ed intraprendente degli impiegati italiani, trovò invece la sua prima esperienza politica nel nittismo.

    Già durante la guerra gli impiegati, o almeno i più intelligenti tra essi, avevano risentito la funzione economica e politica che poteva essere loro. Il violento e necessario intervenire dello Stato nella economia privata aveva dato loro il senso degli affari e il desiderio di più intensa vita economica. Da questa burocrazia che aveva fatte le sue prime armi durante la guerra sorse un gruppo di impiegati (i due Beneduce, Giuffrida, Ruini, De Vito ed altri minori) che dall'impiego passarono alla vita politica, non come ad un campo diverso di attività, ma come un allargamento del campo originario, come rappresentanti di un sistema amministrativo che, chiarendo e raggiungendo la coscienza di sè medesimo, diviene sistema politico. Erano rappresentanti tipici della burocrazia, quando di meglio e di più tecnicamente preparato essa possedeva e, se la loro attività e il tentativo cui diedero la loro opera avessero trionfato, avrebbero mostrata come la burocrazia italiana potesse essere matrice di ceti dirigenti, capace per questa via di essere classe, e classe cosciente e autonoma.

    La espressione politica di questo tentativo di inserire la burocrazia nella vita italiana fu il nittismo. La posizione di equilibrio di Nitti che governava col più forte e minaccioso partito della politica italiana pregiudizialmente contrario e senza valido appoggio di altri partiti ben poteva legittimare questo ricorso alle forte della amministrazione trasportate nel campo politico. Ma nell'immane difficoltà e nella precarietà dello sforzo di questo governo per procura di assenti volontari non poteva trovarsi equilibrio sicuro. Caduto Nitti il gruppo degli impiegati trasferiti dalla amministrazione nella politica si sbandò: se alcuni tennero fede agli ideali democratici, altri si ritrassero in disparte ed alcuni si accodarono al vincitore.





    Ma fra Nitti e la marcia su Roma un altro tentativo si era compiuto: quello che culminò collo sciopero degli impiegati nel maggio e giugno 1921. Se la insufficenza economica era la causa principale della incapacità politica, certo, come per le classi operaie, la lotta salariale era il campo ove riconoscere e sperimentare la vitalità della classe, anzi la sua capacità a divenire veramente tale. Se gli impiegati avessero ottenuto, coi loro mezzi, aumenti di stipendio, non tanto ne sarebbero stati avvantaggiati come singoli ma avrebbero acquistato la coscienza di essere una classe, sarebbero quel giorno divenuti borghesia. Tali le ragioni profonde della agitazione e appunto perciò il fallimento di essa, tra le promesse non mantenute e le rappresaglie di Giolitti, non fu un momentaneo insuccesso facilmente riparabile, ma la prova definitiva della immaturità della burocrazia italiana ad essere borghesia.

    Ora la riforma Acerbo, segmentando la burocrazia in una complessa gerarchia di tredici gradi, ne ha annullato qualsiasi capacità unitaria di ceto economico, ne ha fatto tanti piccoli gruppi queruli e discorsi, sicchè la stessa resistenza che la classe degli impiegati oppone ad essere fascistizzata non ha neppure valore di lotta politica.

    In base a queste premesse e a queste constatazioni, cosa rappresenta la burocrazia, le plebi addottorate e diplomate? Terzo, quarto o quinto Stato? Nulla, questa è la parala più dura, ma più sincera. Un ceto che non ha forza economica, una classe che non ha coscienza politica. Non una borghesia che si fa, o una borghesia che si disfa, ma un conglomerato caotico di persone destinato ad apparire solo di tanto in tanto come fuoco fatuo sull'orizzonte della vita italiana.

GIUSEPPE VESCOVINI




Consumatori e impiegati

    La questione dei ceti medii preoccupa molti spiriti; è anche evidente, che molti partiti - o senz'altro, tutti? - ne tentano l'accaparramento; ma nonostante ciò, e anzi forse per ciò, la confusione delle idee è estrema.

    Prima che la critica socialista mettesse a nudo i rapporti reali della società e definisse i gruppi conforme alla loro funzione nell'economia, le classi lavoratrici erano designate, genericamente, col nome di classi "umili". Era una definizione di sapore medioevale e cristianeggiante, e, comunque, economicamente indistinta. Ma, nella stessa guisa, si può dire che oggi ancora la definizione della "classe media" è fatta senza alcun riferimento al còmpito sociale specifico che la classe stessa adempie; e non consiste, in fondo, che in una collocazione, puramente topografica ed estrinseca, fra le classi "superiori" e le classi "inferiori". Ora una analisi fatta in questo modo è del tutto insufficiente. Il socialismo, come teoria e come azione, è nato quando dalla vaga nebulosa del proletariato del Lumpenproletariat è diversa la nozione distinta d'una vasta classe di cittadini, che vive esclusivamente del proprio lavoro produttivo. Egualmente si può dire che la democrazia - dato e non concesso che essa sia monopolio della classe media - non potrà realizzarsi se non quando dall'idea caotica di ceti medii si saranno tratte fuori delle distinzioni ulteriori: appoggiate, nelle grandi linee, su criterii somiglianti.





    L'intuizione comune ha già perfettamente visto che non si può mettere insieme, come se fossero la stessa cosa, queste due cose tra loro ben distinte: l'individuo, che vive di un piccolo reddito non guadagnato con la propria attuale attività di produttore, come il rentier, il pensionato, il figlio di famiglia, il monaco, ecc. ecc.; e l'individuo che, viceversa, il suo modesto reddito se lo procaccia col suo lavoro, come l'impiegato, il tecnico, l'artigiano, il coltivatore agricolo, ecc. ecc. Ora è questa intuizione che si tratta di sviluppare. Le correnti democratiche paesane, figlie di una tradizione patriottica letteraria e cresciute in un ambiente di scarsissima maturità capitalistica, non la hanno, nella loro prassi reale, sviluppata affatto. Esse sono rimaste per lungo tempo, e lo sono in gran parte ancora oggi, alla fase generica della indistinzione. Si sono presentate come esponenti indifferenti degli interessi dei ceti medii lavorativi e di quelli consumatori; ma, in sostanza, poiché i fatti inerenti al consumo sono più facili a essere percepiti e, apparentemente, più facili a essere modificati, hanno agito come correnti politiche dei consumatori. Il "cavallottismo" fu questo. E questo spiega anche la singolare incomprensione e la reazione vivacissima che queste correnti (in quanto non si identificarono, come è accaduto in gran parte, con la borghesia liberale vera e propria) misero in opera contro i partiti socialisti, che, rappresentando la classe operaia, esprimevano allo stato puro l'idea di Lavoro. Tra questi e quelle vi è, infatti, un contrasto di interessi: quello che è evidente, fra la classe operaia, che vuol appropriarsi la maggior parte del reddito totale sotto forma di alti salari; e la classe dei consumatori, che vuol appropriarselo sotto forma di bassi prezzi e di vita. Ma vi è anche un contrasto di mentalità: quello appunto che pone l'una di fronte all'altra l'idea, eminentemente progressiva, di lavoro, e l'idea, fondamentalmente conservatrice perché parassitaria, di consumo.





    Ora si fa presente da più parti il processo di "proletarizzazione" cui sono stati sottoposti, in seguito alla guerra, i ceti medii; e si desume da questo loro precipitare lungo la scala dei redditi, la ragione per convogliarli, tutti quanti, nell'orbita della democrazia e, anche, di qualche partito socialista. Ma, innanzi tutto, il dato di fatto, da cui si vuol prendere le mosse, non è esattamente rappresentato. Se la proletarizzizione di alcuni ceti medii è indubitabile, essa non ha però colpito tutta intiera la classe; e, anzi, non ha colpito che quella parte di essa, che vive di redditi fissi senza rivalsa, e perciò solo si può supporre, improduttiva. Che, da un punto di vista umanitario e demagogico ci si interessi anche di questi strati, che si potrebbero chiamare del Lumpen-mittelstand, si capisce benissimo. Però ciò che non si intende è che si possa occuparsene, e presentarli anzi come cospicua massa di manovra, dal traguardo d'una ideologia socialista, che, in ogni caso, è una ideologia celebrativa del lavoro. Se ciò è potuto accadere, è segno che talvolta l'ispirazione socialista, dilatandosi al di là della sfera operaia, può rischiarsi in contaminazioni, che, in istretto senso, válicano i limiti opposti della nozione stessa di democrazia. Questa ha infatti la sua base naturale nei medii ceti. Ma, conforme alla sua origine, li considera come espressione d'una forza viva, creatrice, socialmente utile del nesso collettivo, e, intanto li ravvisa come popolo politicamente operante, in quanto vi veda i segni d'un ceto produttore. Chi è fuori dell'idea di produzione e di lavoro è fuori dall'idea stessa di democrazia. Non è un paradosso dire che tutti i ceti improduttivi e parassitarii, a qualunque classe appartengano, sono una forza conservatrice e che, al contrario, ogni ceto impiegato nella sfera della produzione della ricchezza, entra nell'orbita della democrazia, e, in questo alto senso derivato dal midollo marxistico, nell'orbita del socialismo.





    È ormai chiaro che il fascismo sta per approfittare delle migliorate condizioni delle classi industriali ed agrarie per portarle, dopo un triennio di arricchimenti incontrollati, a riversare una parte dei benefici conseguiti sulle classi minori. I segni di questa conversione sono ormai numerosi. La lotta ingaggiata contro alcuni gruppi dominatori dell'economia bancaria, la iniziata politica di stabilizzazione della lira, il cauto dischiudersi di alcuni scioperi a base strettamente salariale, la concessione di aumenti agli impiegati e pensionati ecc. ecc. sono tutti indizi evidenti del nuovo indirizzo. È un nuovo paternalismo economico a beneficio dei medii ceti consumatori che comincia. Ma ogni traccia di democrazia è estranea a questa specie di iniziativa. Tutti i ceti puramente consumatori, grassi o magri che siano, sono assolutamente incapaci, appunto perchè non operano nel ciclo produttivo utile, di svolgere nessuna di quelle autonome attività in cui consiste la democrazia. I tentativi democratici del fascismo sono, come è logico che siano, tentativi di pseudodemocrazia. Per converso, i soli strati della classe media sui quali possa fondarsi una politica progressiva sono quelli che, adempiendo un lavoro utile, possono sviluppare una loro propria azione di elevazione e di emancipazione; e che, appunto perciò, non hanno subìto nessun particolare processo di proletarizzazione. È perfettamente l'opposto di ciò che sostengono, per evidenti ragioni di demagogia, la maggior parte dei partiti, che si chiamano "democratici". E, in realtà, tra questi e la democrazia vi è un grande divario, praticamente quasi incolmabile: quello stesso che separa il movimento socialista, fondato su una classe operaia organica, da tutti quei presocialismi parrocchiali, signoriali, caritativi ecc, ecc., da cui appunto l'autonoma e cosciente prassi classista si è sprigionata ed è emersa.

    Tutto ciò molto probabilmente prepara, a scadenza più o meno lunga, una nitida differenziazione nell'indistinto coacervo dei partiti democratici. Se questi debbono avere la loro base economica nei ceti medii, la distinzione fondamentale che è in questi ultimi deve forzatamente ripercuotersi nei partiti. È difficile dire precisamente in quale misura. Ma si può ritenere per certo che, nelle grandi linee, i gruppi medii consumatori si polarizzeranno verso le forme d'una democrazia liberale, ovverossia conservatrice. E che, invece, i gruppi medii produttori si orienteranno senza riserve verso una democrazia che, avendo in comune col socialismo l'idea centrale del lavoro, non si rifiuterà a nessuna esperienza storica desunta da questa idea.

MASSIMO FOVEL