Per la riforma tributaria dei ComuniUn semplice sguardo ad un bilancio comunale rende di colpo chiara l'entità finanziaria dei tributi pagati dai cittadini ai Comuni, sotto le diverse forme di imposte e sovraimposte dirette reali e sul reddito, di imposte indirette per dazi od altro, e di tasse afferenti o non afferenti a servizi pubblici. Essi tributi rappresentano sempre non meno del 75% delle entrate comunali, tenendo presente che il solo dazio consumo va quotato per più della metà. Le voci che danno un più ampio gettito sono oltre le sovrimposte sui terreni, sui fabbricati e sulla ricchezza mobile, l'imposta di famiglia, quella sugli esercizi e rivendite, sul bestiame, ed infine il dazio sui consumi. - Non tutti questi tributi avevano l'importanza che hanno attualmente prima del Decreto-Legge 7 Aprile 1921 n. 374, che per gli enti locali fu la manna provvidenziale. E' noto che con tale Decreto furono allargati del doppio i limiti delle due sovraimposte tradizionali dei terreni e dei fabbricati, mentre fu concessa la facoltà di sovrimporre sulle aliquote statali della ricchezza mobile e dei profitti di guerra, nell'istesso tempo che furono elevate le aliquote di altre varie minori tasse precedentemente esistenti, ed altre pure minori furono di nuovo create. Emettere il sopraricordato decreto-legge fu più che necessario, doveroso, poiché gli Enti locali dopo il surmenage a cui furono costretti dallo Stato durante la guerra, versavano in condizioni economicamente disastrose. Oberati di debiti e di mansioni si trovavan ridotti a dover far fronte ai loro impegni o colla sistematica accensione di mutui (molti Comuni provvedevano alle spese ordinarie con essi!), o col sempre più eccessivo inasprimento dei dazi e delle tasse di famiglia, sul bestiame (nelle zone agricole) e d'esercizio, e sulle are fabbricabili e sul valor locativo (nei Comuni di prima e di seconda classe), che andavan generalmente ad incidere tanto lo scarso reddito di categorie mediocremente ricche, quanto la indigenza delle classi più misere. Col decreto-legge del 7 Aprile 1921 si può dire che è incominciato il risanamento della finanza locale, la quale ha aumentato di proporzioni tanto nelle entrate che nelle uscite in modo spettacoloso, sì da impressionare non solo i profani, ma economisti di alto valore, i quali evidentemente si sono dimenticati di valutare le partite a moneta svalutata; poiché avrebbero subito visto (all'infuori che lo spirito di parte non avesse loro fatto velo) che le spettacolose somme del 1921 sono proporzionalmente identiche a quelle del 1913 e 14 tanto nelle entrate che nelle uscite, quando proprio non gli sono inferiori. Una prova della verità di quanto asseriamo la si potrebbe avere nell'esame degli odierni stipendi degli impiegati che ragguagliati con quelli del 1913-14 sono proporzionalmente inferiori a motivo dello sviluppo della carta-moneta nei confronti della moneta aurea. Nella consapevolezza del necessario consolidamento dei bilanci degli Enti locali e nel doveroso desiderio d'iniziare finalmente la tanto auspicata riforma tributaria sono stati formati i successivi decreti-legge del 18 novembre 1923, n. 2538 e 3 dicembre 1923, n. 3063; seguendo la falsariga che precedenti uomini politici avevano tracciato. I voti dei popolari formulati da Luigi Sturzo in seno alla Sottocommissione reale il 12 Agosto 1921 e da essa approvati, trovano soltanto ora applicazione, dopo un quadriennale sonno in fondo al cassetto. Coi decreti-legge sopracitati l'aliquota della sovraimposta comunale sulla tassa di ricchezza mobile viene limitata al 5 %, mentre si proibisce di continuare la sovraimposizione sui redditi di guerra. Vengono inoltre abolite le tasse di famiglia (D.L. 30 Dicembre 1923, n. 3063) sul valor locativo, di esercizio e rivendita, sulle aree fabbricabili, e di soggiorno. A sostituire le tasse di famiglia e sul valor locativo viene istituita un'imposta sul reddito consumato avente lo scopo di colpire la ricchezza, prendendo quali indizi di essa le vetture di ogni genere, i cavalli non destinati al lavoro, i domestici, i cani di lusso, i pianoforti, i biliardi, l'abbonamento e la proprietà di palchi e poltrone nei teatri, ecc. E' in certo modo un duplicato di altre tasse comunali già esistenti sulle vetture, sui domestici, sul bestiame, sui cani, sui biliardi e sui pianoforti. In confronto alla soppressa tassa di famiglia ha i difetti di essere più odiosa e fiscale, e meno redditizia. A sostituire le sovraimposte sulla ricchezza mobile e sui profitti di guerra e la tassa di esercizio e rivendita, viene istituita a favore dei Comuni la imposta complementare sui redditi superiori alle L. 2000 da applicare a "chiunque eserciti un'industria, un commercio, un'arte od una professione", accordando alle province la facoltà di applicare un'addizionale che non dovrà superare l'aliquota dell' 1 %. A completamento di questa imposta viene in aggiunta istituita una tassa annuale di patente a carico di chi eserciti un'industria, un commercio, un'arte o una professione per cui non possa essere assoggettato all'imposta sulle industrie e i commerci e le professioni, perché producente un reddito inferiore alla quota di L. 2000. Questa tassa è in certo modo un duplicato della tassa sulle insegne e come essa di scarso gettito. A sostituire l'imposta sulle aree fabbricabili viene istituita un'imposta di manutenzione stradale avente lo scopo di colpire quelle industrie che in dipendenza dell'esercizio del loro commercio, producono un deterioramento alle strade; mentre a sostituire l'imposta sul valore locativo viene istituita l'imposta chiamata di miglioria che ha lo scopo di colpire il maggior reddito risultante dagli stabili in grazie ad opere pubbliche eseguite dal Comune, abbiano ricevuto un miglioramento. A sostituire infine la tassa di soggiorno, viene data facoltà ai Comuni di elevare la tassa sugli esercizi di rivendita di bevande alcooliche e vinose fino al 50 % del valor locativo dell'esercizio (per le bevande alcooliche) e del 20 % per le bevande vinose. Queste disposizioni non sono state ancora applicate poiché i migliori pubblicisti della materia e gli Enti interessati essendo stati concordi nel denunziare lo scarso gettito delle nuove imposte nei confronti di quelle abolite, hanno indotto il Ministero a differire l'applicazione al Gennaio del 1926, dopo il qual termine quella che è considerata la riforma tributaria fascista degli Enti locali dovrà avere senz'altro attuazione. (Vedi il R. D. L. 23 maggio 1924, n. 759). Le tasse di famiglia, sul valor locativo, sugli esercizi e rivendite, sono mantenute in vigore sino al 3l Dicembre 1925 come si è detto, colla sola differenza che le aliquote delle tasse di famiglia e sul valor locativo vengono ridotte di un quarto allorché sono applicate assieme alla complementare che le dovrebbe sostituire. E' poi portata l'aliquota della tassa di patente al limite massimo del 3 %, dall' 1 % che era. Anche questo sino e non oltre il 31 Dicembre 1925. Giunti a questo punto noi dobbiamo chiederci: la riforma tributaria voluta dal Ministro De Stefani risolve sul serio il problema della ricostruzione finanziaria degli Enti locali o non piuttosto l'aggrava? Noi rispondiamo senza reticenza di no. Poiché a parte il minor presunto gettito, a noi sembra che il fiscalismo delle nuove imposte sul reddito consumato, sulle industrie, i commerci e le professioni, non possa non far pensare con nostalgia alla razionalità dell'imposta sugli esercizi e rivendite che aveva per lo meno il merito di rispettare l'economia comunale, di essere oggettiva e di non essere eccessivamente coartatrice. Non parliamo poi dell'imposta di manutenzione stradale per nulla razionale e giusta, poiché il maggior carico di essa sarà destinato a cadere sulle industrie pesanti, che non sono di regola le più redditizie e da cui è logico derivi un vespaio interminabile di contese fra gli Enti ed i contribuenti per la ripartizione degli oneri e delle spese. Un'imposta lodevole é infine quella di miglioria che sostituisce quella sulle aree fabbricabili; allo stesso modo che lodevoli sono gli inasprimenti delle tasse sulla rivendita delle bevande alcooliche e vinose. Ma questi piccoli meriti non possono farci accettare la progettata riforma che è contraria non solo agli interessi, ma all'autonomia dei comuni. Per risanare le finanze comunali è necessario svincolare gli Enti locali dalla pesante tutela dello Stato, per ridonar loro la primitiva e gloriosa autonomia che non dev'essere politica e giuridica, é inutile dirlo, ma finanziaria esclusivamente, meglio, tributaria. Un ritorno puro e semplice alle vecchie idee del Wollemborg (sottoscritte da Sonnino e da Bonomi) si impone: ai Comuni devono finalmente essere devolute le imposte reali, ed allo Stato lasciate quelle personali, poiché così vogliono la ragione e la giustizia. E' necessario che la politica tributaria iniziata dopo il 1902 coll'apertura delle cinte daziarie venga allargata e approfondita, nel senso che ai Comuni vengono gradatamente lasciati i tributi della proprietà immobiliare e fondiaria, che possono, meglio dello Stato, controllare (questo si dice anche in considerazione della necessaria lentezza colla quale procedono i lavori di accertamento Catastale: 16 provincie su 72 in 40 anni di lavoro pagavano - prima della decretata moltiplicazione per quattro del reddito - le imposte del reddito - le imposte in base al nuovo estimo; ed a quest'ultimo vengano devoluti quelli riferentisi alla ricchezza personale ed ai consumi; in considerazione anche della diversità della loro funzioni: che sono particolari e locali quelle degli uni (i Comuni) e generali ed estese quelle dell'altro (lo Stato). Siano insomma lasciate ai singoli Enti le mansioni che sono nella loro natura e nel loro carattere, coll'avocare del tutto ai Comuni ed agli altri Enti locali quanto si riferisce alla vita amministrativa delle città, e col devolvere allo Stato ed agli altri minori Enti politici che esistono o che eventualmente avessero a sorgere (Provincie, Regioni), quanto si riferisce alla vita politica, militare, igienica e civile dei cittadini. Solo in tal modo noi pensiamo che si potrà parlare d'autonomia, e smettere una buona volta la politica dei cerotti che da lungo tempo vige nel campo della legislazione tributaria. ARMANDO CAVALLI
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